Corte di Cassazione, sez. V Civile, Sentenza n.23668 del 01/10/2018

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. Perrino Angelina Maria – rel. consigliere –

Dott. TRISCARI Giancarlo – Consigliere –

Dott. GORI Pierpaolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al numero 15837 del ruolo generale dell’anno 2011 proposto da:

s.p.a. ANAS, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso, giusta procura speciale allegata al ricorso, dagli avvocati Giuseppe Pizzonia e Giuseppe Russo Corvace, presso lo studio dei quali in Roma, alla via della Scrofa, n. 57, elettivamente si domicilia;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del direttore pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, presso gli uffici della quale in Roma, Alla via dei Portoghesi, n. 12, si domicilia;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio, depositata in data 18 giugno 2010, n. 89/28/10;

udita la relazione sulla causa svolta alla pubblica udienza in data 23 aprile 2018 dal Consigliere Dott. Angelina Maria Perrino;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DEL CORE Sergio, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

uditi per la contribuente l’avv. Giuseppe Pizzonia e per l’Agenzia l’avvocato dello Stato Alessandro Maddalo.

FATTI DI CAUSA

Si legge nella narrativa della sentenza impugnata che l’ANAS e le società concessionarie Autostrade Meridionali e Tangenziale di Napoli in occasione del rinnovo, risalente al 1999, delle concessioni delle tratte autostradali rispettivamente di competenza di ciascuna delle due, definirono i precedenti rapporti obbligatori tra esse intercorsi.

In particolare, Autostrade Meridionali, all’atto della stipula di una nuova convenzione con scadenza al 2012, rinunciò ai crediti che aveva maturato a titolo di mancati adeguamenti tariffari e l’ANAS rinunciò al credito che vantava per canoni devolutivi. Dal canto suo, la Tangenziale di Napoli, al cospetto della proroga sino al 2037 della concessione, che sarebbe altrimenti scaduta nel 2007, rinunciò al credito di cui era titolare nei confronti dell’ANAS per contributi compensativi di minori introiti di pedaggio.

Ne scaturì un avviso di accertamento col quale l’Agenzia delle Entrate recuperò nei confronti dell’ANAS l’iva concernente queste operazioni, che la società impugnò, ottenendone l’annullamento dalla Commissione tributaria provinciale di Roma.

Quella regionale del Lazio, di contro, ha accolto l’appello dell’Agenzia. A sostegno della decisione, il giudice d’appello ha ricostruito la volontà delle parti qualificandola come transattiva e, a fronte delle reciproche concessioni, ha riconosciuto l’imponibilità delle operazioni ai fini Iva e, per conseguenza, la legittimità dell’avviso di accertamento.

Contro questa sentenza propone ricorso la società per ottenerne la cassazione, che affida a cinque motivi, che illustra con memoria, cui l’Agenzia replica con controricorso.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.- Col primo e col quarto motivo di ricorso, da esaminare congiuntamente perchè connessi, rispettivamente proposti ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, la società denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. da 1362 a 1371 e 1965 c.c. e segg., D.L. n. 333 del 1992, art. 14, commi3 e 4 e D.I. n. 283 del 1998, art. 2 (primo motivo), nonchè l’insufficienza della motivazione della sentenza impugnata perchè affetta da omissioni logiche e fattuali (quinto motivo).

Confuta, in particolare, la ricostruzione della volontà negoziale come compiuta dal giudice d’appello, perchè, rileva, basata unicamente sul canone letterale e non già sul contesto negoziale e normativo entro il quale le parti hanno operato, delineato dallo schema predefinito che ha segnato il contenuto delle convenzioni rispettivamente intercorse tra l’ANAS, le Autostrade Meridionali e la Tangenziale di Napoli, che dava altresì conto della mancanza di pendenze tra le parti.

1.1.- La censura complessivamente proposta è inammissibile in relazione a entrambi i profili in cui è articolata:

– lo è quanto al profilo in diritto, perchè s’infrange contro un tipico accertamento di fatto riservato al giudice del merito.

