Corte di Cassazione, sez. V Civile, Ordinanza n.23691 del 01/10/2018

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Presidente –

Dott. RANALDI Alessandro – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina Anna Piera – rel. Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello M. – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 8951/11 R.G. proposto da:

BRISTOL – MYERS SQUIBB S.R.L., in persona del legale rappresentante, rappresentata e difesa dagli avv.ti Leonardo Perrone e Gianmarco Tardella, con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Gianmarco Tardella, in Roma, via Giovanni Nicotera, n. 29;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio eletto in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

– controricorrente –

e nei confronti di:

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro tempore;

– intimato –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Centrale di Roma n. 1115/15/10 depositata in data 22 febbraio 2010;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 11.7.2018 dal Consigliere dott.ssa Pasqualina Anna Piera Condello.

RITENUTO IN FATTO

Con avviso di accertamento notificato il 5/11/1980 l’Ufficio distrettuale delle imposte dirette di Roma accertava a carico della società Bristol Italiana s.p.a. maggior imponibile ai fini Irpeg ed Ilor in relazione all’anno d’imposta 1974.

La contribuente proponeva ricorso dinanzi alla Commissione tributaria di primo grado, eccependo la violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43 nonchè la nullità dell’avviso perchè eseguito da ufficio incompetente per territorio e perchè mancante della sottoscrizione del dirigente titolare dell’ufficio.

I giudici di primo grado, accogliendo parzialmente il ricorso, riducevano il reddito imponibile accertato ai fini Irpeg ed Ilor.

Proposto appello dalla contribuente, la Commissione tributaria di secondo grado annullava l’avviso di accertamento, ritenendo che questo fosse stato notificato oltre i termini prescritti dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43.

Motivava, in particolare, che la società, utilizzando il modulo approvato per l’anno precedente, aveva presentato la dichiarazione dei redditi Mod. 760, relativa al periodo 1/1/1974 – 30/6/1974, in data 4 ottobre 1974, ossia nel termine di 30 giorni dall’approvazione del bilancio relativo al suddetto periodo, in ottemperanza al disposto di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 9 ma, poichè a tale data non era stato ancora approvato con decreto del Ministro delle Finanze il Modello 760 per la dichiarazione dei redditi, a seguito di proroga dei termini (al 15 maggio 1975) per la presentazione della dichiarazione dei redditi disposta dal D.P.R. 28 marzo 1975, n. 60, art. 3 la società, aderendo all’invito rivolto dall’Amministrazione finanziaria con circolare n. 21 del 12 aprile 1975, aveva provveduto a rinnovare la dichiarazione in precedenza presentata, compilando, entro il termine prorogato, il nuovo modello nel frattempo approvato dal Ministero delle Finanze e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale.

Secondo i giudici di appello, pertanto, solo la prima dichiarazione dei redditi presentata dalla società poteva considerarsi rilevante, con la conseguenza che la presentazione della dichiarazione sul nuovo modello non poteva avere inciso sul termine di decorrenza dell’azione accertatrice, che non poteva considerarsi prorogato al 31.12.1980.

L’Ufficio proponeva ricorso avverso la suddetta decisione, ribadendo la tempestività dell’accertamento, mentre la contribuente resisteva al ricorso e riproponeva il motivo, implicitamente assorbito nella decisione di secondo grado, con il quale aveva dedotto la nullità dell’accertamento per violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42.

La Commissione tributaria Centrale, accogliendo il ricorso dell’Agenzia delle Entrate, affermava che il termine quinquennale di decadenza dall’azione di accertamento decorreva dal giorno della presentazione della dichiarazione compilata sul nuovo modello e che la ulteriore eccezione di nullità dell’avviso di accertamento per mancata sottoscrizione da parte del capo dell’Ufficio o di altro funzionario delegato era infondata.

La contribuente ricorre per cassazione con cinque motivi, cui resiste l’Agenzia delle Entrate mediante controricorso.

La contribuente ha depositato memoria ex art. 380-bis cod. proc. civ..

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. In via preliminare, va dichiarata la inammissibilità del ricorso proposto nei confronti del Ministero dell’Economia e delle Finanze.

