LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ROSELLI Federico – Presidente –
Dott. IANNIELLO Antonio – Consigliere –
Dott. BANDINI Gianfranco – rel. Consigliere –
Dott. DI CERBO Vincenzo – Consigliere –
Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 8732-2007 proposto da:
POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PO 25/B, presso lo studio dell’avvocato PESSI ROBERTO, rappresentata e difesa dall’avvocato GIAMMARIA GIACOMO, giusta delega in atti;
– ricorrente –
contro
G.A.;
– intimato –
avverso la sentenza n. 501/2 006 della CORTE D’APPELLO di LECCE, depositata il 20/03/2006 R.G.N. 1705/05;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 02/12/2010 dal Consigliere Dott. BANDINI Gianfranco;
udito l’Avvocato MICELI MARIO per delega GIAMMARIA GIACOMO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FEDELI Massimo che ha concluso per accoglimento per quanto di ragione.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La Corte d’Appello di Lecce, con sentenza del 27.2 – 20.3.2006, confermò la pronuncia di primo grado che ha ritenuto la nullità del termine apposto al contratto di lavoro decorrente dal 1.7.2000 tra la Poste Italiane spa e G.A..
Per la cassazione di tale sentenza la Poste Italiane spa ha proposto ricorso fondato su tre motivi e illustrato con memoria.
L’intimato G.A. non ha svolto attività difensiva.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Il contratto in relazione ai quali è stata ritenuta l’illegittimità dei termine è stato concluso a norma dell’art. 8 del CCNL 26 novembre 1994 ed in particolare in base alla previsione dell’accordo integrativo del 25 settembre 1997, che prevede quale ipotesi legittimante la stipulazione di contratti a termine la presenza di esigenze eccezionali, conseguenti alla fase di ristrutturazione e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi, di sperimentazione di nuovi servizi e in attesa dell’attuazione del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane.
1.1 La Corte territoriale, premesso che l’accordo de quo era disciplinato dalla L. n. 56 de 1987, art. 23, ha attribuito rilievo decisivo a fatto che, avendo le parti raggiunto un’intesa originariamente priva di termine, le stesse avevano stipulato accordi attuativi che avevano fissato un limite temporale alla possibilità di procedere con assunzioni a termine, limite fissato inizialmente al 31 gennaio 1998 e successivamente al 30 aprile 1998; il contratto a termine in esame, stipulato in epoca successiva all’ultimo dei termini sopra indicati, era illegittimo in quanto privo dei supporto derogatorio.
1.2 Con i primi due motivi, da esaminarsi congiuntamente siccome fra loro connessi, la Società ricorrente ha contestato, fra l’altro, l’interpretazione data dalla Corte di merito al citato accordo integrativo del 25 settembre 1997 ed agli accordi dalla stessa definiti come attuativi, deducendo, in particolare, che questi ultimi accordi avevano natura meramente ricognitiva.
Osserva il Collegio che, con numerose sentenze, questa Corte Suprema (cfr, ex plurimis, Cass. 23 agosto 2006 n. 18378), decidendo su fattispecie sostanzialmente identiche a quella in esame, ha univocamente confermato le sentenze dei giudici di merito che hanno dichiarato illegittimo il termine apposto a contratti stipulati, in base alla previsione dell’accordo integrativo del 25 settembre 1997 sopra richiamato (esigenze eccezionali, conseguenti alla fase di ristrutturazione..), dopo il 30 aprile 1998. Premesso, in linea generale, che la L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23, nel demandare alla contrattazione collettiva la possibilità di individuare nuove ipotesi di apposizione di un termine alla durata del rapporto di lavoro, configura una vera e propria delega in bianco a favore dei sindacati, i quali, pertanto, non sono vincolati all’individuazione di figure di contratto a termine comunque omologhe a quelle previste per legge (principio ribadito dalle Sezioni Unite di questa Suprema Corte con sentenza 2 marzo 2006 n. 4588), e che, in forza della sopra citata delega in bianco, le parti sindacali hanno individuato, quale nuova ipotesi di contratto a termine, quella di cui al citato accordo integrativo del 25 settembre 1997, la giurisprudenza di questa Corte ha ritenuto corretta l’interpretazione dei giudici di merito che, con riferimento al distinto accordo attuativo sottoscritto in pari data ed al successivo accordo attuativo sottoscritto in data 16 gennaio 1998, ha reputato che con tali accordi le parti abbiano convenuto di riconoscere la sussistenza fino al 31 gennaio 1998 (e poi in base al secondo accordo attuativo, fino al 30 aprile 1998), della situazione di cui al citato accordo integrativo, con la conseguenza che, per far fronte alle esigenze derivanti da tale situazione, l’impresa poteva procedere (nei suddetti limiti temporali) ad assunzione di personale straordinario con contratto tempo determinato; da ciò deriva che deve escludersi la legittimità dei contratti a termine stipulati dopo il 30 aprite 1998 in quanto privi di presupposto normativo.