In tema d’interpretazione del contratto, difatti, il procedimento di qualificazione giuridica consta di due fasi, delle quali la prima, appunto quella consistente nella ricerca e nella individuazione della comune volontà dei contraenti coinvolta dalla censura in questione, è sindacabile in sede di legittimità solo per vizi di motivazione in relazione ai canoni di ermeneutica contrattuale di cui agli art. 1362 e ss. c.c. E’ la seconda, estranea al perimetro del motivo, ossia quella concernente l’inquadramento della comune volontà nello schema legale corrispondente, che si risolve nell’applicazione di norme giuridiche e che può formare oggetto di verifica e riscontro in sede di legittimità sia in relazione alla descrizione del modello tipico della fattispecie legale, sia per quanto riguarda la rilevanza qualificante degli elementi di fatto così come accertati, sia infine con riferimento alla individuazione delle implicazioni sul piano degli effetti effettuali conseguenti alla sussistenza della fattispecie concreta nel paradigma normativo (da ultimo, Cass., ord. 5 dicembre 2017, n. 29111, nonchè, con specifico riguardo alla transazione, 10 giugno 2005, n. 12320);

– lo è quanto a quello concernente il vizio di motivazione, perchè si risolve nella mera contrapposizione tra l’interpretazione offerta in ricorso e quella accolta nella sentenza impugnata. Quest’ultima non deve essere difatti l’unica astrattamente possibile, ma solo una delle plausibili interpretazioni, sicchè, quando di un regolamento negoziale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che sia stata privilegiata l’altra (Cass. 28 novembre 2017, n. 28319).

2.- Col secondo motivo, proposto ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la contribuente lamenta la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 3, 6, 11 e 15, nonchè del D.L. n. 444 del 1992, art. 14, commi 3 e 4, perchè, sostiene, in generale il contratto di transazione individuato dal giudice d’appello non è compreso nel novero dei contratti nominati le prestazioni scaturenti dai quali sono soggette a Iva e, in particolare, dal contratto in questione non derivano obbligazioni di fare, di non fare e di permettere correlate da nesso di corrispettività a controprestazioni.

Il motivo è infondato.

2.1.- La direttiva Iva ha un amplissimo spettro di applicazione e, con specifico riguardo all’individuazione delle prestazioni di servizi imponibili, si limita a richiedere che i servizi siano prestati da un soggetto passivo in quanto tale e siano direttamente correlati al corrispettivo (tra varie, Corte giust. 3 settembre 2015, causa C-463/14, Asparuhovo Lake Investment Company 00D).

2.2.- In questo contesto, le categorie negoziali del diritto interno vanno connotate secondo la prospettiva tributaria, alla stregua della quale finiscono col perdere la loro complessità semantica: ciò che conta sono soltanto i tratti idonei a rivelare l’esistenza del presupposto d’imposta.

Ed è a questo fine che la Corte di giustizia sottolinea che la valutazione della realtà economica e commerciale costituisce un criterio fondamentale per l’applicazione del sistema comune dell’iva, destinato a prevalere anche sul testo dei contratti (Corte giust. 20 giugno 2014, causa C.653/11, Commissioners Her Majesty’s Revenue and Customs c. Newey, punto 40; 7 ottobre 2010, Loyalty Management UK e Baxi Group, C-53/09 e C-55/09, punti 39 e 40 nonchè la giurisprudenza ivi citata).

Significativamente la Corte ha aggiunto che “la presa in considerazione degli elementi come la volontà di un soggetto passivo partecipante all’operazione è, salvo casi eccezionali, contraria agli scopi del sistema comune Iva, di garantire la certezza del diritto e di agevolare le operazioni inerenti all’applicazione dell’IVA dando rilevanza alla natura oggettiva dell’operazione di cui trattasi” (Corte giust. 11 luglio 2018, causa C-154/17, SIA “E LATS”, punto 36).

Si spiega quindi che l’art. 6 della sesta direttiva, nel definire la prestazione di servizi, ricorra al lemma descrittivo di “operazione”.

A ogni modo, in base all’art. 6, riprodotto dall’art. 24, comma 1, della direttiva n. 2006/112/Ce, “Si considera “prestazione di servizi” ogni operazione che non costituisce una cessione di beni”.