In tema di contenzioso tributario, a seguito del trasferimento alle agenzie fiscali, da parte del D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 300, art. 57, comma 1, di tutti i “rapporti giuridici”, i “poteri” e le “competenze” facenti capo al Ministero dell’Economia e delle Finanze, a partire dal primo gennaio 2001 (giorno di inizio di operatività delle Agenzie fiscali in forza del D.M. 28 dicembre 2000, art. 1), unico soggetto passivamente legittimato è l’Agenzia delle Entrate, sicchè è inammissibile il ricorso per cassazione promosso nei confronti del Ministero dell’Economia e delle Finanze (Cass. n. 1550 del 28/01/2015).

2. Con il primo motivo la ricorrente, deducendo violazione e falsa applicazione del D.L. n. 112 del 2008, art. 55, comma 1, convertito con modificazioni in L. n. 133 del 2008, sostiene che la Commissione tributaria centrale ha erroneamente omesso di dichiarare la estinzione del giudizio, nonostante la assenza di una valida dichiarazione di persistenza di interesse alla prosecuzione del giudizio da parte dell’Agenzia delle Entrate, considerato che la dichiarazione rinvenuta nel fascicolo non è riferibile alla presente controversia, se non per la indicazione del numero di registro generale, dato che attiene ad altro avviso di accertamento ed indica il nome di un diverso contribuente.

2.1. La censura è infondata.

Il D.L. n. 112 del 2008, art. 55 prevede che “relativamente ai soli processi pendenti, su ricorso degli uffici dell’Amministrazione finanziaria, innanzi alla Commissione tributaria centrale… per i quali non è stata ancora fissata l’udienza di trattazione alla data di entrata in vigore del presente decreto, i predetti uffici depositano presso la competente segreteria, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto, apposita dichiarazione di persistenza del loro interesse alla definizione del giudizio. In assenza di tale dichiarazione i relativi processi si estinguono di diritto e le spese del giudizio restano a carico della parte che le ha sopportate”.

2.2. La ricorrente non ha dimostrato di avere eccepito la violazione della suddetta disposizione normativa dinanzi alla Commissione tributaria centrale, emergendo piuttosto dalla sentenza impugnata che la Bristol Italiana s.p.a. si sia limitata a difendersi nel merito ed a riproporre il vizio, implicitamente assorbito dalla sentenza di secondo grado, concernente la nullità dell’avviso di accertamento per mancanza di valida sottoscrizione.

Qualora con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso stesso, di indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Suprema Corte di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione (Cass. n. 23675 del 18/10/2013).

La novità della censura impedisce il suo esame in sede di legittimità.

3. Con il secondo motivo la ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 9,43 e 71 vigenti ratione temporis, e ribadisce la eccezione di nullità dell’avviso di accertamento perchè notificato oltre il termine quinquennale previsto a pena di decadenza dal D.P.R. n. 600 del 1973, allora vigente art. 43.

Richiamando le deduzioni difensive già esposte nel giudizio di merito, la ricorrente ha precisato di avere presentato la dichiarazione relativa al primo semestre dell’anno 1974 in data 4/10/1974, e quindi nel rispetto dei termini prescritti dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 9 utilizzando il modello previsto per l’anno precedente, e che solo successivamente all’approvazione, da parte del Ministero delle Finanze, del nuovo modello per l’anno 1974, ha ricopiato la dichiarazione sul modello conforme, aderendo all’invito rivolto dall’Amministrazione con circolare n. 21/R.T. del 12/4/1975, con la quale si sollecitavano i soggetti passivi Irpeg, che avevano presentato la dichiarazione anteriormente alla data di pubblicazione del Mod. 760 nella Gazzetta Ufficiale, a “rinnovarla” compilando detto modello entro il termine del 15 maggio 1975.

Ad avviso della ricorrente, essendo i termini di decorrenza previsti dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43 “prorogabili” solamente con legge, alla data di notifica dell’avviso di accertamento detti termini erano già decorsi e, di conseguenza, la Commissione tributaria Centrale non aveva fatto corretta applicazione della disposizione normativa.

3.1. Il motivo è infondato.

3.2. A norma del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 8 all’epoca vigente, le dichiarazioni dovevano essere redatte, a pena di nullità, su stampati conformi ai modelli approvati con decreto del Ministro delle Finanze.

Da ciò consegue che, poichè la dichiarazione dei redditi presentata dalla contribuente in data 4.10.1974, come dalla stessa evidenziato, è stata predisposta sul modello previsto per l’anno precedente, la decorrenza dei termini per l’azione di accertamento da parte dell’Amministrazione finanziaria non può farsi decorrere dalla data di presentazione di una dichiarazione invalida, ma esclusivamente dalla data di presentazione della dichiarazione ricopiata sul nuovo modello 760 approvato con decreto del Ministero delle Finanze.

