Corte di Cassazione, sez. III Civile, Sentenza n.5955 del 14/03/2014

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Doppio contributo unificato, sussistenza dei presupposti

In tema di contributo unificato per i gradi o i giudizi di impugnazione, ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, inserito dall’art. 1, comma 17, della L. 24 dicembre 2012, n. 228, il giudice dell’impugnazione è vincolato, pronunziando il provvedimento che la definisce, a dare atto – senza ulteriori valutazioni decisionali – della sussistenza dei presupposti (rigetto integrale o inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione) per il versamento, da parte dell’impugnante soccombente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione da lui proposta, a norma del comma 1-bis del medesimo art. 13.

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Suprema Corte di Cassazione

Sezione III

Sentenza  14 marzo 2014, n. 5955

Svolgimento del processo

1. La corte d’appello di Perugia, con decreto 14.2.13 in causa n. 602/12 rgcc, confermò, sia pure con diversa motivazione, la declaratoria di inammissibilità – già resa dal tribunale del capoluogo umbro – della domanda dispiegata dalla Gesco srl nei confronti della Presidenza del Consiglio dei Ministri ai sensi della legge 13 aprile 1988, n. 117, in relazione ad una sentenza di parziale ammissione al passivo fallimentare resa dal tribunale di Roma in data 27.4.07, una volta interrottosi, per chiusura del fallimento della controparte, il giudizio di appello avverso di quella ed avendo ritenuto la Gesco inammissibile o comunque inutile la sua riassunzione nei confronti del debitore rientrato in bonis.
1.1. In particolare, la Gesco aveva riferito:
– di aver proposto – addì 8.7.05 – domanda di ammissione al passivo del fallimento Tecnoconsult srl, incorporante di Edilizia Alessandra srl (pendente presso il tribunale di Roma), siccome cessionaria di un ingentissimo credito, pari ad Euro 5.774.320, ex art. 2041 cod. civ. per gli esborsi sostenuti per il completamento della costruzione di un edificio acquistato nel corso di un’esecuzione immobiliare nei confronti di questa, in forza di decreto di trasferimento poi però annullato definitivamente;
– di essersi vista ammettere al passivo il solo importo di Euro 1.394.782, ma in base a macroscopici errori nella motivazione della sentenza (n. 8414 del 27.4.07), resa dal tribunale di Roma sì in composizione collegiale, ma a relazione dello stesso giudice delegato che aveva pure provveduto a disporre la chiusura del fallimento in pendenza dell’appello dispiegato da essa Gesco: errori consistenti nell’accoglimento di una domanda di ammissione al passivo di indennità per maggior valore ex art. 1150 cod. civ. mai formulata e nel rigetto della pretesa ex art. 2041 cod. civ. in base alla concomitante svalutazione del ruolo probatorio delle fatture prodotte – benché relative a pagamenti sostenuti dal creditore – ed alla totale pretermissione delle risultanze della c.t.u. pure espletate e delle istanze istruttorie dispiegate allo scopo;
– di non aver coltivato l’appello, dichiarato interrotto (dalla corte territoriale capitolina all’ud. 19.1.10) proprio per l’intervenuta chiusura del fallimento (avutasi con decreto 6.5.09), ritenendo non prevista la prosecuzione del giudizio di ammissione al passivo dopo la chiusura del fallimento, neppure contro la debitrice originaria rientrata in bonis, ma comunque inutile per l’intervenuta definitiva integrale ripartizione dell’attivo fallimentare;
– di avere agito quindi, ritenuta esaurita ogni diversa tutela, ai sensi della richiamata legge 117 del 1988.
1.2. L’adito tribunale di Perugia aveva poi – con decreto 5.5.12 – dichiarato inammissibile la domanda, per mancato previo esaurimento di tutti i mezzi di impugnazione previsti dalla legge: tesi che, sul reclamo dell’attrice, era stata poi disattesa dalla corte d’appello umbra, con il qui gravato decreto, reso il 14.2.13.
