Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.625 del 12/01/2011

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SALME’ Giuseppe – Presidente –

Dott. DI PALMA Salvatore – Consigliere –

Dott. ZANICHELLI Vittorio – rel. Consigliere –

Dott. SCHIRO’ Stefano – Consigliere –

Dott. DIDONE Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso proposto da:

M.D., + ALTRI OMESSI con domicilio eletto in Roma, via Andrea Doria n. 48, presso l’Avv. Abbate Ferdinando Emilio, come da procura in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, in persona del Presidente del Consiglio pro-tempore, rappresentata e difesa, per legge, dall’Avvocatura generale dello Stato, e presso gli Uffici di questa domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi, n. 12;

– controricorrente –

per la cassazione del decreto della corte d’appello di Roma rep. 3163 depositato il giorno 8 maggio 2008.

Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del giorno 13 dicembre 2010 dal Consigliere relatore Dott. Vittorio Zanichelli.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Le parti in epigrafe ricorrono per cassazione nei confronti del decreto della corte d’appello che, liquidando Euro 7.000 per ciascuna per anni sette di ritardo, ha accolto parzialmente i loro ricorsi con i quali è stata proposta domanda di riconoscimento dell’equa riparazione per violazione dei termini di ragionevole durata del processo svoltosi in primo grado avanti al t.a.r..

Lazio dal novembre 1993 all’aprile 2004.

Resiste l’Amministrazione con controricorso.

La causa è stata assegnata alla camera di consiglio in esito al deposito della relazione redatta dal Consigliere Dott. Vittorio Zanichelli con la quale sono stati ravvisati i presupposti di cui all’art. 375 c.p.c..

I ricorrenti hanno depositato memoria.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il primo motivo di ricorso con il quale si deduce violazione di legge per avere il giudice a quo ingiustificatamente ridotto il periodo per il quale riconoscere l’indennità è inammissibile per difetto di interesse.

Giova premettere, in relazione a quanto osservato in memoria circa precedenti decisioni della Corte che hanno riconosciuto l’indennizzo in analoga fattispecie anche per il periodo erroneamente non considerato dal giudice del merito, che in relazione al risarcimento conseguente all’irragionevole durata dei procedimenti avanti al giudice amministrativo, quali quello di cui si discute, è intervenuta di recente la Corte (sentenza n. 14753/2010) affermando il principio secondo cui, in fattispecie in cui non a sia applicabile il disposto del D.L. n. 112 del 2008, art. 54, l’importo dell’indennizzo per giudizi avanti al giudice amministrativo protrattisi per lungo l’indennizzo può essere liquidato in via forfettaria, nella specie liquidando Euro 5.000 per circa dieci anni di durata complessiva.

Ne consegue la carenza di interesse del motivo de quo dal momento che, non coprendo il giudicato il parametro in base al quale operare la liquidazione dell’indennizzo allorquando questo deve essere rideterminato (principio già enunciato in materia di espropriazione:

ex multis Sez. 1, Sentenza n. 22409 del 05/09/2008), l’accoglimento del motivo e la conseguente riliquidazione che la Corte dovrebbe operare in base al dettato dell’art. 384 c.p.c., comma 2, non comporterebbe in concreto il riconoscimento di un importo superiore a quello già determinato dal giudice del merito.

Il secondo motivo con cui si cesura il riconoscimento degli interessi solo dalla data del decreto e non da quella della domanda è manifestamente fondato in quanto è principio già affermato dalla Corte quello secondo cui “Atteso il carattere indennitario dell’obbligazione nascente dall’accoglimento della domanda di danni conseguenti alla irragionevole durata del processo (ex L. n. 89 del 2001) gli interessi legali sulla somma liquidata decorrono dalla data della domanda di equa riparazione, stante la regola che gli effetti della pronuncia retroagiscono alla data della domanda, nonostante il carattere di incertezza e di liquidità del credito prima della pronuncia giudiziaria” (Cassazione civile, sez. 1^, 17 giugno 2009, n. 14072).

Con il terzo motivo di ricorso si censura la liquidazione delle spese operata dal giudice del merito. La censura è fondata nei limiti di cui infra.

Deve innanzitutto precisarsi che non può essere seguito il criterio propugnato dalla difesa dei ricorrenti secondo il quale, essendo stati proposti distinti ricorsi ex lege n. 89 del 2001, riuniti dalla corte d’appello solo in esito alla discussione in camera di consiglio, spetterebbero gli onorari e i diritti distintamente per ogni procedimento fino al momento della riunione.