In particolare, la prestazione di servizi pretende:

a.- la configurabilità di un rapporto giuridico da cui scaturiscano le attribuzioni patrimoniali;

b.- la reciprocità delle attribuzioni, data dalla sussistenza di un nesso diretto tra il servizio fornito al destinatario ed il compenso da costui corrisposto (tra varie, Cass. 9 giugno 2017, n. 14406 e, nella giurisprudenza unionale, da ultimo, Corte giust. 22 febbraio 2018, causa C-182/17, Nagyszenas Telepulesszolgaltatasi Nonprofit Kft).

2.3.- Nel caso in esame, dunque, in cui, con accertamento rimasto incontrastato, il giudice d’appello ha acclarato che le parti, soggetti passivi Iva, hanno reciprocamente rinunciato ai crediti che l’una vantava nei confronti dell’altra e viceversa, impegnandosi altresì “…ad estinguere i relativi giudizi eventualmente pendenti”, è senz’altro configurabile l’operazione imponibile ai fini Iva: la prestazione di servizi consiste nella rinuncia al credito e nell’impegno ad estinguere il relativo giudizio pendente, che configurano obbligazioni rispettivamente di non fare e di fare e che trovano corrispettivo nella rinuncia e nell’impegno corrispondenti assunti dalla controparte.

3.- Si deve sul punto dissentire da un indirizzo emerso nella giurisprudenza di questa Corte secondo cui “…La pattuizione di un impegno negativo è ritenuta non imponibile perchè l’applicazione dell’imposta in queste ipotesi normalmente si discosta dal paradigma di quella che è concepita come un’imposta generale sul consumo e dal meccanismo del suo funzionamento concreto” (Cass. 5 settembre 2014, n. 18764, resa appunto con riguardo all’imponibilità ai fini Iva di una transazione, sulla quale la società punta in memoria).

Anzitutto, l’imponibilità della pattuizione dell’impegno negativo, specificamente dell’impegno di non fare, difatti, è espressamente stabilita nel diritto unionale rispettivamente dall’art. 6 della sesta direttiva e dall’art. 25, lett. b) della direttiva di rifusione n. 2006/112/Ce e, nel diritto interno, dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 3.

Inoltre, l’imponibilità di una tale pattuizione non confligge affatto col funzionamento concreto dell’iva: il sistema è neutro, e caratterizzato, salvo il caso delle importazioni, dalla detrazione di imposta da imposta, in modo da consentire lo scorrimento dell’imposta fra i soggetti interessati e le relative operazioni imponibili, attraverso fasi mediante le quali il peso fiscale raggiunge il consumatore finale.

3.1.- D’altronde, le sentenze della Corte di giustizia citate a sostegno di Cass. n. 18764/14 si riferiscono a fattispecie diversa e del tutto disomogenea, presidiata dal perseguimento dell’interesse generale della collettività e non già di quello singolare del committente: era in relazione all’impegno di un produttore agricolo, fronteggiato da un’indennità, di cessare la produzione lattiera, che la Corte Europea osservava che, “assegnando un’indennità ai produttori agricoli che si impegnano a cessare la produzione lattiera, la Comunità non acquista beni nè servizi a proprio uso, ma agisce nell’interesse generale, che è quello di promuovere il corretto funzionamento del mercato comunitario del latte. Di conseguenza, l’impegno del produttore agricolo di abbandonare la produzione lattiera non apporta nè alla Comunità nè alle autorità nazionali competenti vantaggi tali da far ritenere questi soggetti destinatari di un servizio” (Corte giust. 29 febbraio 1996, causa C-215/94, Mohr, punti 21-22).

Analogamente, secondo Corte giust. 18 dicembre 1997, causa C-384/95, Landboden Agardienste GmbH, gli artt. 6, n. 1, e 11, sub A, n. 1, lett. a), della sesta direttiva debbono essere interpretati nel senso che l’impegno, assunto da un imprenditore agricolo nell’ambito di un regime di indennità nazionale, di astenersi dal raccogliere almeno il venti per cento delle patate da lui coltivate non costituisce una prestazione di servizi ai sensi della direttiva 77/388; di conseguenza, l’indennità percepita a tale titolo non è soggetta all’imposta sulla cifra d’affari.

3.2.- Ancora diversa, e irrilevante nel caso in esame, è poi la fattispecie esaminata da Cass. 19 aprile 1996, n. 3729, la quale ha escluso che costituisse prestazione di servizi ai fini tributari la corresponsione di una somma di denaro nel quadro di un accordo transattivo, volto a regolare tutte le questioni relative ad un cessato rapporto locativo, ma in base alla considerazione che l’accordo fosse svincolato dai fini dell’impresa.