Considerato che la dichiarazione è stata ripresentata nel 1975, l’avviso di accertamento va ritenuto tempestivo perchè notificato entro il termine di cinque anni.

4. Con il terzo motivo la contribuente denuncia violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2909 cod. civ. e art. 324 cod. proc. civ. e sostiene che, poichè la sentenza di primo grado aveva ridotto il maggior imponibile accertato ai fini Irpeg e Ilor e tale statuizione non ha costituito oggetto di motivo di gravame da parte dell’Ufficio, i giudici della Commissione Tributaria centrale, nell’accogliere integralmente il ricorso dell’Agenzia delle Entrate e nel confermare totalmente l’avviso di accertamento, sono incorsi nella violazione del giudicato interno formatosi sul capo della sentenza che aveva rideterminato il maggior imponibile originariamente accertato.

5. Con il quarto motivo, deducendo nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., la ricorrente, muovendo nuovamente dal presupposto che si è formato il giudicato interno sulla decisione della Commissione tributaria di primo grado nella parte in cui ha accertato un minor imponibile, evidenzia che la Commissione tributaria centrale è incorsa nel vizio di extrapetizione.

6. Il terzo ed il quarto motivo che, essendo strettamente connessi, possono essere trattati congiuntamente, sono infondati.

6.1. Dallo svolgimento in fatto della sentenza impugnata si evince che, sebbene l’Ufficio non abbia proposto appello incidentale, con la sentenza di secondo grado i giudici, ritenendo illegittimo l’avviso di accertamento perchè notificato oltre i termini di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43 hanno accolto l’appello della contribuente annullando tutte le statuizioni contenute nella sentenza di primo grado, ivi comprese quelle concernenti la determinazione dell’imponibile ai fini Irpeg ed Ilor, considerato che l’accertamento della intempestività dell’accertamento ha inevitabilmente fatto venire meno la decisione riguardante l’accertamento dell’imponibile.

A seguito di proposizione, da parte dell’Ufficio, di ricorso dinanzi alla Commissione tributaria Centrale la contribuente si è limitata a riproporre il solo motivo che era rimasto assorbito dalla decisione di secondo grado, ossia la pretesa violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42 e, pertanto, le questioni concernenti l’accertamento dell’imponibile devono intendersi abbandonate.

Deve, quindi, escludersi la formazione del giudicato interno sul capo della decisione di primo grado che aveva ridotto il maggior imponibile accertato.

7. Con il quinto motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, commi 1 e 3 e della L. n. 146 del 1980, art. 17 in combinato disposto con l’art. 2697 cod. civ., ed assume che la sentenza impugnata si pone in evidente contrasto con le norme richiamate laddove afferma che l’avviso di accertamento risulta sottoscritto da soggetto che rivestiva la qualifica di “funzionario” e che ha apposto la firma “per” il direttore titolare.

7.1. Il motivo è infondato.

Risulta prevalente, nella giurisprudenza di legittimità, l’orientamento secondo cui, in tema di imposte sui redditi, in base al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, commi 1 e 3, gli accertamenti in rettifica e gli accertamenti d’ufficio sono nulli tutte le volte che gli avvisi nei quali si concretizzano non risultino sottoscritti dal capo dell’ufficio emittente o da un impiegato della carriera direttiva validamente delegato dal reggente di questo; ne consegue che la sottoscrizione dell’avviso di accertamento da parte di funzionario diverso da quello istituzionalmente competente a sottoscriverlo, o da soggetto non efficacemente delegato, non soddisfa il requisito di sottoscrizione, previsto, a pena di nullità, dall’art. 42, commi 1 e 3, dinanzi citato (Cass. 10/11/2000 n. 14626; n. 17400 del 11/10/2012; n. 14942 del 14/6/2013; n. 22800 del 9/11/2015).

Si è pure precisato che solo in diversi contesti fiscali, quali ad esempio la cartella esattoriale (Cass. n. 13461 del 2012), il diniego di condono (Cass. 220 del 2014) o l’avviso di mora (Cass. 4283 del 2010), in mancanza di una sanzione espressa, opera la presunzione generale di riferibilità dell’atto all’organo amministrativo titolare del potere nel cui esercizio esso è adottato.