Questa, tuttavia, ritenne sussistere altra causa di inammissibilità, per la manifesta infondatezza della pretesa risarcitoria, siccome riferita ad attività di interpretazione di norme di diritto sia quanto alla decisione di domanda non proposta che in ordine alla riqualificazione della domanda: e, come tali, non suscettibili di dar luogo a responsabilità dello Stato.
L’adita corte territoriale, pertanto, rigettò il reclamo, sia pure con correzione della motivazione del decreto di primo grado, compensando le spese.
1.3. Per la cassazione di tale provvedimento ricorre, affidandosi a tre motivi ed illustrandoli con memoria, la Gesco, cui resiste con controricorso, contenente ricorso incidentale, la Presidenza del Consiglio dei Ministri; e, per la pubblica udienza del 21.1.14, la sola ricorrente produce ulteriore memoria, richiamando altresì notizie, anche di pubblico dominio, sulle inchieste in merito alle condizioni in cui aveva operato l’ufficio giudiziario ed il magistrato che avevano reso la sentenza ritenuta fonte di responsabilità dello Stato ai sensi della legge 117/88.

Motivi della decisione

2. Questi i termini della controversia.
2.1. La ricorrente Gesco, contestando la ratio decidendi dell’impugnato decreto in punto di ritenuta inammissibilità dell’azione di responsabilità siccome diretta avverso insindacabile attività di interpretazione di norme di diritto, articola tre motivi:
il primo dei quali è così rubricato: “Falsa applicazione dell’art. 12 delle disposizioni sulla Legge in generale preliminari al c.c. (art. 360 III co. c.p.c.); violazione degli artt. 112-113 c.p.c. (art. 360 n. 3 c.p.c.). Violazione dei principi di diritto in tema di interpretazione della domanda giudiziale (art. 360 n. 3 c.p.c.). Violazione dell’art. 2 II e III co. L. 13.4.1988 n. 117 (art. 360 n. 3 c.p.c.)”;
– il secondo dei quali è così rubricato: “Violazione degli artt. 112-113 c.p.c. (art. 360 n. 3 c.p.c.). Violazione dei principi di diritto in tema di interpretazione della domanda giudiziale (art. 360 n. 3 c.p.c.). Violazione dell’art. 2 II e III co. L. 13.4.1988 n. 117 (art. 360 n. 3 c.p.c.)”;
– il terzo dei quali è così rubricato: “Falsa applicazione dell’art. 12 disposizioni sulla legge in generale (art. 360 III co. c.p.c.); violazione degli artt. 112-113 c.p.c. (art. 360 n. 3 c.p.c.); violazione dell’art. 2 II e III co. L. 13.4.88 n. 117 (art. 360 n. 3 c.p.c.). Violazione dei principi di diritto in tema di interpretazione della domanda giudiziale (art. 360 n. 3 c.p.c.)”.
2.2. Dal canto suo, la Presidenza del Consiglio dei Ministri dispiega – con la memoria prevista dall’art. 5, comma quarto, l. 117/88, notificata alla controparte ricorso incidentale, articolato su di un motivo e con cui si duole di violazione e falsa applicazione dell’art. 4 legge 117/88, sostenendo che anche nella specie non erano stati esauriti i rimedi impugnatori avverso la sentenza di primo grado che integrerebbe il presupposto di fatto della responsabilità dello Stato.
3. Va, preliminarmente, valutata l’eccezione di inammissibilità del ricorso incidentale, sollevata dalla ricorrente principale.
Tale eccezione è infondata.
3.1. Il peculiare procedimento previsto dal comma quarto dell’art. 5 della legge 13 aprile 1988, n. 117, diverge invero sensibilmente da quello ordinario in ordine alle modalità di proposizione della domanda ed ai relativi termini, ma non può in alcun modo considerarsi avere limitato – come pretenderebbe la ricorrente – il sistema generale delle impugnazioni avverso i provvedimenti decisori, ai quali agevolmente si riconduce pure il decreto di inammissibilità reso in sede di reclamo in ordine alla domanda di risarcimento danni da attività giudiziaria.
