Corte di Cassazione, sez. III Civile, Sentenza n.979 del 21/01/2010

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VARRONE Michele – Presidente –

Dott. MASSERA Maurizio – Consigliere –

Dott. URBAN Giancarlo – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Adelaide – Consigliere –

Dott. AMBROSIO Annamaria – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 1885-2007 proposto da:

S.G., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA ATTILIO FRIGGERI 13, presso lo studio dell’avvocato RUO MARIA GIOVANNA, rappresentato e difeso dall’avvocato ZAZZERI ELENA DE SANTIS con delega in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

A.C.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 1857/2005 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, Seconda Sezione Civile, emessa il 13/07/2005, depositata il 19/12/2005; R.G.N. 530/2003;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 19/10/2009 dal Consigliere Dott. ANNAMARIA AMBROSIO;

udito l’Avvocato ELENA ZAZZARI DE SANTIS;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MARINELLI Vincenzo che ha concluso per il rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1.1. Con citazione notificata in data 12-5-1994 A.C. conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Firenze S. G., quale titolare della Associazione ***** (ora sciolta), per sentirlo condannare al risarcimento dei danni da lui subiti in conseguenza di una caduta da cavallo, avvenuta il ***** durante una passeggiata organizzata dalla suddetta associazione.

Si costituiva S.G., che contestava la domanda, deducendo che il fatto si era verificato per caso fortuito o forza maggiore; chiedeva e otteneva di chiamare in causa la FONDIARIA Assicurazioni, che – costituendosi in giudizio – deduceva l’inoperatività della polizza.

Con sentenza in data 22-3-2002, il Tribunale di Firenze rigettava sia la domanda dell’ A. che quella di garanzia dello S. (statuizione, quest’ultima, passata in giudicato).

1.2. La sentenza, gravata da appello principale dell’ A. e, con riguardo alla statuizione sulle spese, da appello incidentale dello S., era riformata dalla Corte di appello di Firenze, la quale con sentenza in data 13-7-2005 – per quanto qui interessa – condannava S.G. al pagamento in favore di A. C. della somma di Euro 14.685,00 oltre accessori a titolo risarcimento danni, nonchè al rimborso delle spese del doppio grado.

1.3. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione S.G., svolgendo cinque motivi.

Nessuna attività difensiva è stata svolta da parte dell’intimato A..

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. I primi tre i primi motivi di ricorso hanno tutti ad oggetto, sotto vario profilo, la censura di violazione e falsa applicazione dell’art. 2052 c.c. in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3.

1.1. In particolare, con il primo motivo (intitolato “sul concetto di controllo dell’animale”), il ricorrente – premesso che egli non era il “titolare”, ma uno dei soci fondatori dell'***** e che detta società non aveva scopi di lucro – deduce che il presupposto della responsabilità ex art. 2052 c.c. va individuato nel “controllo” dell’animale da parte del proprietario o di altri che, avendone la capacità e l’esperienza, sia in grado di gestire l’animale per il tempo in cui si trova in relazione con l’animale stesso (ovvero nel caso in cui l’animale sia fuggito, nella perdita colpevole di tale controllo). Muovendo da tale premessa, si duole che la Corte di appello abbia affermato la responsabilità dell'*****, ritenendo che chi ha “in uso” il cavallo è il gestore del maneggio che esercita la relativa attività economica, traendone profitto, a favore del cliente e non quest’ultimo (che altrimenti sarebbe responsabile dei danni che il cavallo, senza sua colpa, può cagionare ad altri clienti del maneggio). A parere del ricorrente, muovendosi in tale prospettiva, si dovrebbe ipotizzare un altro caso oltre il fortuito (“un cono d’ombra”), in cui non si applicherebbe l’art. 2052 c.c. rappresentato dal caso in cui l’animale è nel controllo di un terzo che ne fa un uso autonomo non coincidente con il profitto economico, ma finalizzato, ad es., ad un interesse di svago, altrettanto meritevole. Ed è ciò che si sarebbe verificato nel caso di specie in cui l’animale era cavalcato fuori dal maneggio, da un adulto, dichiaratosi esperto e, quindi, nelle condizioni di poter gestire l’animale.