In particolare è stato osservato che la suddetta interpretazione degli accordi attuativi non viola alcun canone ermeneutico, atteso che il significato letterale delle espressioni usate è così evidente e univoco che non necessita di un più diffuso ragionamento al fine della ricostruzione della volontà delle parti; infatti, nell’interpretazione delle clausole dei contratti collettivi di diritto comune, nel cui ambito rientrano sicuramente gli accordi sindacali sopra riferiti, si deve fare innanzitutto riferimento al significato letterale delle espressioni usate e, quando esso risulti univoco, è precluso il ricorso a ulteriori criteri interpretativi, i quali esplicano solo una funzione sussidiaria e complementare nel caso in cui il contenuto del contratto si presti a interpretazioni contrastanti (cfr, ex plurimis, Cass. n. 28 agosto 2003 n. 12245, Cass. 25 agosto 2003 n. 12453).
E’ stato altresì rilevato che tale interpretazione è rispettosa del canone ermeneutico di cui all’art. 1367 c.c., a norma de quale, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possano avere qualche effetto, anzichè in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno; ed infatti la stessa attribuisce un significato agli accordi attuativi de quibus (nel senso che con essi erano stati stabiliti termini successivi di scadenza alla facoltà di assunzione a tempo, termini che non figuravano nel primo accordo sindacale del 25 settembre 1997); diversamente opinando, ritenendo cioè che te parti non avessero inteso introdurre limiti temporali alla deroga, si dovrebbe concludere che gli accordi attuativi, così definiti dalle parti sindacali, erano “senza senso” (così testualmente Cass. n. 14 febbraio 2004 n. 2866).
Infine è stata ritenuta corretta, nella ricostruzione della volontà delle parti come operata dai giudici di merito, l’irrilevanza attribuita all’accordo del 18 gennaio 2001, in quanto stipulato dopo oltre due anni dalla scadenza dell’ultima proroga e, cioè, quando il diritto del soggetto si era già perfezionato; ed infatti, ammesso che le parti abbiano espresso l’intento di interpretare autenticamente gli accordi precedenti, con effetti comunque di sanatoria delle assunzioni a termine effettuate senza la copertura dell’accordo 25 settembre 1997 (scaduto in forza degli accordi attuativi), la suddetta conclusione è comunque conforme alla regula iuris dell’indisponibilità dei diritti dei lavoratori già perfezionatisi, dovendosi escludere che le parti stipulanti avessero il potere, anche mediante lo strumento dell’interpretazione autentica (previsto solo per lo speciale settore del lavoro pubblico, secondo la disciplina del D.Lgs. n. 165 del 2001), di autorizzare retroattivamente la stipulazione di contratti a termine non più legittimi per effetto della durata in precedenza stabilita (vedi, ex plurimis, Cass. 12 marzo 2004 n. 5141).
1.3 Il sopra citato orientamento di questa Corte deve essere pienamente confermato, atteso che le tesi difensive che si sono confrontate nelle fasi di merito, quelle oggi proposte all’attenzione della Corte e, infine, le ragioni esposte nella sentenza impugnata, non sono sorrette da argomenti che non siano già stati scrutinati nelle ricordate decisioni o che propongano aspetti di tale gravità da esonerare la Corte dai dovere di fedeltà ai propri precedenti.
La natura assorbente delle considerazioni svolte comporta la reiezione dei motivi all’esame.
2. Con il terzo motivo la ricorrente si duole dell’intervenuta reiezione dell’eccezione di aliunde perceptum in relazione a quanto l’odierno intimato avrebbe ricevuto da altri datori di lavoro.
Alla stregua di quanto dedotto in sede di discussione si pone la questione dell’eventuale applicazione dello ius superveniens, rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7, in vigore dal 24 novembre 2010, del seguente tenore:
“Nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo una indennità omnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nella L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8.
In presenza di contratti ovvero accordi collettivi nazionali, territoriali o aziendali, stipulati con le 00. SS. comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, che prevedano l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a termine nell’ambito di specifiche graduatorie, il limite massimo dell’indennità fissata dal comma 5 è ridotto alla metà. Le disposizioni di cui ai commi 5 e 6 trovano applicazione per tutti i giudizi, ivi compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge. Con riferimento a tali ultimi giudizi, ove necessario, ai soli fini della determinazione della indennità di cui ai commi 5 e 6, il giudice fissa alle parti un termine per l’eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni ed esercita i poteri istruttori ai sensi dell’art. 421 c.p.c.”. A prescindere dall’esame della problematica relativa alla possibilità di ricomprendere tra i giudizi pendenti, cui i comma 7 ora riportato applica i precedenti commi 5 e 6, anche il giudizio di cassazione, va premesso, in via di principio, che costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sta in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr, Cass. 8 maggio 2006 n. 10547).
