Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Sentenza n.23756 del 01/10/2018

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 9593-2013 proposto da:

BANCA FIDEURAM S.P.A., c.f. ***** in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA SABOTINO 22, presso lo studio dell’avvocato STUDIO GEMMA TRONCI, rappresentata e difesa dall’avvocato DANIELE SCIARRILLO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

S.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA OSLAVIA 39/F, presso lo studio dell’avvocato SILVIO CARLONI, che lo rappresenta e difende – unitamente all’avvocato FRANCESCO BOCHICCHIO, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 355/2012 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 05/04/2012 R.G.N. 736/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 12/12/2017 dal Consigliere Dott. FEDERICO DE GREGORIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SERVELLO Ganfranco, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato SILVIO CARLONI.

FATTI DI CAUSA

La Corte di Appello di Milano con sentenza in data 30 marzo 2011 – 5 aprile 2012, pronunciando sul gravame interposto da S.A. contro BANCA FIDEURAM S.p.A. avverso l’impugnata pronuncia, n. 31/2008, emessa dal giudice del lavoro di Varese (che aveva respinto l’opposizione del S. contro il decreto ingiuntivo, chiesto e ottenuto da Banca Fideuram per la restituzione di anticipi su provvigioni non maturate nel corso dei primi trentasei mesi del rapporto di agenzia, cessato a seguito di recesso dell’agente in data 16 agosto 2005, nonchè la domanda dello stesso opponente, volta alla condanna della società opposta al pagamento di crediti vantati dal S. in ragione di Euro 5673,85 oltre accessori), revocava l’opposto decreto ingiuntivo n. 294/2006 e rigettava la domanda di merito della Banca, condannando altresì quest’ultima a corrispondere all’opponente – appellante la somma di Euro 5673,85 oltre accessori, nonchè al rimborso delle spese relative a doppio grado del giudizio, così come ivi liquidate.

Secondo la Corte territoriale, premesso che era infondata l’eccezione di inammissibilità del gravame, risultando sufficientemente specifica l’impugnazione, il richiamo operato dal giudice di primo grado alla complessiva regolamentazione contrattuale per evidenziare la volontà dei contraenti, ancorchè metodologicamente corretto, non poteva essere condiviso nel merito, essendo incontestabile che l’anticipo provvisionale mensile per la durata di tre anni, secondo l’intenzione delle parti, costituiva un incentivo riconosciuto dalla preponente all’agente per agevolarlo nella fase iniziale del rapporto, sicchè detto anticipo provvigionale rappresentava in concreto un compenso fisso – minimo garantito, posto che ove le provvigioni maturate non ne avessero superato l’ammontare lo stesso non subiva decurtazioni, mentre, qualora superiori, la Banca aveva il diritto di recuperarne l’eccedenza. Le previsioni della scrittura privata in questione andavano lette in connessione tra loro, evidenziando che l’ultima parte dell’art. 1 stabiliva che gli anticipi corrisposti non sarebbero stati recuperati dalla BANCA decorso il periodo di 36 mesi, salvo quanto previsto al punto due (concernente il raggiungimento degli obiettivi minimi ivi precisati) e l’articolo due aveva in comune con il primo il riferimento al periodo di 36 mesi, ciò che rivelava la volontà delle parti di considerare tale periodo decisivo per l’apporto che l’agente conferiva alla preponente. L’art. 2, infatti, subordinava l’anzidetto anticipo al raggiungimento di obiettivi analiticamente precisati in rapporto a specifici periodi all’interno di un arco temporale di tre anni, definito periodo di osservazione, stabilendo che in caso di mancato raggiungimento dell’obiettivo minimo per detto periodo di osservazione la Banca avrebbe interrotto in via definitiva i citati interventi economici, procedendo al recupero delle somme di cui al punto A, precedentemente corrisposte in rate mensili e fino al mese di scadenza dell’originario periodo di 36 mesi in misura pari al 20% delle provvigioni maturate nel mese e al 100% del bonus masse maturate ogni anno. Le eventuali somme non recuperate nel termine di 36 mesi sarebbero state restituite attraverso un piano di rientro da concordarsi prima della scadenza. Poichè la scrittura privata parlava di interruzione degli interventi economici, il suo senso letterale e logico non poteva essere che quello di restringere il proprio ambito di operatività al solo periodo di erogazione, cioè ai 36 mesi. Dunque, una volta scaduto il triennio, la Banca rinunciava al recupero degli anticipi corrisposti. Proprio in questa prospettiva si muoveva l’art. 3 del contratto dato che, preoccupandosi di riconoscere il diritto di Banca Fideuram di interrompere l’erogazione dell’anticipo e di recuperare mediante addebito sul conto corrente dell’agente la quota-parte di anticipo non compensato con le provvigioni maturate “in caso di definitiva risoluzione di ogni rapporto tra lei e la Banca Fideuram manifestata da una delle parti”, non poteva essere interpretato che come limitato al tempo dell’erogazione. Pacifico essendo che il rapporto contrattuale si era risolto ben oltre il triennio, la pretesa creditoria della Banca risultava infondata. Ed era appena il caso di rilevare come l’obbligo del S. alla restituzione delle somme e il suo consenso all’addebito di cui ai documenti richiamati da parte appellata intanto potevano valere in quanto le somme fossero dovute, come invece nella specie non era. Di conseguenza, a fronte della inesistenza del credito della Banca, risultava illegittima la compensazione dalla stessa operata in ordine alle ulteriori somme inerenti al precorso rapporto di agenzia, che la sentenza appellata aveva accertato essere state pagate all’agente. Pertanto, andava respinta ogni domanda concernente la pretesa creditoria azionata in via monitoria e poi nel successivo giudizio di opposizione, sicchè inoltre la Banca andava condannata al pagamento in favore dell’appellante opponente della somma di Euro 5673,85 oltre accessori, restando così pertanto anche assorbito l’appello incidentale proposto dalla stessa FIDEURAM in relazione alle spese di lite, compensate per il giudizio di primo grado.

