Corte di Cassazione, sez. II Civile, Ordinanza n.23741 del 01/10/2018

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MATERA Lina – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 19705/2014 R.G., proposto da:

Avv. M.A., rappresentato e difeso dagli avv.ti Maurizio Paniz e Giampiero Proia, con domicilio eletto presso quest’ultimo, in Roma, alla Via Pompeo Magno n. 23/A.

– ricorrente –

contro

V.P., e V.E., rappresentati e difesi dall’avv. Fabio Petracci e dall’avv. Alessandra Marin, con domicilio eletto in Roma, presso la Cancelleria della Corte di Cassazione.

– controricorrenti –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Trieste n. 5/2014, depositata in data 10.1.2014.

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 15.6.2018 dal Consigliere Dott. Giuseppe Fortunato.

FATTI DI CAUSA

L’avv. M.A. ha ottenuto ingiunzione di pagamento per l’importo di Euro 5.757,00, a titolo di compensi professionali per l’attività svolta in favore dei resistenti in occasione della vendita ai pubblici incanti di un compendio immobiliare, disposta con sentenza del Tribunale di Triste n. 50/1998 nell’ambito di un giudizio di divisione.

Gli ingiunti hanno proposto opposizione, contestando il credito e chiedendo in via riconvenzionale la restituzione di Euro 774,68, assumendo di aver versato più del dovuto.

Il Tribunale di Trieste, preso atto che in corso di causa era stato effettuato il pagamento spontaneo di Euro 3000,00 da parte degli opponenti, ha dichiarato la cessazione della materia del contendere sulla domanda monitoria, e, pronunciando sulla riconvenzionale, ha ricalcolato il compenso in applicazione delle tariffe professionali, ordinando al ricorrente alla restituzione di Euro 774,68.

La decisione è stata confermata dalla Corte d’appello, la quale ha anzitutto escluso la nullità della sentenza di primo grado per difetto di imparzialità del giudice e ha ritenuto che il compenso fosse stato correttamente computato sul valore della quota di spettanza dei resistenti e non sull’intera massa oggetto di divisione.

Per la cassazione di questa sentenza l’avv. M.A. ha proposto ricorso in quattro motivi, cui gli intimati hanno resistito con controricorso.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo censura la violazione dell’art. 111 Cost., art. 156 c.p.c., comma 2, artt. 159,51 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 e l’omesso esame di un fatto decisivo del giudizio ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

La sentenza impugnata avrebbe erroneamente escluso la nullità della pronuncia di primo grado per vizio di imparzialità del giudice, benchè il tribunale avesse definito la lite senza minimamente tener conto degli argomenti difensivi proposti dal ricorrente, mostrando una preconcetta adesione alle tesi della controparte già nella formulazione dei quesiti al c.t.u.. Il Tribunale avrebbe, inoltre, del tutto omesso di esaminare le difese del ricorrente, asserendo erroneamente che questi aveva insistito per la conferma del decreto ingiuntivo, trascurando la richiesta di determinare il giusto compenso, anche emendando eventuali errori o duplicazioni.

Il motivo è inammissibile.

Il ricorso, oltre a dilungarsi inammissibilmente nella critica della decisione di primo grado, che, in quanto integralmente sostituita da quella d’appello, non è censurabile in sede di legittimità, è volto a contestare le argomentazioni con cui la Corte distrettuale ha escluso la nullità della prima decisione, sollevando questioni non riconducibili all’ambito delle denunciate violazioni di legge e sollecitando un controllo sulla sufficienza della motivazione che non può avere ingresso, dati i limiti in cui ne è attualmente ammesso lo scrutinio, alla luce della nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (cfr., per tutte, Cass. s.u. 8053/2014).

Il ricorrente si è, inoltre, limitato ad asserire che “la Corte d’appello, disattendendo le specifiche censure mosse dall’avv. M. ha anch’essa, come il giudice di primo grado, violato il disposto dell’art. 111 Cost., artt. 156,159 e 51 c.p.c., con la conseguenza che anche la sentenza d’appello dovrà essere dichiarata nulla e nullo il relativo procedimento”, facendo discendere il vizio della pronuncia impugnata dal rigetto del motivo di appello, senza alcuna ulteriore, e più specifica, argomentazione, peraltro trascurando che l’imparzialità esige esclusivamente l’inesistenza di un interesse personale nella causa, l’estraneità del giudice rispetto alle parti del processo e l’inesistenza di precedenti decisioni assunte sulla medesima regiudicanda in altri gradi o fasi del medesimo processo e va valutata in riferimento a posizioni, interessi o attività anteriori alla decisione e non ad essa successive (cfr. testualmente, Cass. s.u., 642/2015).

