Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Sentenza n.957 del 20/01/2010

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE LUCA Michele – Presidente –

Dott. IANNIELLO Antonio – Consigliere –

Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere –

Dott. DI CERBO Vincenzo – Consigliere –

Dott. NOBILE Vittorio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

su ricorso 20148-2006 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PO 25/B, presso lo studio dell’avvocato PESSI ROBERTO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato TRIFIRO’ SALVATORE, giusta mandato a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

M.C., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA A.

REGOLO 19, presso lo studio dell’avvocato LIPERA GIUSEPPE, rappresentato e difeso dall’avvocato SIRACUSA ANTONIO, giusta mandato a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 473/2005 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 01/07/2005 r.g.n. 523/04;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10/12/2009 dal Consigliere Dott. VITTORIO NOBILE;

udito l’Avvocato MARIO MICELI per delega PESSI ROBERTO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FEDELI Massimo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza n. 117/2003 il Giudice del lavoro del Tribunale di Milano, in accoglimento della domanda proposta da M. C. nei confronti della s.p.a. Poste italiane, dichiarava la nullità del termine apposto al contratto di lavoro stipulato tra le parti per “esigenze eccezionali” ex art. 8 ccnl 1994 come integrato dall’acc. az. 25-9-97, per il periodo 1-3-2000/30-6-2000, con conseguente sussistenza fra le parti di un rapporto a tempo indeterminato, e condannava la società al pagamento delle retribuzioni maturate dall’atto di messa in mora alla ripresa del rapporto.

La società proponeva appello avverso la detta sentenza, chiedendone la riforma con il rigetto della domanda di controparte.

Il M. si costituiva e resisteva al gravame.

La Corte di Appello di Milano, con sentenza depositata il 1-7-2005, confermava la sentenza appellata e condannava l’appellante al pagamento delle spese.

Per la cassazione di tale sentenza la società ha proposto ricorso con cinque motivi.

Il M. ha resistito con controricorso.

Infine la società ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo la ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso che nella fattispecie si fosse verificata una risoluzione del rapporto per mutuo consenso.

Come questa Corte ha più volte affermato “nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinchè possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo; la valutazione del significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto” (v. Cass. 10-11-2008 n. 26935, Cass. 28-9-2007 n. 20390, Cass. 17-12-2004 n. 23554, Cass. 11- 12-2001 n. 15621).

Tale principio va ribadito anche in questa sede, rilevando, inoltre che, come pure è stato precisato, “grava sul datore di lavoro, che eccepisca la risoluzione per mutuo consenso, l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro” (v. Cass. 2-12-2002 n. 17070).

Orbene sul punto la Corte d’Appello ha ritenuto che nella specie non sono emerse nè la prova della consapevolezza da parte del lavoratore della illegittimità della apposizione del termine e della conseguente prosecuzione del rapporto nè, comunque, circostanze diverse dalla mera protrazione dell’inerzia e neppure una inerzia protrattasi per un lungo e rilevante tempo.

Tale decisione è conforme al principio sopra richiamato e, risultando altresì congruamente motivata, resiste alla censura della ricorrente.

Riguardo, poi, alla nullità della clausola appositiva del termine osserva il Collegio che la Corte di merito, ha attribuito rilievo decisivo in particolare alla considerazione che: “organizzazioni sindacali che conclusero l’intesa originaria priva di termine ne siglarono contestualmente altra che ha riconosciuto trovarsi l’impresa nelle condizioni previste sino al 31 gennaio 1998 ed hanno poi raggiunto posteriori accordi che hanno indicato la possibilità di procedere ad assunzioni di personale straordinario con contratto a tempo determinato entro date successive e da ultimo entro il 30 aprile 1998 .. l’assunzione di cui si discute, successiva al 30-4- 1998, è allora priva di strumento derogatorio …”.

Tale considerazione – in base all’indirizzo ormai consolidato in materia dettato da questa Corte (con riferimento al sistema vigente anteriormente al ccnl del 2001 ed al D.Lgs. n. 368 del 2001) – è sufficiente a sostenere la impugnata decisione, in relazione alla nullità del termine apposto al contratto de quo (stipulato “per esigenze eccezionali” in data successiva al 30-4-1998).

Al riguardo, sulla scia di Cass. S.U. 2-3-2006 n. 4588, è stato precisato che “l’attribuzione alla contrattazione collettiva, della L. n. 56 del 1987, ex art. 23 del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla L. n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di procedere ad assunzioni a tempo determinato” (v. Cass. 4-8-2008 n. 21063,v, anche Cass. 20-4-2006 n. 9245, Cass. 7-3-2005 n. 4862, Cass. 26-7-2004 n. 14011). “Ne risulta, quindi, una sorta di delega in bianco a favore dei contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatari, non essendo questi vincolati alla individuazione di ipotesi comunque omologhe a quelle previste dalla legge, ma dovendo operare sul medesimo piano della disciplina generale in materia ed inserendosi nei sistema da questa delineato”. (v., fra le altre, Cass. 4-8-2008 n. 21062, Cass. 23-8-2006 n. 18378).

