Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Sentenza n.79 del 04/01/2011

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FOGLIA Raffaele – Presidente –

Dott. PICONE Pasquale – Consigliere –

Dott. STILE Paolo – Consigliere –

Dott. D’AGOSTINO Giancarlo – rel. Consigliere –

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

F.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE G. MAZZINI 6, presso lo studio dell’avvocato VITALE ELIO, che lo rappresenta e difende giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

TRENITALIA S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA LUIGI GIUSEPPE FARAVELLI 22, presso lo studio dell’Avvocato MORRICO ENZO che la rappresenta e difende giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 14176/2 009 della CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE di ROMA, depositata il 18/06/2009 R.G.N. 15486/06;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 25/11/2010 dal Consigliere Dott. GIANCARLO D’AGOSTINO;

udito l’Avvocato TORRIERO CLAUDIO per delega VITALE ELIO;

udito l’Avvocato COSENTINO VALERIA per delega MORRICO ENZO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FEDELI Massimo che ha concluso per l’inammissibilita’ o in subordine rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 14176 depositata il 18.6.2009, rigettava l’appello proposto da F.G. contro la sentenza della Corte di Appello di Roma che aveva respinto le domande proposte con ricorso del 12.2.2001. Il sig. F., permesso di essere stato licenziato da s.p.a. Ferrovie dello Stato per giusta causa, consistita nell’essersi qualificato presso terzi come appartenente ad uno studio legale ed aver trattato in sede extragiudiziaria ed giudiziaria controversie intercorrenti fra la societa’ ed alcuni dipendenti attraverso la partecipazione ad alcune udienze (sei udienze), aveva chiesto al giudice del lavoro di accertare l’illegittimita’ del licenziamento con condanna della societa’ alla reintegrazione nel posto di lavoro ed al risarcimento dei danni.

Contro la sentenza della Corte di Appello il F. aveva proposto ricorso per cassazione con cinque motivi con i quali aveva ribadito la illegittimita’ del licenziamento: 1) per mancata comunicazione dell’atto di recesso, notificato nel luogo di residenza anagrafica (*****) invece che in quello di residenza abituale ed eletta (*****); 2) omessa motivazione ed omessa pronuncia circa la mancata notificazione dell’atto di licenziamento nel domicilio eletto in *****; 3) tardiva contestazione dell’addebito disciplinare, avvenuta a quattro mesi dai fatti addebitati e senza l’osservanza delle norme del contratto collettivo e dell’art. 2119 c.c.; 4) violazione del diritto di difesa del lavoratore dopo la contestazione; 5) per la insussistenza della violazione dell’obbligo di fedelta’ del prestatore di lavoro.

La Corte di Cassazione ha respinto il primo motivo di ricorso osservando che “una volta che l’autore della comunicazione di un atto negoziale, quale il licenziamento, abbia scelto le forme della notificazione stabilite dal codice di procedura civile, l’ordine dei luoghi previsto nell’art. 139, comma 1 e’ tassativo, onde e’ valida la notificazione eseguita nella residenza anagrafica, non rilevando i motivi per i quali questa sia stata fissata….Non e’ censurabile poi l’interpretazione resa dalla Corte di Appello di un atto proveniente dal destinatario della notificazione ed indicante una sua dimora in un comune diverso, ma non contenere alcuna elezione di domicilio, interpretazione tanto piu’ plausibile avendo la Corte d’Appello tratto indizio dal fatto che in questa asserita dimora la moglie del destinatario aveva respinto una precedente notificazione”.

Il giudice di legittimita’ ha dichiarato inammissibile il secondo motivo “perche’ ripetitivo di quello precedente e in parte perche’ contraddittorio, non potendo ipotizzarsi una pronuncia giudiziale omessa e al tempo stesso emessa ma non fornita di motivazione”.

Ha dichiarato inammissibile il terzo motivo nella parte concernente il contratto collettivo in quanto “la Corte d’Appello non ha proceduto all’interpretazione di questo contratto, ne’ il ricorrente lamenta ora l’omessa pronuncia sul punto. Quanto all’art. 2119 la Corte d’Appello ha esattamente osservato come il requisito dell’immediatezza debba essere valutato in relazione alle circostanze del caso concreto, come la pluralita’ degli episodi di illecito disciplinare nonche’ le grandi dimensioni dell’azienda, che comportano indagini e valutazioni durate meno di quattro mesi, nell’interesse stesso dell’incolpato”.

Ha dichiarato inammissibile il quarto motivo perche’ contenente doglianze su fatti e valutazioni di fatto relative al procedimento disciplinare non censurabili in sede di legittimita’.

Ha ritenuto infondato il quinto motivo rilevando che l’obbligo di fedelta’ del lavoratore ha un contenuto piu’ ampio di quello risultante dall’art. 2105 c.c., il quale deve essere integrato con gli artt. 1175 e 1375 c.c., sicche’ non e’ dubbio che l’obbligo sia violato quando il lavoratore subordinato svolga la pratica legale curando, in sede giudiziaria o extragiudiziaria, interessi di terzi in conflitto con quelli del datore di lavoro.

F.G. ha chiesto la revocazione di questa sentenza ex art. 395 c.p.c., n. 4 con ricorso articolato in cinque motivi.

Trenitalia s.p.a. ha resistito con controricorso ed ha depositato memoria.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il ricorrente sostiene che la sentenza impugnata e’ frutto di errore di fatto risultante dagli atti e dai documenti di causa per le seguenti ragioni.