Nelle procedure camerali le quali si concludano con un provvedimento di natura decisoria su contrapposte posizioni di diritto soggettivo e quindi suscettibile di acquistare autorità di giudicato trovano piena applicazione i principi del processo di cognizione relativi all’impugnazione (Cass. 16 aprile 2003, n. 6011; Cass. 13 aprile 2005, n. 7696). Anzi, in linea generale, per i procedimenti in camera di consiglio, anche secondo le disposizioni generali del codice di procedura civile, non si è mai dubitato dell’ammissibilità delle impugnazioni incidentali, finanche tardive (da ultimo, su tale specifico punto, v. Cass. Sez. Un., 31 luglio 2012, n. 13617, che richiama, “tra le altre”, Cass. 20 gennaio 2006, n. 1176), siccome evidente espressione di principi generalissimi di diritto processuale.
E tali principi escludono che in astratto alcunché osti all’ammissibilità di un’impugnazione incidentale anche nello speciale giudizio di legittimità che abbia ad oggetto il decreto della corte d’appello di inammissibilità della domanda prevista dalla legge 117 del 1988.
3.2. Argomenta, poi, la ricorrente dalla lettera del comma quarto dell’art. 5 della legge 13 aprile 1988, n. 117, che soltanto la parte nei cui confronti sia dichiarata l’inammissibilità è legittimata al ricorso per cassazione: con esclusione di qualsiasi legittimazione all’impugnazione in capo alle altre parti.
Tale tesi non può essere condivisa.
Rileva il Collegio che la lettera della norma appena richiamata (secondo periodo del comma quarto dell’art. 5 l. 117/88), ammettendo il ricorso per cassazione “contro il decreto di inammissibilità della corte d’appello”:
– da un lato, non individua i legittimati al ricorso, ma l’oggetto di esso: sicché non può ritenersi avere in modo così criptico innovato i principi generali in tema di impugnazioni incidentali e quindi avere precluso, dinanzi alla soccombenza effettiva di una delle parti, quale si configura appunto quella della Presidenza del Consiglio sulla questione preliminare dell’ammissibilità per mancato esaurimento degli ordinari mezzi di impugnazione, l’insorgenza dell’interesse della soccombente ad impugnare in via incidentale il relativo provvedimento decisorio;
– dall’altro lato, è comunque rispettata nella specie, visto che è pur sempre contro un decreto di inammissibilità – sia pure per ragione diversa da quella pronunciata dal giudice di primo grado – che il ricorso incidentale della Presidenza del Consiglio oggi si rivolge.
3.3. Ancora e in punto di rito:
3.3.1. è ben vero che, in luogo del controricorso, la procedura disciplinata dal comma quarto dell’art. 5 della legge 13 aprile 1988, n. 117 prevede soltanto una memoria, di cui non è disciplinata alcuna notifica: infatti, vi si prescrive che le difese dell’intimato, per le quali è ad esso riservata una “memoria”, vadano depositate entro il termine di venti giorni dalla scadenza del termine per il deposito del ricorso (Cass. 20 gennaio 2006, n. 1104; Cass. 25 gennaio 2002, n. 871), per di più a pena di improcedibilità (Cass. 10 ottobre 2003, n. 15156; Cass. 30 luglio 1999, n. 8260), per soddisfare l’esigenza prevalente di una rapida definizione della fase preliminare, in palese deroga al disposto degli artt. 370 e 371 cod. proc. civ.;
3.3.2. e tuttavia: da un lato, la semplice differenza di definizione dell’atto con cui si estrinseca la difesa della parte nei cui confronti si dirige l’impugnazione principale non è idonea a comprimere la facoltà, anche per la controparte del ricorrente principale, di impugnare il medesimo provvedimento per motivi diversi, dipendendo il relativo interesse dalla propria soccombenza su di una questione idonea a definire il giudizio e reso quello attuale dall’avvenuto dispiegamento dell’altrui impugnazione principale; dall’altro lato, la disciplina in esame è stata rispettata rigorosamente dalla ricorrente incidentale, la quale anzi ha provveduto perfino a notificare il proprio atto difensivo, contenente l’impugnazione incidentale, negli stessi termini previsti per il deposito della memoria, all’evidente fine di consentire la previa piena instaurazione di contraddittorio sul suo gravame: essendo stato l’atto dell’intimata Presidenza, contenente il ricorso incidentale, spedito per la notifica a mezzo posta il 29.3.13 e depositato nella cancelleria della corte d’appello di Perugia il medesimo giorno, a fronte della notifica del ricorso per cassazione in data 11.3.13 – dal quale decorrono i termini per il deposito della memoria, in venti giorni complessivi (Cass. 20 gennaio 2006, n. 1104; Cass. 25 gennaio 2002, n. 871) – e del deposito del medesimo nella cancelleria stessa il 19.3.13.