Parimenti la violazione dell’art. 51 c.p.c., non è deducibile in sede di impugnazione come motivo di nullità della sentenza,non risultando proposta nei gradi di merito l’istanza di ricusazione (Cass. 14807/2008; Cass. 21094/2017).

2. Il secondo motivo di ricorso denuncia la violazione dell’art. 112 c.p.c., D.M. n. 585 del 1994 e D.M. 8 aprile 2004, art. 6, commi 1 e 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per aver il giudice di merito calcolato i compensi sulla base del valore della quota di spettanza dei resistenti e non sulla massa oggetto della divisione giudiziale, ritenendo vincolante il criterio impiegato nella nota specifica redatta dal difensore ed applicando detto criterio anche alle competenze liquidate molti anni prima, che i resistenti avevano corrisposto senza riserve sulla base di un accordo intercorso tra le parti. Inoltre l’art. 6, comma 1, della tariffa all’epoca vigente, poteva applicarsi solo ai rapporti con la parte soccombente in giudizio e non a quelli tra il difensore ed i clienti.

Il motivo è infondato.

L’attività difensiva si è esaurita nel 2003 e la liquidazione dei compensi era regolata dal D.M. n. 585 del 1994.

L’art. 6, del suddetto decreto – con formula del tutto analoga alla corrispondente previsione del D.M. n. 127 del 2004 – disponeva che nella liquidazione degli onorari a carico del soccombente, il valore della causa andava determinato a norma del codice di procedura civile, avendo, tuttavia, riguardo nei giudizi di divisione, alla quota o ai supplementi di quota in contestazione, e tale criterio, basato sul valore della quota, trovava applicazione in via analogica anche nei rapporti tra difensore e cliente (Cass. 8839/1999; per l’analoga previsione del D.M. n. 127 del 2004, art. 6:Cass. 6765/2012; Cass. 2017/20554).

Quanto al fatto che, in relazione agli importi versati spontaneamente dai resistenti molti anni prima della instaurazione del giudizio, si fosse perfezionato un accordo, il ricorso non spiega dove e quando tale circostanza sia stata dedotta in giudizio, nè di essa vi è alcuna menzione nella sentenza impugnata, e pertanto tale questione risulta nuova e non può, quindi, trovare ingresso in cassazione.

3. Il terzo motivo censura la violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c. e art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per aver la sentenza escluso che il ricorrente avesse contestato le riduzioni operate dal c.t.u., sebbene egli avesse dedotto che le duplicazioni risultanti nella nota specifica riguardavano diritti reintegrabili per espressa previsione tabellare e che talune voci di tariffa (per collazione, posizione e archivio, fascicolazione, consultazioni con il cliente, istanze al giudice, corrispondenza informativa e redazione nota spese) si riferivano alle attività svolte più volte ed in fasi diverse (nel corso del giudizio di divisione e della successiva vendita all’incanto).

Il motivo è inammissibile.

La Corte distrettuale ha giudicato inammissibile, per difetto di specificità, il motivo di gravame volto a contestare la legittimità delle decurtazioni apportate dal c.t.u. alla nota specifica depositata in giudizio e tale statuizione non è stata censurata dal ricorrente, il che osta all’esame delle questioni di merito dedotte in ricorso.

4. Il quarto motivo censura la violazione dell’art. 115 c.p.c. e art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

La pronuncia non avrebbe statuito sulla richiesta di acquisizione del contratto del 25.2.2005 con cui l’immobile oggetto di divisione era stato venduto a terzi, disponendo che il ricavato della vendita dovesse essere ripartito tra gli aventi diritto previa deduzione delle spese relative al giudizio di divisione e alla procedura di vendita all’incanto, incluse quelle corrisposte al ricorrente in base alla fattura n. ***** e quelle oggetto della missiva del 20.1.2004.

Il motivo è inammissibile poichè non illustra il rilievo e la decisività del suddetto contratto di vendita per la soluzione della controversia e per la quantificazione dei compensi del difensore (Cass. s.u. 8053/2014).

Non si configura, comunque, la violazione dell’art. 115 c.p.c. e art. 2697 c.c., dato che la mancata acquisizione di un documento non integra la violazione delle norme che disciplinano l’onere della prova e la formazione del convincimento del giudice.

Il ricorso è respinto con aggravio di spese secondo soccombenza, come da liquidazione in dispositivo.

Sussistono le condizioni per dichiarare che il ricorrente è tenuto a versare l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, che ha aggiunto del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di lite, che si liquidano in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 2200,00 per compensi, oltre ad Iva, cnap e rimborso forfettario spese generali in misura del 15%.

Si dà atto che il ricorrente è tenuto a versare l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, che ha aggiunto del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater.

Così deciso in Roma, il 15 giugno 2018.

Depositato in Cancelleria il 1 ottobre 2018

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