Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Sentenza n.37 del 03/01/2011

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FOGLIA Raffaele – Presidente –

Dott. PICONE Pasquale – Consigliere –

Dott. STILE Paolo – Consigliere –

Dott. D’AGOSTINO Giancarlo – rel. Consigliere –

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 7218-2007 proposto da:

D.S.D., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DELLA BALDUINA 66, presso lo studio degli avvocati SPAGNUOLO GIUSEPPE, SPAGNUOLO SILVIA, che la rappresentano e difendono giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

ENEL SERVIZI S.R.L. (già denominata ENEL APE S.R.L.), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PO 25/B, presso lo studio dell’avvocato GENTILE GIOVANNI GIUSEPPE, che la rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 6644/2005 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 08/03/2006 R.G.N. 8091/2004;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 25/11/2010 dal Consigliere Dott. GIANCARLO D’AGOSTINO;

udito l’Avvocato SPAGNUOLO GIUSEPPE;

udito l’Avvocato GENTILE GIOVANNI GIUSEPPE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FEDELI MASSIMO che ha concluso per il rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso del 5.12.2003 D.S.D. chiedeva al Tribunale di Roma di dichiarare l’annullamento del licenziamento disciplinare intimatole dal datore di lavoro ENEL APE s.r.l. in data 10 ottobre 2003. a seguito di contestazione di addebito del 24.9.2003, con tutte le conseguenze di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18.

La società si costituiva e resisteva.

Il Tribunale espletata l’istruzione, con sentenza del 15.7.2004 rigettava la domanda sul rilievo che era emerso che la lavoratrice, abusando della abilitazione ad effettuare le variazioni retributive, nel periodo compreso tra dicembre 2002 e agosto 2003 si era abusivamente accreditata la somma di Euro 2.992,30 e nel settembre 2003 aveva tentato di accreditarsi la somma di Euro 550,97.

L’appello proposto dalla D.S. veniva respinto dalla Corte di Appello di Roma con sentenza depositata l’8 marzo 2006. La Corte territoriale osservava che il comportamento illecito della lavoratrice, dalla stessa riconosciuto in sede di risposta alla comunicazione degli addebiti, configurando un reato contro il patrimonio, era stato tale da ledere il rapporto di fiducia con il datore di lavoro sicchè la sanzione espulsiva era del tutto proporzionata all’illecito commesso.

Per la cassazione di tale sentenza D.S.D. ha proposto ricorso sostenuto da due motivi. La società intimata ha resistito con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo di ricorso, denunciando violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., violazione dell’art. 2697 c.c. e vizi di motivazione, la ricorrente addebita alla Corte territoriale di aver considerato la D.S. responsabile dell’illecito benchè mancasse la prova, non fornita dal datore di lavoro, che proprio la D.S. era fautore delle buste paga contenenti le variazioni retributive. Sostiene la ricorrente che gli errori erano dovuti al sistema contabile che aveva duplicato le voci retributive. Lamenta che il giudice di merito non aveva aderito alla richiesta della lavoratrice di ordinare alla società l’esibizione della contabilità relativa alla istante; se il giudice avesse ammesso ed esaminato detta documentazione avrebbe potuto facilmente dedurre l’innocenza dell’appellante. Si duole che il giudice di appello non abbia considerato che nel periodo in questione la D.S. era stata trasferita alla Wind, a quel tempo società del gruppo ENEL, per cui non poteva essersi resa responsabile degli illeciti in danno di ENEL APE; lamenta che la Corte ha erroneamente ritenuto di non dover prendere in considerazione i documenti attestanti tale trasferimento solo perchè prodotti tardivamente in appello.

Con il secondo motivo, denunciando violazione degli artt. 2106, 1175, 1375 e 2119 cod. civ. e vizi di motivazione, si sostiene che il giudice di appello non abbia adeguatamente motivato la sussistenza nella specie del requisito della proporzionalità della sanzione espulsiva con l’illecito contestato, avuto riguardo al fatto che per tale illecito non era stato avviato alcun procedimento penale, nonchè alle circostanza che la lavoratrice non aveva subito in passato altri procedimenti disciplinari e che il suo comportamento non aveva cagionato danni all’immagine ed al patrimonio della società.

I due motivi di ricorso, che è opportuno esaminare congiuntamente per la loro connessione, non sono meritevoli di accoglimento.

Dalla sentenza impugnata si ricava che alla D.S. è stato contestato “di essersi abusivamente liquidate nel corso di più mesi, (in un periodo compreso tra il mese di dicembre 2002 quello di agosto 2003) la somma complessiva di Euro 2992,30 e ciò abusando dell’abilitazione rilasciatale per effettuare le variazioni retributive” e che “anche per il mese di settembre 2003 l’appellante ha tentato di liquidarsi importi per complessivi Euro 550,97 ad essa non spettanti”.