3.4. In conclusione, è ammissibile, se dispiegato nella memoria depositata – e, nella specie, oltretutto notificata a controparte – nei dieci giorni dalla scadenza del termine per il deposito del ricorso principale nella cancelleria della corte territoriale, il ricorso incidentale della Presidenza del Consiglio dei Ministri nel giudizio di legittimità previsto dal secondo periodo del comma quarto dell’art. 5 della legge 13 aprile 1988, n. 117, avverso il decreto della corte d’appello che abbia rigettato il reclamo contro la declaratoria d’inammissibilità dell’azione, per ragioni diverse da quelle ritenute dal giudice di primo grado.
4. Tutto ciò premesso, la rilevata ammissibilità del ricorso incidentale consente di ritenere non formatosi il giudicato sulla preliminare questione che esso agita, di inammissibilità dell’azione risarcitoria ex L. 117/88 per mancato esaurimento degli ordinari mezzi di impugnazione (pur prospettata e prospettabile col ricorso incidentale), la quale è di per sé questione logicamente preliminare e rimane così rilevabile di ufficio (trattandosi di presupposto processuale specifico relativo alla medesima ammissibilità della speciale azione di responsabilità, ovvero di termine decadenziale, siccome – Cass. 5 maggio 2011, n. 9910 – relativo a materia sottratta alla disponibilità delle parti: essendo infatti dalla norma stessa affidato al giudice il compito preliminare di verificare il rispetto dei termini a tal fine previsti dall’art. 4 della legge in esame), tanto da dover essere esaminata con pregiudizialità.
E tale questione è fondata.
4.1. Non può dirsi, infatti, che la causa di ammissione al passivo fallimentare divenga inutiliter data una volta chiuso il fallimento e interrotto il giudizio di appello avverso la domanda reiettiva – o parzialmente tale – di primo grado.
Infatti, il riacquisto della capacità processuale del fallito determinato dalla chiusura (o dalla revoca) del fallimento provoca sì l’interruzione dei processi in cui sia parte il curatore, ma consente pure che il giudizio previsto dall’art. 98 legge fall., possa essere utilmente riassunto nei confronti del debitore tornato in bonis, al fine di giungere all’accertamento giudiziale sull’esistenza, o meno, del credito di cui si era chiesta l’insinuazione (da ultimo, Cass., ord. 29 maggio 2013, n. 13337; principi analoghi erano stati espressi in passato anche – e tra molte – da: Cass. 6 marzo 1998, n. 2514; Cass. 23 ottobre 1969, n. 3478) : visto che gli effetti della pronuncia si produrrebbero in capo all’ex fallito, nei cui confronti potrebbe essere posta in esecuzione la pronuncia (Cass. 16 gennaio 2009, n. 979, relativa al caso della revocazione dell’ammissione al passivo, in maniera non congruente citata a sostegno dell’opposta tesi).