Avverso l’anzidetta pronuncia ha proposto ricorso per cassazione Banca Fideuram S.p.A., come da atto notificato a mezzo posta di 5 aprile 2013, affidato a sette motivi, cui ha resistito.

Entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c..

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo la società ricorrente ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4 ha denunciato nullità della sentenza e del procedimento, nonchè ai sensi dello stesso art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione o falsa applicazione di norme di diritto di cui agli artt. 342,434 e 132 c.p.c., nonchè art. 118 delle relative disposizioni di attuazione; tanto in relazione al rigetto dell’eccezione d’inammissibilità dell’appello per difetto di specifici e pertinenti motivi. E’ stata altresì dedotta, contestualmente, insufficiente e/o contraddittoria motivazione – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, avendo la Corte distrettuale nella specie omesso di motivare adeguatamente la propria decisione in merito alla eccepita inammissibilità dell’appello avversario.

Con gli altri motivi sostanzialmente la ricorrente ha lamentato, sotto vari profili, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., erronee argomentazioni e valutazioni, soprattutto di carattere interpretativo, nonchè carenti motivazioni da parte della Corte territoriale in relazione al contratto allegato al rapporto di agenzia ed inerente alla dibattuta questione relativa all’anticipo provvigionale, che, in quanto tale, secondo la ricostruzione operata dalla società, non costituiva un incentivo, nè tantomeno un minimo garantito, ma soltanto un’anticipazione delle provvigioni da maturarsi, perciò a titolo di mero prestito, comunque da restituirsi, anche nel caso di recesso successivo al triennio (peraltro nulla di preciso si allega circa il raggiungimento o meno degli obiettivi minimi di cui al succitato art. 2, ciò che dalla lettura complessiva della sentenza di appello appare pacifico in senso positivo). Inoltre, secondo la società, non vi era alcun termine di decadenza (i 36 mesi), entro cui la Banca dovesse provvedere al recupero delle anticipazioni inerenti a provvigioni non maturate durante lo stesso periodo.

Tanto premesso, il ricorso va deve considerarsi inammissibile.

Infatti, quanto al primo motivo, concernente in effetti gli errores in procedendo ivi denunciati, sussiste palese difetto di allegazione ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, non essendo stati ritualmente riprodotti i motivi dell’appello, poi accolto dalla Corte distrettuale, asseritamente deficitari.

