LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –
Dott. CURCIO Laura – Consigliere –
Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –
Dott. LORITO Matilde – Consigliere –
Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 7367-2013 proposto da:
A.G., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GIUSEPPE SISCO 8, presso lo studio dell’avvocato ISABELLA NELLI, che la rappresenta e difende, giusta delega in atti;
– ricorrente –
contro
M.R. S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA TERENZIO 21, presso lo studio dell’avvocato MARIA PAOLA MARONGIU, rappresentata e difesa dall’avvocato MARCELLO MARCUCCIO, giusta delega in atti;
– F.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE ANGELICO 97, presso lo studio dell’avvocato GENNARO LEONE, che lo rappresenta e difende, giusta delega in atti;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 2371/2012 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 28/03/2012 R.G.N. 849/2011.
LA CORTE, esaminati gli atti e sentito il consigliere relatore:
OSSERVA A.G. conveniva in giudizio la S.r.l. M.R. e F.M. per accertare il rapporto di lavoro subordinato prestato alle dipendenze dei convenuti dal gennaio fino all’agosto dell’anno 2006, come commessa addetta al bancone del pane presso il supermercato *****, con relative rivendicazioni economico-previdenziali, ed anche in relazione ad asserito licenziamento verbalmente intimatole il 31 agosto 2006, prospettando che solo apparentemente il F. (quale proprietario del punto vendita per il pane all’interno del supermercato) fosse il suo apparente datore di lavoro, trattandosi in effetti di mera fornitura di manodopera a favore della società, che gestiva invece l’intero supermercato. F.M. si costituiva in giudizio, assumendo che la vera datrice di lavoro era da individuarsi nella S.r.l. M.R., verso la quale spiegava domanda riconvenzionale. A sua volta, la società resisteva alla domanda dell’attrice, assumendo che costei era stata adibita al banco vendita del pane, oggetto del contratto di fitto di ramo di azienda, stipulato con atto registrato nel corso dell’anno 2004. Chiedeva, quindi, di essere autorizzata alla chiamata in giudizio l’affittuaria S.r.l. POESIE del FORNO, ma la relativa notifica aveva esito negativo (senza essere più coltivata), poichè sul posto risultava aver sede altra società con diversa denominazione, il cui addetto, quindi, non accettava la ricezione dell’atto.
L’adito giudice del lavoro di Roma con sentenza del 27 gennaio – 26 marzo 2010 rigettava le domande della A. di cui al ricorso introduttivo del giudizio in data 10 aprile 2007, osservando tra l’altro che il contratto di fitto di ramo di azienda risaliva al 2004 e che il F. risultava divenuto amministratore della S.r.l. POESIE del FORNO da novembre 2006.
La Corte di Appello di Roma con sentenza nm. 2371 in data 14-28 marzo 2012 rigettava il gravame, interposto dalla A. avverso la pronuncia di primo grado, nei confronti degli appellati M.R. S.r.l. e F.M., compensando peraltro le relative spese, avuto riguardo alle domande dell’attrice, che soltanto in via subordinata aveva chiesto la condanna del F.. Per contro, dalle difese dei due convenuti emergeva che la Società POESIE del FORNO aveva gestito il bancone di vendita del pane in base al contratto di fitto stipulato con la M.R.. Pertanto, secondo la Corte capitolina, tale gestione e con essa il rapporto di lavoro dedotto da parte attrice non era riconducibile al F. (in proprio), ma alla sola POESIE del FORNO. Nè per il divieto di novità in appello era possibile prospettare una carenza di consistenza aziendale ex art. 2555 c.c., nei riguardi della S.r.l. POESIE del FORNO, che non era stata convenuta in giudizio e che comunque vi era rimasta estranea. Peraltro, il relativo ricorso soltanto genericamente aveva allegato tale inconsistenza aziendale, ma nei riguardi di F.M. (in proprio), per sostenere la tesi della interposizione di manodopera, nei confronti di confronti della M.R.. Detta inconsistenza, inoltre, appariva in contrasto con il giudizio, instaurato ex art. 447 bis c.p.c. nell’anno 2008 dalla medesima S.r.l. POESIE del FORNO contro la M.R. per accertare la nullità del contratto di affitto, in quanto simulato, la cui domanda era stata invece rigettata dal giudice adito (Trib. RM sent. 14-12-2011), secondo il quale tale contratto era per contro valido ed effettivo. Dunque, ad avviso della Corte distrettuale, tutto lasciava propendere per la sola legittimazione passiva della società POESIE del FORNO, quale reale datrice di lavoro della A., che però non l’aveva convenuta in giudizio.
Avverso la sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione A.G. con due motivi, cui hanno resistito F.M. e M.R. S.r.l. mediante distinti controricorsi.
Non risultano depositate memorie illustrative di parte, nè requisitoria del pubblico ministero.