Contrariamente a quanto ritenuto dal decreto di reclamo della corte d’appello, la chiusura del fallimento, determinando la cessazione degli organi fallimentari e il rientro del fallito nella disponibilità del suo patrimonio fa venir meno la legittimazione processuale del curatore, determinando il subentrare dello stesso fallito tornato in bonis al curatore nei procedimenti pendenti all’atto della chiusura (Cass. 9 luglio 2013, n. 17008; Cass. 18 aprile 2006, n. 8959).
Dopo l’interruzione del processo, il creditore ha sempre, cioè, la facoltà di riassumere la domanda già svolta nei confronti del fallimento poi dichiarato chiuso, perché essa tende ad accertare la sussistenza o l’entità del credito e la sua deduzione in funzione esecutiva mira solo ad assicurarne, nel concorso con gli altri creditori, la collocazione utile (Cass. 17 luglio 2007, n. 15934).
4.2. La contraria asserzione di Cass. 28 settembre 2004, n. 19394, può dirsi quindi rimasta senza convincente seguito nella giurisprudenza di legittimità; ma essa neppure potrebbe condividersi, poiché comporterebbe l’inaccettabile esito dell’estinzione del diritto, con definitivo ed ingiustificato detrimento del creditore, nonostante la configurabilità di una almeno astratta responsabilità dell’imprenditore tornato in bonis o, finanche per il caso di sua estinzione, dei suoi successori: oggi configurabili pure in caso di estinzione della società, come reso manifesto dalle recenti pronunce delle Sezioni Unite di questa Corte regolatrice seguite al nuovo testo dell’art. 2495 cod. civ. (da ultimo, v. Cass. Sez. Un. 12 marzo 2013, n. 6070; ma v. pure Cass. Sez. Un. 22 febbraio 2010, n. 4060).
4.3. Del resto, l’applicazione di tale principio – di non inutilità della riassunzione della causa in origine pendente nei confronti di una Curatela, dopo la sua interruzione per la chiusura del fallimento – alla fattispecie pare integrare idoneo contemperamento delle ragioni di chi si assuma danneggiato dall’attività giurisdizionale e di quelle delle collettività, visto che si impone al primo solo di esaurire tutti i rimedi ancora consentiti, del resto nel suo stesso interesse e per dargli modo di conseguire eventuali risarcimenti dalle sue originarie controparti, ove riconosciuto vittorioso, ad esempio – ove ne ricorressero i presupposti – anche ai sensi dell’art. 96 cod. proc. civ., nelle diverse articolazioni degli istituti processuali da esso regolati.
4.4. Né può dirsi che un’oscillazione giurisprudenziale sulla questione di una utile proseguibilità della domanda di ammissione al passivo anche dopo la chiusura del fallimento avrebbe giustificato la mancata riassunzione. Anche ammesso – ma, per quanto visto, non concesso – che una tale oscillazione potesse ancora ritenersi sussistente al momento della decisione della parte di non dare corso alla riassunzione e che non fosse stato onere della parte quello di seguire, delle due alternative, quella di maggior cautela anche ai fini della divisata successiva azione di responsabilità, un simile atteggiamento rimane una circostanza meramente soggettiva. In quanto tale, esso avrebbe potuto semmai, ove ne fossero sussistiti tutti gli altri presupposti, concorrere ad integrare diverse fattispecie in relazione alla rimessione in termini per proporre quell’impugnazione, ma non già mutare una circostanza oggettiva, quale il mancato esaurimento dei mezzi di impugnazione avverso il provvedimento giurisdizionale ritenuto lesivo.
4.5. Pertanto, pacifico essendo che la Gesco non ha riassunto l’appello avverso la sentenza che essa pone a fondamento della responsabilità dello Stato ai sensi della legge 117 del 1988, non può dirsi che si siano esaurite le impugnazioni e, quindi, va esclusa l’ammissibilità dell’azione risarcitoria, in applicazione del seguente principio di diritto: è inammissibile, non essendo ancora esauriti i mezzi ordinari di impugnazione, l’azione di responsabilità prevista dalla legge 13 aprile 1988, n. 117, in relazione ad una sentenza di primo grado di solo parziale accoglimento di una domanda di ammissione al passivo, ove, interrotto il giudizio di appello a seguito della intervenuta chiusura della procedura fallimentare, il creditore non lo abbia riassunto anche solo al fine di conseguire l’accertamento del suo credito nei confronti del debitore rientrato in bonis o dei suoi successori.