Vero è che quando col ricorso per cassazione venga denunciato un vizio che comporti la nullità del procedimento o della sentenza impugnata, sostanziandosi nel compimento di un’attività deviante rispetto ad un modello legale rigorosamente prescritto dal legislatore, il giudice di legittimità non deve limitare la propria cognizione all’esame della sufficienza e logicità della motivazione con cui il giudice di merito ha vagliato la questione, ma è investito del potere di esaminare direttamente gli atti ed i documenti sui quali il ricorso si fonda. Tuttavia, detto potere di accesso diretto agli atti del giudizio di merito è comunque subordinato alla condizione che la censura sia stata proposta dal ricorrente in conformità alle regole fissate al riguardo dal codice di rito (ed oggi quindi, in particolare, in conformità alle prescrizioni dettate dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4. Cfr. in tal sensi Cass. sez. un. civ. n. 8077 del 22/05/2012. V. altresì Cass. lav. n. 896 del 17/01/2014, secondo cui quando col ricorso per cassazione venga denunciato un vizio che comporti la nullità del procedimento o della sentenza impugnata, ed in particolare si lamenti l’indeterminatezza dell’oggetto della domanda proposta in primo grado, il giudice di legittimità non deve limitarsi a vagliare la sufficienza e logicità della motivazione con cui quello di merito ha statuito sul punto, ma ha il potere di esaminare direttamente gli atti e i documenti sui quali il ricorso si fonda, purchè la censura sia stata ritualmente formulata, rispettando, in particolare, il principio di autosufficienza del ricorso, da intendere come un corollario del requisito di specificità dei motivi di impugnazione, in quanto l’esame diretto degli atti e dei documenti è circoscritto a quelli che la parte abbia specificamente indicato ed allegato.

Analogamente, secondo Cass. 1 civ. n. 20405 del 20/09/2006, l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato un “error in procedendo”, presuppone comunque l’ammissibilità del motivo di censura, onde il ricorrente non è dispensato dall’onere di specificare – a pena, appunto, di inammissibilità – il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata, indicando anche specificamente i fatti processuali alla base dell’errore denunciato, e tale specificazione deve essere contenuta nello stesso ricorso per cassazione, per il principio di autosufficienza di esso. Pertanto, ove il ricorrente censuri la statuizione di inammissibilità, per difetto di specificità, di un motivo di appello, ha l’onere di specificare, nel ricorso, le ragioni per cui ritiene erronea tale statuizione del giudice di appello e sufficientemente specifico, invece, il motivo di gravame sottoposto a quel giudice, e non può limitarsi a rinviare all’atto di appello, ma deve riportarne il contenuto nella misura necessaria ad evidenziarne la pretesa specificità. Conformi Cass. 3 civ. n. 21621 del 16/10/2007 e 5 civ. n. 22880 del 29/09/2017. V. ancora Cass. 5 civ. n. 16147 del 28/06/2017, secondo cui in base al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, sancito dall’art. 366 c.p.c., nel giudizio tributario, qualora il ricorrente censuri la sentenza di una commissione tributaria regionale sotto il profilo del vizio di motivazione nel giudizio sulla congruità della motivazione dell’avviso di accertamento, è necessario che il ricorso riporti testualmente i passi della motivazione di detto avviso, che si assumono erroneamente interpretati o pretermessi, al fine di consentire la verifica della censura esclusivamente mediante l’esame del ricorso. Conforme Cass. n. 9536 del 2013).

Analogamente va detto per quanto concerne le altre censure, laddove manca comunque idonea riproduzione, sebbene non necessariamente pedissequa nel suo testo integrale, della scrittura privata in questione e di tutti gli altri documenti indicati dalla società a sostegno delle sue pretese creditorie, con conseguente difetto di autosufficienza, nei sensi invece richiesti dal cit. art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, a pena di inammissibilità. Parimenti, non risulta precisato in qual modo si sarebbero concretizzate le asserite violazioni delle norme di legge indicate, specialmente in ordine alla corretta interpretazione dell’accordo scritto, intervenuto contestualmente alla stipula del contratto di agenzia in data 28 dicembre 2001, il cui testo è invece è stato, tra l’altro, per intero allegato al controricorso del S..

Dunque, a parte i difetti di allegazione ex art. 366 c.p.c., il ricorso de quo contesta in effetti l’interpretazione della scrittura in questione operata dalla Corte di merito, scrittura privata che per intero non risulta in alcun modo riprodotta, ovvero esaurientemente nonchè compiutamente riassunta da parte ricorrente, che si è limitata soltanto a richiamarla per accenni ed in modo frazionato, ovvero per relationem con riferimento alla sua produzione – v. l’indice dei documenti a pag. 40 del ricorso, in parte corrispondenti a quelli menzionati a pag. 2 con riferimento al ricorso in via monitoria- mentre a pagina 39 erroneamente si richiama l’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 (specifica indicazione degli atti processuali, dei documenti dei contratti o accordi collettivi sui quali si fonda il ricorso), invece che l’art. 369 cit. codice, comma 2, n. 4, secondo cui insieme al ricorso debbono essere depositati sempre a pena d’improcedibilità gli atti processuali, i documenti, i contratti o accordi collettivi sui quali lo stesso ricorso si fonda.