In tale quadro, ove però un limite temporale sia stato previsto dalle parti collettive (anche con accordi integrativi del contratto collettivo) la sua inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione del termine (v. fra le altre Cass. 23-8-2006 n. 18383, Cass. 14-4-2005 n. 7745, Cass. 14-2-2004 n. 2866).

In particolare, nella specie, come questa Corte ha ripetutamente affermato e come va anche qui enunciato, “in materia di assunzioni a termine di dipendenti postali, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8 del c.c.n.l. 26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998; ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto normativo derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi contratti a tempo indeterminato, in forza della L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1” (v., fra le altre, Cass. 1-10-2007 n. 20608, Cass. 27-3-2008 n. 7979, Cass. 18378/2006 cit.).

Tale interpretazione degli accordi attuativi (ed in specie dell’ultimo citato) è fondata sul significato letterale delle espressioni usate che è così evidente e univoco (“in conseguenza di ciò e per far fronte alle predette esigenze si potrà procedere ad assunzioni di personale straordinario con contratto a tempo determinato fino al 30-4-98”) che non necessita di un più diffuso ragionamento al fine della ricostruzione della volontà delle parti (cfr., ex plurimis, Cass. n. 28 agosto 2003 n. 12245, Cass. 25 agosto 2003 n. 12453), mentre, diversamente opinando – ritenendo cioè che le parti non avessero inteso introdurre limiti temporali alla deroga – si dovrebbe concludere che gli accordi attuativi, così definiti dalle parti sindacali, fossero in sostanza “senza senso” (così testualmente Cass. n. 14 febbraio 2004 n. 2866).

Peraltro al riguardo irrilevante è l’accordo del 18 gennaio 2001, invocato dalla società, in quanto stipulato dopo oltre due anni dalla scadenza dell’ultima proroga; ed infatti, ammesso che le parti stipulanti abbiano espresso l’intento di interpretare autenticamente gli accordi precedenti, con effetti di sanatoria delle assunzioni a termine effettuate senza la copertura dell’accordo 25 settembre 1997 (scaduto in forza degli accordi attuativi), considerata la indisponibilità dei diritti dei lavoratori già perfezionatisi, deve comunque escludersi che le parti stesse avessero il potere, anche mediante lo strumento dell’interpretazione autentica (previsto solo per lo speciale settore del lavoro pubblico, secondo la disciplina nel D.Lgs. n. 165 del 2001), di autorizzare retroattivamente la stipulazione di contratti a termine non più legittimi per effetto della durata in precedenza stabilita (vedi, per tutte, Cass. 12 marzo 2004 n, 5141).

Va pertanto confermata la nullità del termine apposto al contratto de quo, così rigettandosi in particolare il quarto motivo di ricorso (in ordine alla natura ed alla interpretazione degli accordi intervenuti), restando, peraltro, assorbiti, il secondo e il terzo, concernenti ulteriori profili di illegittimità della clausola appositiva del termine.

Infine con il quinto motivo la ricorrente in sostanza lamenta che la Corte di merito avrebbe confermato la decisione del primo giudice, che aveva disposto il pagamento delle retribuzioni dalla comunicazione del tentativo obbligatorio di conciliazione, senza verificare la sussistenza di una effettiva messa in mora.

Il motivo è in parte inammissibile e in parte infondato.

La Corte di Appello, sul punto ha ritenuto “l’obbligo del datore di lavoro di ripristinare il rapporto corrispondendo al lavoratore le retribuzioni maturate dalla data di messa in mora, individuabile in qualsiasi atto contenente l’intimazione a ricevere la prestazione”, ivi compresa “la richiesta di convocazione avanti la Commissione di conciliazione”.

Tale accertamento, prettamente di fatto, riservato al giudice del merito, è stato, quindi, effettuato dalla Corte territoriale in conformità con l’indirizzo più volte dettato da questa Corte (v. fra le altre Cass. 27-3-2008 n. 7979).

La società, del resto, ha censurato tale decisione in modo del tutto generico, senza neppure riportare il testo della comunicazione in oggetto, che, secondo l’assunto della ricorrente, non avrebbe integrato a ravvisata messa in mora.

Del resto più volte questa Corte ha affermato che ben può essere ravvisata la messa in mora anche nella comunicazione della convocazione per il tentativo obbligatorio di conciliazione (v. fra le altre Cass. 28-7-2005 n. 15900, Cass. 30-8-2006 n. 18710).

Il ricorso va pertanto respinto e la ricorrente va condannata al pagamento delle spese in favore del M..

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore del M., delle spese liquidate in Euro 27,00 oltre Euro 2.000,00 per onorari, oltre spese generali; IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 10 dicembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 20 gennaio 2010

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