Risulta da numerosi documenti in atti che la residenza effettiva ed abituale del F. era in *****, e che il lavoratore aveva fatto presente per iscritto alla societa’ che qualsiasi comunicazione relativa al procedimento disciplinare doveva essergli inviata al predetto recapito. Di conseguenza l’atto di licenziamento avrebbe dovuto essere notificato ex art. 140 nella sua residenza abituale ed effettiva di *****.

Risulta dal documento n. 4 allegato alle memorie difensive di Trenitalia in primo grado che la notifica ex art. 140 c.p.c. del licenziamento presso la residenza anagrafica del ricorrente nel comune di ***** e’ nulla perche’ risulta mancante l’avviso di ricevimento della raccomandata con la quale si dava notizia al ricorrente del deposito presso la casa comunale della copia dell’atto da notificare.

Risulta provato che la Corte d’Appello ebbe a pronunciarsi sulla interpretazione dell’art. 107, punto 2 del CCNL avendo espressamente affermato che “lo stesso contratto dei ferrovieri prevede nel caso di complessita’ delle indagini un termine di 150 giorni….i fatti addebitati si collocano nell’aprile – maggio 2000, mentre la contestazione disciplinare risale al 1.8.2000….ritiene quindi il collegio congrui i tempi della contestazione”. Si sostiene che Trenitalia era in grado di conoscere immediatamente l’infrazione disciplinare tramite i suoi difensori che hanno presenziato alle udienza cui ha partecipato il ricorrente, per cui la contestazione doveva avvenire entro trenta giorni dalla prima infrazione.

Risulta provato da numerosi atti e documenti che al F. e’ stato impedito il diritto di difesa di cui all’art. 7 St. Lav. e all’art. 107, comma 4 CCNL perche’ non gli e’ stato consentito di prendere visione del verbale di udienza A. – FS e perche’ in sede di audizione personale non e’ stato sentito dal responsabile del procedimento, bensi’ da persone estranee delegate dal responsabile.

Quanto all’obbligo di fedelta’ risulta provato da numerosi atti e documenti che il ricorrente nello svolgimento della pratica legale non ha mi curato, ne’ in sede giudiziaria ne’ extragiudiziaria, interessi di terzi in conflitto con quelli del datore di lavoro. La sentenza della Corte di Cassazione, confermativa della decisione di appello, non si fonda su fatti accertati e provati, ma solo sulla presunzione che il ricorrente possa aver compiuto attivita’ in contrasto con gli interessi dell’azienda, non considerando che la presenza del praticante in udienza e’ meramente passiva, essendogli preclusa qualsiasi attivita’ legale in mancanza di abilitazione professionale.

Il ricorso e’ inammissibile.

Secondo la consolidata giurisprudenza della Cassazione l’errore di fatto previsto dall’art. 395 c.p.c., n. 4 idoneo a determinare la revocabilita’ delle sentenze, comprese quelle di cassazione, deve consistere in un errore di percezione risultante dagli atti o dai documenti della causa direttamente esaminabili dalla Corte; tale errore sussiste quando la decisione e’ fondata sulla supposizione di un fatto la cui verita’ e’ incontestabilmente esclusa, oppure quando e’ supposta l’inesistenza di un fatto la cui verita’ e’ positivamente stabilita, sempre che il fatto del quale e’ supposta l’esistenza o l’inesistenza non abbia costituito un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare, restando invece escluso che l’errore possa riguardare la violazione o falsa applicazione di norme giuridiche, o l’interpretazione e la valutazione dei fatti data dalla Corte, o le argomentazioni logico – giuridiche che ne sorreggono la decisione, o pretesi vizi motivazionali della sentenza impugnata;

occorre altresi’ che l’errore presenti il carattere dell’assoluta evidenza, ossia della rilevabilita’ sulla scorta del mero raffronto tra la sentenza impugnata e gli atti o documenti del giudizio, tale da non imporre una ricostruzione interpretativa degli atti medesimi (cfr. tra le tante Cass., n. 2713/2007, n. 9396/2006, n. 2485/2006).

L’errore di fatto che ai sensi dell’art. 391 bis c.p.c. e dell’art. 395 c.p.c., n. 4 legittima la revocazione delle sentenze della Corte di Cassazione deve consistere, dunque, in una erronea percezione dei fatti di causa, che si concreta quindi in un vizio di assunzione del fatto, non gia’ in un errore nella valutazione ed interpretazione del fatto. L’errore, oltre a dover rivestire i caratteri dell’assoluta evidenza e della semplice rilevabilita’ sulla base del mero raffronto tra la sentenza impugnata e gli atti e i documenti di causa, nonche’ quelli dell’essenzialita’ e della decisivita’ ai fini della decisione, deve riguardare gli atti interni al giudizio di legittimita’.

Nella specie non e’ dato riscontrare alcun errore di percezione da parte della Corte. I documenti, ed i fatti in essi rappresentati, invocati dal ricorrente, sono stati presi in esame e valutati dal giudice di legittimita’, che non e’ incorsa in alcun errore di percezione. Cio’ di cui il ricorrente si lamenta, in buona sostanza riproponendo in questa sede i motivi del ricorso in cassazione disattesi dalla sentenza di cui si chiede la revocazione, consistono in pretesi errori di valutazione e di interpretazione dei fatti ed in asseriti errori di diritto da parte della Cassazione, non suscettibili di portare alla revocazione della sentenza.

Il ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile con conseguente condanna del ricorrente al pagamento in favore del resistente delle spese del giudizio.

P.Q.M.

LA CORTE dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di questo giudizio, che liquida in Euro 25,00 per esborsi ed in Euro quattromila/00 per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA. Cosi’ deciso in Roma, il 25 novembre 2010.

Depositato in Cancelleria il 4 gennaio 2011

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