Invero, il ricorrente per cassazione, il quale intenda dolersi dell’omessa od erronea valutazione di un documento da parte del giudice di merito, ha il duplice onere – imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), – di produrlo agli atti (indicando esattamente nel ricorso in quale fase processuale ed in quale fascicolo di parte si trovi il documento in questione) e di indicarne il contenuto (trascrivendolo o riassumendolo nel ricorso); la violazione anche di uno soltanto di tali oneri rende il ricorso inammissibile (Cass. 6 civ. – 3 n. 19048 del 28/09/2016. In senso pressochè conforme v. anche Cass. 3 civ. n. 22303 del 04/09/2008. Cfr. parimenti Cass. lav. n. 2966 del 07/02/2011: il ricorrente per cassazione che intenda dolersi dell’omessa od erronea valutazione di un documento da parte del giudice di merito, ha il duplice onere – imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, a pena di improcedibilità del ricorso – di indicare esattamente nel ricorso in quale fase processuale ed in quale fascicolo di parte si trovi il documento in questione, e di indicarne il contenuto, trascrivendolo o riassumendolo nel ricorso.

Al riguardo, inoltre, Cass. 3 civ. n. 15628 del 03/07/2009 ha pure chiarito che il soddisfacimento del requisito di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, postula che nel detto ricorso sia specificatamente indicato l’atto su cui esso si fonda, precisandosi al riguardo che incombe sul ricorrente l’onere di indicare nel ricorso non solo il contenuto di tale atto, trascrivendolo o riassumendolo, ma anche in quale sede processuale lo stesso risulta prodotto. L’inammissibilità prevista dalla richiamata norma, in caso di violazione di tale duplice onere, non può ritenersi superabile qualora le predette indicazioni siano contenute in altri atti, posto che la previsione di tale sanzione esclude che possa utilizzarsi il principio, applicabile alla sanzione della nullità, del cosiddetto raggiungimento dello scopo, sicchè solo il ricorso può assolvere alla funzione prevista dalla suddetta norma ed il suo contenuto necessario è preordinato a tutelare la garanzia dello svolgimento della difesa dell’intimato, che proprio con il ricorso è posto in condizione di sapere cosa e dove è stato prodotto in sede di legittimità. Conformi Cass. nn. 19766 e 29279 del 2008).

In proposito va ancora qui ribadito come il principio di autosufficienza del ricorso imponga che esso contenga tutti gli elementi necessari a porre il giudice di legittimità in grado di avere la completa cognizione della controversia e del suo oggetto, di cogliere il significato e la portata delle censure rivolte alle specifiche argomentazioni della sentenza impugnata, senza la necessità di accedere ad altre fonti ed atti del processo, ivi compresa la sentenza stessa, di modo che non rilevano sul punto le motivazioni indicate nella narrativa che precede, tratte però esclusivamente dall’esame della pronuncia d’appello qui impugnata (cfr. al riguardo Cass. 2 civ. n. 7825 del 04/04/2006 ed in senso conforme Cass. nn. 16360 del 2004, 12166 e 19788 del 2005. V. altresì, analogamente, Cass. 6 civ. – 3n. 1926 del 03/02/2015: per soddisfare il requisito imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3), il ricorso per cassazione deve contenere l’esposizione chiara ed esauriente, sia pure non analitica o particolareggiata, dei fatti di causa, dalla quale devono risultare le reciproche pretese delle parti, con i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che le giustificano, le eccezioni, le difese e le deduzioni di ciascuna parte in relazione alla posizione avversaria, lo svolgersi della vicenda processuale nelle sue articolazioni, le argomentazioni essenziali, in fatto e in diritto, su cui si fonda la sentenza impugnata e sulle quali si richiede alla Corte di cassazione, nei limiti del giudizio di legittimità, una valutazione giuridica diversa da quella asseritamene erronea, compiuta dal giudice di merito. Il principio di autosufficienza del ricorso impone che esso contenga tutti gli elementi necessari a porre il giudice di legittimità in grado di avere la completa cognizione della controversia e del suo oggetto, di cogliere il significato e la portata delle censure rivolte alle specifiche argomentazioni della sentenza impugnata, senza la necessità di accedere ad altre fonti ed atti del processo, ivi compresa la sentenza stessa. Conforme Cass. n. 19018 del 31/07/2017 ed altre).