Significativamente la Corte di giustizia, con la sentenza in causa C-463/14, dinanzi citata, ha liquidato la questione concernente l’imponibilità in generale dell’obbligo di non fare, limitandosi a richiamare l’art. 25, lett. b), della direttiva 2006/112/Ce, il quale espressamente riconosce che la prestazione di servizi può consistere “(nel)l’obbligo di non fare o di permettere un atto o una situazione” (si muove in questa direzione, nella giurisprudenza interna, Cass. 15 marzo 2013, n. 6607, a proposito di un affare in cui l’originaria parte interessata all’acquisto era stata sostituita da un’altra per accordo remunerato e col consenso negoziale del venditore; in termini, da ultimo, Cass. 31 luglio 2018, n. 20233).

Il motivo va quindi respinto.

4.- Col terzo e col quinto motivo di ricorso, da esaminare congiuntamente, perchè affrontano la medesima questione sotto diversi profili, la società denuncia, rispettivamente in base dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, le statuizioni concernenti la determinazione e la quantificazione della base imponibile dell’iva.

4.1.- Da respingere è sul punto l’eccezione d’inammissibilità proposta dall’Agenzia per la pretesa carenza di autosufficienza delle censure, in quanto il contenuto delle contestazioni svolte in primo grado dalla società, sebbene non riportato in ricorso, è richiamato per relationem al ricorso introduttivo, che è allegato a quello di legittimità.

4.2.- La censura complessivamente proposta è comunque inammissibile, sia perchè non è congruente col contenuto della decisione, che ragguaglia la base imponibile dell’iva alle “reciproche posizioni di debito e di credito”, dell’importo delle quali dà conto in narrativa, sia perchè involge accertamenti di fatto che concernono la materia transatta, in quanto tali irrilevanti.

Ciò perchè il nuovo regolamento d’interessi determinato dalla transazione viene a sostituirsi a quello precedente cui si riconnetteva la lite o il pericolo di lite (Cass. 4 maggio 2016, n. 8917) e, al pari della sentenza, copre non soltanto il dedotto, ma anche il deducibile (Cass., ord. 9 ottobre 2017, n. 23482).

E ciascuna prestazione di servizi confluita nell’operazione è soggetta all’imposta separatamente da quella in corrispondenza della quale è effettuata (D.P.R. n. 633 del 1972, art. 11, comma 1).

4.3.- A tanto va aggiunto, quanto alla contestazione concernente la pretesa intransigibilità di pretese “non liquide, nè esigibili”, che, per orientamento consolidato di questa Corte, a nulla rileva che la transazione abbia previsto l’estinzione del diritto al risarcimento anche dei danni futuri, potendo tale previsione riguardare solo quelli, tra i danni futuri, ragionevolmente prevedibili al momento della stipula; stabilire, poi, se un determinato tipo di danno sia o meno prevedibile all’epoca della transazione è anch’esso accertamento di fatto riservato al giudice di merito (Cass. 12 ottobre 2011, n. 20981).

5.- Va, peraltro, rilevato che in memoria la ricorrente ha invocato il trattamento più favorevole riconosciuto dal D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158, per le violazioni commesse, per le quali, giusta quanto emerge dall’avviso di accertamento richiamato in ricorso e a esso allegato, le sanzioni sono state commisurate nella misura minima all’epoca prevista.

5.1.- Occorre quindi che il giudice del merito rinnovi la propria valutazione, al fine di verificare se il nuovo valore del minimo previsto per le sanzioni sia adeguato alla specifica fattispecie, in considerazione degli elementi soggettivi ed oggettivi rilevanti e se risulti favorevolmente modificato il complessivo trattamento sanzionatorio.

In sede di rinvio, il giudice regolerà anche le spese.

P.Q.M.

la Corte, pronunciando sul ricorso, cassa la sentenza impugnata nei limiti indicati in motivazione e rinvia, in relazione al relativo profilo, nonchè per la regolazione delle spese, alla Commissione tributaria regionale del Lazio in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 11 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 1 ottobre 2018

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