1.2. Con il secondo motivo (intitolato “sul concetto di chi se ne serve”) , costituente sviluppo del precedente, il ricorrente deduce che – se si vuole evitare di ipotizzare il “cono d’ombra” di cui si è detto – deve adottarsi un’ interpretazione estensiva della norma che, in tal modo finirebbe per comprendere tutte le ipotesi di “controllo” dell’animale ancorchè non finalizzate a un profitto economico. In sostanza, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte di appello, il “far uso” dell’animale non sarebbe solo quello finalizzato al profitto economico, ma anche quello volto alla realizzazione di un interesse autonomo diverso da quello che il proprietario avrebbe tratto o traeva.

1.3. Con il terzo motivo (intitolato “sul caso fortuito”) si deduce l’insussistenza nella fattispecie dei presupposti della responsabilità oggettiva, sotto altro profilo, e cioè per l’intervento di un fattore esterno, che, interferendo in maniera imprevedibile e inevitabile nel “controllo” del proprietario, avrebbe integrato il fortuito, interrompendo il nesso di causalità tra cavallo e danno. Il caso fortuito sarebbe rappresentato dal comportamento dell’ A. che in via autonoma e imprevedibile – anche per gli altri cavalieri della comitiva – si era buttato deliberatamente dal cavallo, causandosi il danno lamentato.

1.4. Con il quarto motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. e omessa o insufficiente motivazione della sentenza impugnata ex art. 360 c.p.c., n. 5. Con questo motivo il ricorrente lamenta che la Corte territoriale non abbia preso in considerazione un documento prodotto unitamente alla comparsa di risposta in secondo grado, contenente la dichiarazione dell’ A. di essere esperto di equitazione;

assume che il documento era necessario ai fini della decisione in quanto stava a dimostrare l’esperienza del cavaliere, giustificando l’uscita dal maneggio fuori del controllo diretto dell’istruttore/proprietario.

1.5. Con il quinto motivo si deduce omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5. Il ricorrente lamenta che la Corte di appello – pur dando atto che era stato l’ A. a buttarsi a terra – abbia escluso che tale reazione avesse interrotto il nesso causale e, anzi, ignorando le regole dell’equitazione, abbia ritenuto che, nella circostanza, buttarsi a terra fosse l’unica cosa da fare. A parere del ricorrente, qualora si ritenesse applicabile l’art. 2052 c.c. si dovrebbe ritenere, comunque, interrotto il nesso causale, per il caso fortuito rappresentato dall’improvvisa reazione del cavallo davanti a un cane minaccioso e per la deliberata caduta del cavaliere ovvero in subordine, occorrerebbe ravvisare un concorso di colpa del A..

2. I motivi, per la stretta connessione delle tematiche, debbono essere oggetto di trattazione unitaria.

2.1. Va premesso che la questione della “titolarità” da parte dell’odierno ricorrente della disciolta ***** (espressione evidentemente atecnica, con cui si è inteso far riferimento alla posizione dello S. di socio e responsabile dell’attività svolta dall’associazione) costituisce questione di fatto, attinente alla titolarità passiva del rapporto, che non risulta posta in discussione in sede di merito e non è più discutibile in questa sede.

Anche la questione delle finalità (asseritamente non di lucro) perseguite dall’associazione e del profitto economico riferibile, invece, ad altro titolare di impresa (l’albergo, che si sarebbe avvalso dei cavalli dell’associazione, presso il quale avrebbe alloggiato l’ A.) rimanda a dati extratestuali non verificabili in quanto tali in questa sede.