Pertanto, alla stregua della succitata consolidata giurisprudenza -aderente al dettato normativo, cui il collegio giudicante è tenuto esclusivamente ad osservare (art. 101 Cost., comma 2) – va ritenuta l’inammissibilità del ricorso, assumendo d’altro canto valenza meramente indicativa le “raccomandazioni” contenute nel Protocollo d’Intesa in data 17 dicembre 2015 (di epoca, quindi, per giunta anteriore al ricorso de quo, risalente all’aprile 2013), richiamato nella memoria illustrativa ex art. 378 c.p.c. della società. Del resto, l’anzidetto Protocollo, quanto al principio di autosufficienza (cfr. pag. 6), nell’individuarne i limiti, non appare nemmeno incompatibile con i principi sopra richiamati, laddove, fermo restando che non si pretende una riproduzione testuale ed integrale del documento o dell’atto rilevante, si afferma, tra l’altro (v. punto 2) che in ogni caso la redazione del ricorso deve indicare nel testo di ciascun motivo che lo richieda “l’atto, il documento, il contratto o l’accordo collettivo su cui si fonda il motivo stesso (art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), con la specifica indicazione del luogo (punto) dell’atto, del documento, del contratto o dell’accorso collettivo al quale ci si riferisce”. Sta di fatto che soprattutto laddove si contesti il contenuto di un atto negoziale, criticando in sede di legittimità l’interpretazione datane dai giudici di merito, è pressochè inevitabile riportare, in modo compiuto ed organico, quasi l’intero testo del contratto in questione, avuto proprio riguardo alle norme che regolano la materia, come, in particolare, l’art. 1362 (1. Nell’interpretare il contratto si deve indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle parole), art. 1363 (Interpretazione complessiva delle clausole. – 1. Le clausole del contratto si interpretano le une per mezzo delle altre, attribuendo a ciascuna il senso che risulta dal complesso dell’atto) e ss. cc., sicchè finisce con il risultare inevitabilmente irrituale un’allegazione parziale e/o atomistica del testo (cfr. Cass. lav. n. 25728 del 15/11/2013, secondo cui la parte che, con il ricorso per cassazione, intenda denunciare un errore di diritto o un vizio di ragionamento nell’interpretazione di una clausola contrattuale, non può limitarsi a richiamare genericamente le regole di cui all’art. 1362 c.c. e ss., avendo l’onere di specificare i canoni che in concreto assuma violati ed il punto ed il modo in cui il giudice del merito si sia dagli stessi discostato, non potendo le censure risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, e dovendo i rilievi contenuti nel ricorso essere accompagnati, in ossequio al principio di autosufficienza, dalla trascrizione delle clausole individuative dell’effettiva volontà delle parti, al fine di consentire alla Corte di verificare l’erronea applicazione della disciplina normativa. In senso analogo Cass. 3 civ. n. 15798 del 28/07/2005, conformi Cass. n. 2190 del 1998, n. 14537 del 1999, n. 9157 del 2000. V. parimenti Cass. 3 civ. n. 2560 del 06/02/2007: quando il ricorrente censuri l’erronea interpretazione di clausole contrattuali da parte del giudice di merito, per il principio di autosufficienza del ricorso, ha l’onere di trascriverle integralmente perchè al giudice di legittimità è precluso l’esame degli atti per verificare la rilevanza e la fondatezza della censura. Conformi Cass. id. n. 24461 del 18/11/2005, nonchè Cass. nn. 12518 del 2001, 17427 e 18735 del 2003: V. ancora Cass. lav. n. 8296 del 21/04/2005, secondo cui in tema di interpretazione del contratto – riservata al giudice del merito, le cui valutazioni sono censurabili in sede di legittimità solo per violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale o per vizi di motivazione – al fine di far valere i suddetti vizi, il ricorrente per cassazione, per il principio di specificità ed autosufficienza del ricorso, deve riportare il testo integrale della regolamentazione pattizia del rapporto nella sua originaria formulazione, o della parte in contestazione, precisare quali norme ermeneutiche siano state in concreto violate e specificare in qual modo e con quali considerazioni il giudice di merito se ne sia discostato. Conforme Cass. n. 4905 del 2003).

Stante l’esito del tutto negativo dell’impugnazione, per il principio della soccombenza la società ricorrente è tenuta al rimborso delle relative spese a favore della controparte, nonchè al versamento dell’ulteriore contributo unificato, ricorrendone i presupposti di legge.

PQM

la Corte dichiara INAMMISSIBILE il ricorso. Condanna la società ricorrente al pagamento delle spese, che liquida a favore della parte controricorrente in Euro 7000,00 (settemila/00) per compensi professionali ed in Euro 200,00 (duecento/00) per esborsi, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 12 dicembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 1 ottobre 2018

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