In tale contesto, è altresì necessario che il motivo di ricorso che investe, anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad essere sussistente, sia altresì ammissibile secondo la disciplina sua propria.
In particolare, con riferimento alla disciplina qui invocata, la necessaria sussistenza della questione ad essa pertinente nel giudizio di cassazione presuppone che i motivi di ricorso investano specificatamente le conseguenze patrimoniali dell’accertata nullità dei termine, che essi non siano tardivi o generici, età; in particolare, ove, come nel caso in esame, il ricorso sia stato proposto avverso una sentenza depositata successivamente alla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 40 del 2006, tali motivi devono essere altresì corredati, a pena di inammissibilità degli stessi, dalla formulazione di un adeguato quesito di diritto, ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., ratione temporis ad essi applicabile.
In caso di assenza o di inammissibilità di una censura in ordine alle conseguenze economiche dell’accertata nullità del termine, il rigetto dei motivi inerenti tale aspetto pregiudiziale produce infatti la stabilità delle statuizioni di merito relative a tali conseguenze. Premessi tali principi di diritto, sì rileva che il motivo all’esame investe il tema cui potrebbe essere riferibile la disciplina di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32, commi 5, 6 e 7.
Si tratta, in effetti, di un motivo relativo alla pretesa violazione di una regola iuris riconducibile all’art. 2697 c.c. (con conseguente assorbimento, comunque, del preteso vizio di motivazione – arg. art. 384 c.p.c., u.c.) e attinente all’argomento della detrazione, dal danno da risarcire in conseguenza dell’accertata nullità del termine e della conversione del contratto a tempo indeterminato, dell’aliunde perceptum nel medesimo periodo in cui viene in considerazione il danno.
La Società ricorrente, con tale motivo, lamenta del tutto genericamente e, quindi, in maniera inammissibile, che la Corte territoriale abbia errato nel ritenere irrilevante la relativa eccezione e, altresì, censura la sentenza per non avere tenuto conto che dai principi elaborati in materia dalla giurisprudenza di questa Corte (citando, al riguardo, Cass., n. 12697/2001) discenderebbe che “L’aliunde perceptum… non può che essere genericamente dedotto dall’istante. Dovrebbe essere, invece, onere del lavoratore dimostrare di non essere stato occupato nel periodo in questione, per esempio a mezzo delle dichiarazioni dei redditi relative ai periodi successivi alla scadenza del contratto a termine eventualmente dichiarato illegittimo e di altra eventuale documentazione (libretti di lavoro, buste paga)”.
Il motivo così riassunto si conclude con la formulazione del seguente quesito ex art. 366 bis c.p.c.: “Dica la Corte se, nel caso di oggettiva difficoltà della parte ad acquisire precisa conoscenza degli elementi sui quali fondare la prova a supporto delle proprie domande ed eccezioni – e segnatamente per la prova dell’aliunde perceptum – il Giudice debba valutare le richieste probatorie con minor rigore rispetto all’ordinario, ammettendole ogni volta che le stesse possano comunque raggiungere un risultato utile ai fini della certezza processuale e rigettandole (con apposita motivazione) solo quando gli elementi somministrati dal richiedente risultino invece insufficienti ai fini dell’espediente richiesto”.
Se si tiene conto del principio secondo cui il quesito di diritto deve essere formulato in maniera specifica e deve essere pertinente rispetto alla fattispecie cui si riferisce la censura (cfr, ex plurimis, Cass., SU, nn. 36/2007; 2658/2008) è evidente che il quesito come sopra formulato dalla Società appare in buona parte estraneo alle argomentazioni sviluppate nel motivo e comunque del tutto astratto, senza alcun riferimento all’errore di diritto pretesamente commesso dai Giudici del merito nel caso concreto esaminato, per cui deve ritenersi inesistente, con conseguente inammissibilità del motivo all’esame ai sensi del ridetto art. 366 bis c.p.c..
3. In definitiva il ricorso va rigettato. Non è luogo a pronunciare sulle spese, non avendo l’intimato svolto attività difensiva.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; nulla per le spese.
Così deciso in Roma, il 2 dicembre 2010.
Depositato in Cancelleria il 3 gennaio 2011