L’orientamento richiamato non risulta contraddetto dalla sentenza n. 22800 del 9/11/2015, che, affrontando la questione della interpretazione del concetto di “impiegato della carriera direttiva” cui può essere delegato il potere di sottoscrizione dell’atto, ha ritenuto che, ove venga contestata l’esistenza di uno specifico atto di delega da parte del capo dell’ufficio o la appartenenza dell’impiegato delegato alla carriera direttiva, spetta all’Amministrazione fornire la relativa prova, e ciò sulla base del principio di vicinanza della prova, considerato che si discute di circostanze che coinvolgono direttamente l’Amministrazione, che detiene la relativa documentazione, di non facile accesso al contribuente (Cass. 5/9/2014, n. 18758; n. 1704 del 10/7/2013).

7.2. La decisione impugnata, uniformandosi ai principi sopra richiamati, con accertamento di fatto, ha rilevato, all’esito dell’esame dell’avviso impugnato, che questo reca la dicitura “il titolare dell’ufficio”, sulla quale è stato apposto un timbro che reca le scritte “p. Il Direttore Titolare”, nonchè più in basso, “Il Funzionario” e la firma, ed ha ritenuto che l’atto impositivo è stato sottoscritto da persona che rivestiva la qualifica di “funzionario” e deve, pertanto, intendersi riferito allo stesso direttore dell’Ufficio.

L’accertamento svolto dal giudice di merito non può, dunque, essere riesaminato in sede di legittimità.

8. Con la memoria ex art. 380-bis cod. proc. civ., la ricorrente ha avanzato richiesta di applicazione dello ius superveniens di cui al D.Lgs. n. 158 del 2015 e, quindi, la rideterminazione delle sanzioni irrogate.

8.1. Questa Corte ha avuto modo di affermare che la modifica normativa non opera in maniera generalizzata in favor rei, con la conseguenza che non è consentito di operare la trasformazione della sanzione irrogata in sanzione illegale, in assenza di specifica deduzione dell’applicabilità in concreto di una sanzione tributaria inferiore rispetto a quella applicata, a ciò ostandovi non soltanto il principio di necessaria specificità dei motivi di ricorso in cassazione, ma anche il principio costituzionale di ragionevole durata del processo (Cass. 9505 del 12/4/2017; Cass. n. 20141 del 7/10/2016).

8.2. Nel caso di specie la ricorrente ha chiesto che la sanzione venga ridotta al 90% del medesimo tributo accertato in base ai “nuovi” minimi edittali stabiliti dalla nuova normativa (D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 5, comma 4, – come novellato), il quale prevede che “se dalla dichiarazione presentata risulta un’imposta inferiore a quella dovuta ovvero un’eccedenza detraibile o rimborsabile superiore a quella spettante, si applica la sanzione amministrativa dal novanta al centottanta per cento della differenza”, in base al principio del “favor rei” sancito dal D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 3, comma 3.

Tuttavia, non avendo riprodotto gli elementi considerati dall’Amministrazione per la commisurazione della sanzione, non è possibile verificare se questa sia stata quantificata nel minimo all’epoca dei fatti previsto in assenza di ogni altra considerazione dei criteri evocati dal D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 7 oppure se l’Ufficio abbia quantificato le sanzioni avendo riguardo al quantum, indipendentemente dal fatto che esso fosse anche la sanzione minima all’epoca applicabile, ritenendo che quel quantum fosse adeguato alla gravità dell’illecito accertato, tenuto conto, tra l’altro, della condotta dell’agente e delle sue condizioni economiche (Cass. n. 14406 del 9/6/2017).

Il fatto che sia ancora prevista una forbice tra un minimo ed un massimo non consente dunque di procedere ad un’automatica applicazione della novella e la circostanza che il quantum applicato sia tuttora compreso nella forbice edittale rende incensurabile la statuizione (Cass. n. 9670 del 14/4/2017).

La richiesta di rideterminazione delle sanzioni non può, pertanto, essere accolta.

In conclusione, il ricorso va rigettato.

Le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso proposto nei confronti del Ministero dell’Economia e delle Finanze e rigetta il ricorso proposto nei confronti della Agenzia delle Entrate.

Condanna la ricorrente al rimborso, in favore dell’Agenzia delle Entrate, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 6.500,00 a titolo di compenso, oltre alle spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 11 luglio 2018.

Depositato in Cancelleria il 1 ottobre 2018

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