Sempre dalla sentenza impugnata si rileva che a seguito di tale contestazione la ricorrente con successiva comunicazione del 30.9.2003 ha espressamente dichiarato di non negare “di aver commesso l’infrazione….contestata, ma di essersi trovata nella necessità di aver dovuto far fronte ad urgenti ed imprevedibili spese mediche relative al precario stato di salute della propria madre”, in considerazione delle quali era stata “suo malgrado spinta ad appropriarsi di somme che certamente non le spettavano”.

La Corte territoriale, ritenuti per ammessi i fatti contestati, ha ritenuto provato che la lavoratrice ha fatto indebitamente uso dell’abilitazione legata alle proprie mansioni – password – per inserire nel sistema informatico della società dati relativi alla propria posizione retribuiva onde ottenere l’accreditamento di spettanze non dovute.

La Corte ne ha dedotto che gli illeciti commessi dalla lavoratrice.

astrattamente configurabili come reati, rappresentano grave violazione dei doveri fondamentali incombenti sul lavoratore che configurano una giusta causa di licenziamento, non essendo necessaria nè la espressa previsione dell’illecito nel codice disciplinare, nè la effettiva instaurazione di un giudizio penale.

Quanto poi alla proporzionalità tra infrazioni ascritte e sanzioni comminate, la Corte territoriale ha ritenuto che le specifiche mancanze commesse dalla dipendente, considerate e valutate non solo nel loro contenuto obbiettivo (reiterazione della condotta illecita e sua protrazione per un rilevante arco di tempo), ma anche nella loro portata soggettiva, specie con riferimento alle particolari circostanze e condizioni in cui furono poste in essere, ai modi (nell’esercizio delle mansioni affidate a avvalendosi si un’abilitazione ad esse legata), all’intensità dell’elemento psicologico (condotta dolosa), siano obbiettivamente e soggettivamente idonee a ledere in modo grave la fiducia che la società datrice di lavoro ha riposto nella propria dipendente e tali da esigere una sanzione non minore di quella espulsiva.

Osserva la Corte che la valutazione delle prove ai fini dell’accertamento della sussistenza dell’illecito disciplinare contestato alla lavoratrice, la idoneità di tali illeciti a configurare giusta causa di licenziamento e l’apprezzamento della proporzionalità della sanzione espulsiva agli illeciti contestati, si sostanziano in valutazioni di fatto riservate al giudice di merito e non suscettibili di riesame in sede di legittimità se non per vizi di motivazione (cfr. tra le tante Cass. n. 11933/2003, n. 11045/2004, n. 16864/2006, n. 144/2008).

Nonostante il formale richiamo alla violazione di norme di legge, contenuto nella intestazione dei moti di ricorso ma privo di qualsiasi sviluppo nel corso dell’impugnazione, le censure si risolvono nel rilevare un vizio di motivazione della sentenza impugnata per errata valutazione da parte del giudice di merito del materiale probatorio acquisito.

Al riguardo va ricordato che la deduzione con il ricorso per cassazione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito della vicenda processuale, bensì la sola facoltà di controllo della correttezza giuridica e della coerenza logica delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, non essendo consentilo alla Corte di Cassazione di procedere ad una autonoma valutazione delle risultanze probatorie, sicchè le censure concernenti il vizio di motivazione non possono risolversi nel sollecitare una lettura delle risultanze processuali diverse da quella accolta dal giudice di merito (cfr. tra le tante Cass. n. 18214/2006, n. 3436/2006, n. 8718/2005).

Nella specie le valutazioni delle risultanze probatorie operate dal giudice di appello sono congruamente motivate e l’iter logico- argomentativo che sorregge la decisione è chiaramente individuabile, non presentando alcun profilo di manifesta illogicità o insanabile contraddizione.

In particolare non vale ad escludere la sufficienza della motivazione il fatto che gli illeciti commessi dalla D.S. non abbiano dato luogo a giudizio penale per truffa e tentata truffa ai danni del datore di lavoro, configurando comunque tali fatti illeciti una grave violazione dei doveri di fedeltà da parte del lavoratore. Quanto poi alla mancata ammissione in appello di un documento che, a dire della ricorrente, avrebbe provato la sua estraneità ai fatti, la censura è del tutto irrilevante in quanto la ricorrente non ne ha riprodotto il contenuto in ricorso. come era suo onere per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, sicchè questa Corte non è in grado di valutare la decisività della censura.

Per contro, le doglianze mosse dalla ricorrente si risolvono sostanzialmente nella prospettazione di un diverso apprezzamento delle stesse prove e delle stesse circostanze di fatto già valutate dal giudice di merito in senso contrario alle aspettative del medesimo ricorrente e si traducono nella richiesta di una nuova valutazione del materiale probatorio, del tutto inammissibile in sede di legittimità.

In conclusione, il ricorso deve essere respinto con conseguente condanna della ricorrente al pagamento in favore della resistente delle spese del giudizio di cassazione, nella misura liquidata in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 41,00 per esborsi ed in Euro tremila per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 25 novembre 2010.

Depositato in Cancelleria il 3 gennaio 2011

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