Giova premettere, quando alla vicenda del processo presupposto, che i ricorrenti sono stati parti di una medesima procedura iniziata nel novembre del 1993 avanti al t.a.r. del Lazio, avendo proposto un’identica domanda concernente l’annullamento di due concorsi banditi dall’Amministrazione. Ciononostante, pur essendo la domanda di riconoscimento dell’equo indennizzo per l’eccessiva durata di tale procedura basata sullo stesso presupposto giuridico e fattuale, hanno proposto nello stesso ristretto arco temporale sette distinti ricorsi alla corte d’appello competente con il patrocinio dei medesimi difensori.

Tale condotta deve ritenersi configurare un abuso del processo, come già ritenuto da questa Corte con ordinanza n. 10634/10, che ha affrontato specificatamente la questione, cui il Collegio intende dare continuità che così motiva:

“La giurisprudenza della Corte ha già avuto modo di affrontare il tema dell’utilizzo dello strumento processuale con modalità tali da arrecare non solo un danno al debitore senza necessità o anche solo apprezzabile vantaggio per il creditore ma anche da interferire con il funzionamento dell’apparato giudiziario ed ha ritenuto una tale condotta lesiva sia del canone generale di buona fede oggettiva e correttezza, in quanto contrastante con il dovere di solidarietà di cui all’art, 2 della Costituzione, sia contraria ai principi del giusto processo in quanto la inutile moltiplicazione dei giudizi produce un effetto inflattivo configgente con l’obiettivo costituzionalizzato della ragionevole durata dei processo di cui all’art. 111 Cost. (Sent. Sezioni Unite, 15 novembre 2007, n. 23726), Tali principi, pur enunciati in tema di rapporti negoziali, possono trovare applicazione anche in fattispecie quali quella in esame laddove l’evento causativo del danno e quindi giustificativo della pretesa sia identico come unico sia il soggetto che ne deve rispondere e plurimi soli i danneggiati i quali, dopo aver agito unitariamente nel processo presupposto così dimostrando la carenza di interesse alla diversificazione delle posizioni ed avere sostanzialmente tenuto la stessa condotta in fase di richiesta dell’indennizzo agendo contemporaneamente con identico patrocinio legale e proponendo domande connesse per l’oggetto e per il titolo, instaurano singolarmente procedimenti diversificati pur destinati inevitabilmente (come puntualmente avvenuto nella fattispecie) alla riunione.

Una tale condotta, che è priva di alcuna apprezzabile motivazione e incongrua rispetto alla rilevate modalità di gestione sostanzialmente unitaria delle comuni pretese, contrasta innanzitutto con l’inderogabile dovere di solidarietà sociale che osta all’esercizio di un diritto con modalità tali da arrecare un danno ad altri soggetti che non sia inevitabile conseguenza di un interesse degno di tutela dell’agente, danno che nella fattispecie graverebbe sullo Stato debitore a causa dell’aumento degli oneri processuali: ma contrasta altresì e soprattutto con il principio costituzionalizzato del giusto processo inteso come processo di ragionevole durata (SS.UU. n. 23726/07, sopra citata) posto che la proliferazione oggettivamente non necessaria dei procedimenti incide negativamente sull’organizzazione giudiziaria a causa dell’inflazione delle attività che comporta con la conseguenza di un generale allungamento dei tempi processuali”.

Al riscontrato abuso delle strumento processuale non può tuttavia conseguire la sanzione dell’inammissibilità dei ricorsi, posto che non è l’accesso in sè allo strumento che è illegittimo ma le modalità con cui è avvenuto, ma comporta l’eliminazione per quanto possibile degli effetti distorsivi dell’abuso e quindi, nella fattispecie, la valutazione dell’onere delle spese come se unico fosse stato il procedimento fin dall’origine.

La censura è invece fondata nella misura in cui il giudice del merito non ha rispettato i minimi tariffari.

Ciò posto, e ritenuto il valore della controversia (art. 10 c.p.c., comma 2) pari alla somma delle singole pretese riconosciute (Euro 91.000) l’Amministrazione deve essere condanna per il giudizio di merito al pagamento di Euro 3.197, di cui Euro 2.005 per onorari e 1,142 per diritti.

Le spese di questa fase seguono la soccombenza.

P.Q.M.

la Corte accoglie il ricorso nei limiti di cui in motivazione, cassa in parte qua il decreto impugnato e, decidendo nel merito, condanna la Presidenza del Consiglio dei Ministri al pagamento in favore dei ricorrenti degli interessi in misura legale dalla domanda e delle spese del giudizio di merito che liquida in complessivi Euro di Euro 3.197, di cui Euro 2.005 per onorari e 1.142 per diritti, oltre spese generali e accessori di legge, nonchè di quelle del giudizio di legittimità, che liquida in complessivi Euro 1.000, di cui Euro 900 per onorari, oltre spese generali e accessori di legge; spese di entrambi i gradi da distrarsi in favore dei difensori antistatari.

Così deciso in Roma, il 13 dicembre 2010.

Depositato in Cancelleria il 12 gennaio 2011

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