2.1.2. Quanto alla documentazione che sarebbe stata prodotta in appello, in ordine alla qualità di “esperto cavaliere” dell’ A., il Collegio ritiene la censura del tutto inappagante, avuto riguardo al criterio dell’autosufficienza, desumibile dall’art. 366 c.p.c., in base al quale il ricorso per cassazione deve contenere tutte le allegazioni, eccezioni ed elementi di fatto e diritto necessari per illustrare alla Corte regolatrice le doglianze del ricorrente e le ragioni della statuizione di cassazione della pronuncia gravata. A tale fine non è possibile il rinvio a fonti estranee allo stesso ricorso e quindi ad elementi od atti attinenti al pregresso giudizio di merito, con la conseguenza che deve rigettarsi l’impugnazione i cui motivi siano limitati alla semplice indicazione degli articoli di legge asseritamente violati e sia omessa la critica puntuale alla sentenza di merito anche tramite il richiamo agli atti processuali suscettibili di sostenere le doglianze formulate nel ricorso (Cass. civ., Sez. 5, 14/05/2008, n. 12061). In particolare il ricorrente per cassazione il quale deduca la omessa motivazione della sentenza impugnata in relazione alla valutazione di una decisiva risultante processuale, ha l’onere non solo di indicare in modo adeguato e specifico la risultanza medesima, ma anche di precisare in quali atti e con quali formule, riprodotte testualmente, aveva sottoposto all’esame dal giudice di appello la questione di cui lamenta la mancata soluzione.

Nel caso di specie il ricorrente lamenta che la Corte territoriale abbia omesso di pronunciare su un documento prodotto solo in secondo grado, senza, peraltro, riprodurre integralmente il testo del documento e senza neppure precisare se e in quali esatti termini le questioni dell’ammissibilità e della rilevanza di siffatta produzione documentale in appello vennero prospettate al giudice a quo. In tal modo risulta assolutamente inadempiente all’onere di rappresentare la decisività del vizio dedotto.

3. Così circoscritte le risultanze procedimentali, in punto di fatto occorre far riferimento a quanto accertato dalla Corte di appello, secondo cui l’incidente si verificò in occasione di una passeggiata organizzata da *****, su un percorso scelto dalla stessa e con cavalli suoi, alla quale parteciparono l’ A., sua moglie, un’istruttrice del maneggio e lo S., questi ultimi rispettivamente in testa e in coda al gruppo. In particolare dalla decisione impugnata risulta che durante la passeggiata, alla vista di un cane pastore tedesco di proprietà di estranei, i cavalli si impaurirono, dandosi alla fuga e facendo cadere i cavalieri e che di conseguenza l’ A. subì delle lesioni.

3.1. In punto di diritto si osserva che – contrariamente a quanto dedotto ritenuto da parte ricorrente – la responsabilità del proprietario dell’animale, ex art. 2052 c.c., costituisce una ipotesi di responsabilità oggettiva, fondata non già sulla colpa (per omesso “controllo”), bensì sul rapporto di fatto con l’animale (cfr.

Cass. civ., Sez. 3, 04/12/1998, n. 12307 soprattutto in motivazione), di tal che la dottrina preferisce parlare di presunzione di responsabilità e non di presunzione di colpa. Invero il responsabile del danno cagionato da animali è “il proprietario di un animale o chi se ne serve per il tempo in cui lo ha in uso”, salvo che provi il caso fortuito.