4.6. Resta impregiudicata, beninteso e purché ovviamente ne ricorrano i presupposti, qualsiasi diretta pretesa risarcitoria nei confronti degli autori di eventuali condotte criminose, a maggior ragione se appartenenti all’ordine giudiziario, che la competente autorità giudiziaria potesse ravvisare nella specie, in relazione alla particolare gravità dei fatti del singolo processo concluso con il provvedimento ritenuto fonte di responsabilità principale dello Stato, ovvero in altri connessi, secondo quanto prospettato dal danneggiato.
5. La risoluzione in tali sensi della questione dell’inammissibilità dell’azione di responsabilità per mancato previo esaurimento dei mezzi di impugnazione, rilevabile di ufficio ed in concreto affrontata da questa Corte in dipendenza del dispiegamento di un ammissibile ricorso incidentale che la aveva del resto ad oggetto, comporta :
da un lato, la preclusione della disamina delle doglianze dispiegate dalla ricorrente principale, tutte relative alla ratio decidendi della declaratoria di inammissibilità per manifesta infondatezza della domanda, intuitivamente travolte, siccome relative al merito, dalla preliminare declaratoria di inammissibilità di quest’ultima per mancato esaurimento dei rimedi ordinari;
– dall’altro lato, che il dispositivo del qui gravato decreto, che comunque pronuncia l’inammissibilità (benché per una ragione diversa, ma logicamente successiva a quella qui riscontrata), è pertanto conforme a diritto: tanto che il decreto stesso va confermato, sia pure previa correzione della motivazione, ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 384 cod. proc. civ., con rigetto dei contrapposti ricorsi che ne invocano la modifica.
6. Le spese del giudizio di legittimità, infine, vanno compensate: sia in dipendenza di un’evidente reciproca soccombenza, a seguito del rigetto di entrambi i ricorsi; sia perché poi l’assoluta novità della questione e la definizione dei ricorsi in base ad una causa di inammissibilità originaria rilevata di ufficio con conseguente correzione della motivazione del provvedimento gravato, integrano senz’altro, a giudizio del Collegio, eccezionali gravi ragioni di compensazione.
7. Il dispiegamento del ricorso per cassazione in tempo posteriore al 30.1.13 impone a questo punto di verificare l’applicabilità dell’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, a mente del quale quando l’impugnazione, anche incidentale, è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma del comma 1 bis; la stessa norma prevede, al suo secondo periodo, che il giudice da atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l’obbligo di pagamento sorge al momento del deposito dello stesso.
7.1. Ritiene il Collegio, in via preliminare, che tale pronuncia non possa aver luogo nei confronti di quelle parti, come le Amministrazioni dello Stato, della fase o del giudizio di impugnazione che siano istituzionalmente esonerate, per valutazione normativa della loro qualità soggettiva, dal materiale versamento del contributo stesso, mediante il meccanismo della prenotazione a debito.
Un principio analogo, di esenzione da ogni pronuncia al riguardo, è stato di recente – ed in modo del tutto condivisibile – affermato per i casi in cui il contributo unificato non è dovuto in ragione della natura della controversia (Cass. Sez. Un., 25 novembre 2013, n. 26280).
La questione dell’applicabilità delle norme suddette si deve porre, quindi, esclusivamente con riguardo alla ricorrente principale.