3.1.1. Merita svolgere alcune considerazioni emergenti dalla stessa lettera della legge.

Innanzitutto l’alternatività posta dalla norma tra il proprietario dell’animale o colui che se ne serve “per il tempo in cui lo ha in uso” evidenzia come “tenere in uso” l’animale significa esercitare su di esso un potere effettivo di governo del tipo di quello che normalmente compete al proprietario, derivi questo da un rapporto giuridico o di fatto. Il che vuoi dire anche che ciò che rileva non è tanto la finalità (di profitto economico o meno), quanto, piuttosto, il “tipo” di uso esercitato, qualificato dal governo dell’animale, che normalmente compete al proprietario. Ne consegue che, di norma, la responsabilità grava sul proprietario, perchè questi “fa uso” dell’animale. Perchè la responsabilità gravi su un altro soggetto occorre che il proprietario, giuridicamente o di fatto, si sia spogliato di detta facoltà; mentre se il proprietario continua ad avere ingerenza nel governo dell’animale, egli continua a “fare uso” dello stesso animale, sia pure per il tramite del terzo, restando responsabile di qualunque danno.

3.1.2. Per altro verso il testuale riferimento ai danni cagionati dall’animale (e non da un comportamento, per quanto omissivo, del responsabile), unitamente all’individuazione del limite della responsabilità nell’intervento di un fattore (il caso fortuito) estraneo al un comportamento del responsabile, evidenziano che al proprietario (o all’utilizzatore) dell’animale che ha causato il danno, per andare esente da responsabilità, non è sufficiente fornire la prova negativa della propria assenza di colpa, occorrendo, invece, la prova positiva che il danno è stato causato da un evento fortuito (cioè imprevedibile, inevitabile, assolutamente eccezionale).

In definitiva la responsabilità si fonda, non su un comportamento del proprietario, bensì su una relazione (di proprietà o di uso) intercorrente tra questi e l’animale, per cui solo lo stato di fatto e non l’obbligo di vigilanza o di controllo può assumere rilievo.

Correlativamente la prova liberatoria ha per oggetto un fattore (il caso fortuito) che attiene non ad un comportamento del responsabile, ma al profilo causale, in quanto suscettibile di una valutazione che consenta di ricondurre all’elemento esterno, anzichè all’animale che ne è fonte immediata, il danno concretamente verificatosi.

3.2. Ciò posto, osserva il Collegio che la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione della norma, ritenendo l’associazione e, per essa, lo S. responsabile ex art. 2052 c.c. del danno cagionato dal cavallo di proprietà e “in uso” all’associazione stessa. Invero nella situazione descritta – in cui la proprietà degli animali, l’organizzazione della passeggiata, la scelta e la guida del percorso, nonchè la stessa andatura dei cavalli (con la presenza dello S. in testa e dell’istruttrice in coda al gruppo) fanno riferimento sempre all’associazione – deve ritenersi che la stessa abbia continuato ad avere “in uso” il cavallo, sia pure per il tramite dell’ A., avendo mantenuto la propria ingerenza nel governo dell’animale.

3.3. Inoltre – avuto riguardo ai requisiti dell’imprevedibilità, dell’inevitabilità e dell’assoluta eccezionaiità che, per quanto innanzi detto, devono caratterizzare il fortuito – la motivazione della decisione impugnata si rivela, pur nella sua sinteticità, comunque appagante, sotto il profilo logico-giuridico, anche nel punto in cui ha escluso che sia stata raggiunta la prova liberatoria.

Invero – come evidenziato dai giudici di appello – la presenza di un cane lungo il percorso non rappresenta affatto un’eccezionaiità rispetto a quella che è la normalità di una passeggiata in campagna; così come la motivazione regge per riferire campalmente l’incidente in via esclusiva al cavallo, laddove ritiene “comprensibile” – e, perciò, nient’affatto eccezionale e neppure imprevedibile e/o inevitabile – la decisione dell’ A. di buttarsi a terra, posto che la reazione dei cavalli alla vista del cane fu tale che tutti i cavalieri vennero disarcionati e che, in particolare, il cavallo, montato dall’ A., stava per partire a galoppo.

In definitiva nessuna delle censure coglie nel segno.

Il ricorso va, dunque, rigettato. Nulla va disposto in ordine alle spese in difetto di attività difensiva.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese.

Così deciso in Roma, il 19 ottobre 2009.

Depositato in Cancelleria il 21 gennaio 2010

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