7.2. Ritiene poi il Collegio che, in base al tenore letterale della disposizione, il rilevamento della sussistenza o meno dei presupposti per l’applicazione dell’ulteriore contributo unificato sia un atto dovuto, poiché l’obbligo di tale pagamento aggiuntivo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo – ed altrettanto oggettivamente insuscettibile di diversa valutazione – del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, dell’impugnazione: atteggiandosi come un’automatica conseguenza sfavorevole dell’azionamento del diritto di impugnare un provvedimento in materie o per procedimenti assoggettati a contributo unificato, tutte le volte che l’impegno di risorse processuali reso necessario dall’esercizio di tale diritto non abbia avuto esito positivo per l’impugnante, essendo il provvedimento impugnato rimasto confermato o non alterato.
In un certo senso, può dirsi che il raddoppio del contributo si muove nell’ottica di un parziale ristoro dei costi del vano funzionamento dell’apparato giudiziario o della vana erogazione delle, pur sempre limitate, risorse a sua disposizione.
Infatti, nella previsione legislativa in esame l’obbligo del pagamento del contributo aggiuntivo sorge ipso iure, per il solo fatto del formale rilevamento della sussistenza dei suoi presupposti, al momento stesso del deposito del provvedimento di definizione dell’impugnazione: sicché da quello stesso momento è attivabile pure il procedimento per la relativa riscossione.
7.3. In questo contesto, tale rilevamento non può quindi costituire un capo del provvedimento di definizione dell’impugnazione dotato di contenuto condannatorio, né di contenuto declaratorio: a tanto ostando anzitutto la mancanza di un rapporto processuale con il soggetto titolare del relativo potere impositivo tributario, che non è neppure parte in causa, e quindi irrimediabilmente la carenza di domanda di chicchessia o di controversia sul punto e comunque discendendo il rilevamento da un obbligo imposto dalla legge al giudice che definisce il giudizio.
Deve allora ritenersi che la lettera della disposizione conferisca al giudice dell’impugnazione il solo potere-dovere di rilevare la sussistenza o meno dei presupposti per l’applicazione del raddoppio del contributo unificato, cioè che l’impugnazione sia stata rigettata integralmente, ovvero dichiarata inammissibile o improcedibile.
Pertanto, non può e non deve il giudice che definisce l’impugnazione operare valutazioni o declaratorie di sorta, visto che la sussistenza o meno di quei presupposti è un fatto insuscettibile di diversa estimazione e che il rilevamento di quelli non è legato in alcun modo alla condanna alle spese, ma è reso oggetto di una mera presa d’atto; ed il capo del provvedimento con una tale presa d’atto costituisce solo il presupposto per l’insorgenza dell’obbligo di pagamento in capo al soccombente.
7.4. E tanto in applicazione del seguente principio di diritto: in tema di contributo unificato per i gradi o i giudizi di impugnazione, ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, inserito dall’art. 1, comma 17, della L. 24 dicembre 2012, n. 228, il giudice dell’impugnazione è vincolato, pronunziando il provvedimento che la definisce, a dare atto – senza ulteriori valutazioni decisionali – della sussistenza dei presupposti (rigetto integrale o inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione) per il versamento, da parte dell’impugnante soccombente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione da lui proposta, a norma del comma 1-bis del medesimo art. 13.
7.5. L’assoluta carenza di discrezionalità in capo al giudice che definisce l’impugnazione non lascia al Collegio altra scelta, pertanto, anche nel presente caso e nonostante la disposta compensazione delle spese del giudizio di legittimità, che dare atto della dichiarazione d’inammissibilità del ricorso principale, quale presupposto per il versamento, da parte della ricorrente principale ed ai sensi dell’art. 13 co. 1-quater d.P.R. 115/02 come modif. dalla L. 228/12, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello dovuto per il ricorso principale.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso principale e quello incidentale, corretta la motivazione dell’impugnato decreto della corte d’appello di Roma; compensa le spese del giudizio di legittimità; da atto che, ai sensi dell’art. 13, co. 1-quater d.P.R. 115/02, come modif. dalla L. 228/12, ricorrono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente principale, dell’ulteriore importo per contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale.

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