CONSIDERATO
che con il primo motivo è stata denunciata (ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) violazione e falsa applicazione dell’art. 145 c.p.c., relativamente alla notifica della chiamata in causa del terzo “POESIE del FORNO S.r.l.”;
che con il secondo motivo è stata lamentata la erronea ed illogica motivazione su di un punto decisivo della controversia, laddove la Corte di merito sulla questione relativa alla simulazione del contratto di affitto di azienda, sostenuta sia dalla attrice che dal convenuto F., “dopo aver dovuto ammettere che la questione era ormai alla base del contraddittorio”, aveva ritenuto sorprendentemente che la vexata quaestio andava risolta sulla base di un altro giudizio, nel corso del quale una c.t.u. aveva rilevato che non vi fossero seri elementi da cui poter desumere una finzione del suddetto contatto voluta dalle parti contraenti. La motivazione era inficiata da due errori: impossibilità di utilizzare i risultati dell’istruttoria di in altro giudizio; erano state omesse prove sostanziali, che avevano causato una pronuncia illogica e viziata. Inoltre, era stata di fatto pretermessa la posizione di F.M.. Tanto premesso, il primo motivo è inammissibile in quanto riferito ad una notifica relativa alla chiamata in causa, da parte della convenuta S.r.l. M.R., avutasi nel corso del primo grado di giudizio, sicchè la relativa asserita violazione dell’art. 145 c.p.c. andava ritualmente impugnata con apposito motivo di appello anche nei confronti della diretta interessata, POESIE del FORNO S.r.l., laddove il successivo gravame della A. risulta interposto unicamente nei confronti degli originari convenuti e per giunta senza che la questione sia stata dedotta davanti alla Corte di Appello (ma previa rituale instaurazione pure nei riguardi della società POESIE del FORNO), che avrebbe quindi potuto rilevare il preteso vizio inerente all’anzidetta notificazione (v. Cass. 3 civ. n. 85 del 10/01/1975: i motivi del ricorso per cassazione devono investire, a pena d’inammissibilità, statuizioni e questioni che hanno formato oggetto di gravame con l’atto di appello, talchè nel giudizio di cassazione non possono essere prospettate per la prima volta questioni nuove o nuovi temi di contestazione involgenti accertamenti di fatto non compiuti dal giudice di merito. In senso analogo Cass. lav. n. 1170 – 08/03/1978, Cass. 2 civ. n. 402 del 19/01/1979, id. n. 4486 del 08/07/1981, id. n. 188 del 14/01/1977). Sta di fatto che il giudizio è stato introdotto dall’attrice unicamente nei confronti dei convenuti M.R. s.r.l. e F.M., in proprio, non già quale amministratore e/o l.r.p.t. della società POESIE del FORNO, verso la quale non risulta neanche essere stato intentato, come eventuale litisconsorte necessaria, lo stesso ricorso per cassazione.
Peraltro, indipendentemente altresì dalla pedissequa riproduzione di alcuni atti processuali, senza alcuna sintesi dei loro punti essenziali, perciò in violazione di quanto invece prescritto a pena d’inammissibilità in proposito dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, l’anzidetta censura risulta anche inammissibile perchè, riguardando ipotetici errores in procedendo, andava ritualmente proposta ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 (non già n. 3) ed univocamente in termini di nullità (cfr. Cass. sez. un. civ. n. 17931 del 24/07/2013), ciò pure con riferimento al litisconsorzio necessario nei riguardi della POESIE del FORNO, però soltanto da ultimo prospettato da parte ricorrente, laddove per giunta non risulta invece alcuna formale e precisa denuncia in tal sensi, ex cit. art. 360, n. 4, degli artt. 331 e 102 c.p.c..
Invero, come si rileva dal complessivo esame della sentenza d’appello, qui impugnata (che quindi correttamente non rilevava alcuna ipotesi di causa inscindibile ovvero di dipendenza, tale da richiedere l’integrazione del contraddittorio ex art. 331 c.p.c. nei confronti di litisconsorte pretermesso), la domanda di parte attrice di cui al ricorso introduttivo del 10-04-2007 riguardava esclusivamente i due soggetti convenuti in giudizio, laddove l’ A. aveva dedotto di aver svolto mansioni di commessa addetta alla vendita presso il bancone del panificio “Poesie del Forno”, ubicato all’interno del supermercato della M.R., attribuendo tale attività commerciale al solo F. (in proprio), quale titolare della ditta. Ed aveva quindi allegato due diverse prospettazioni: la sussistenza di un rapporto di lavoro apparentemente alle dipendenze del F. (persona fisica), sussistendo in effetti una mera fornitura di manodopera a favore della S.r.l. M.R., chiamando di conseguenza entrambi i convenuti a rispondere in solido nei suoi confronti; nonchè, in via subordinata, la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato con il solo F. (che ad ogni modo non risulta essere stato convenuto in giudizio quale legale rappresentante della POESIE del FORNO, società di capitali, l’esistenza della quale, unitamente al contratto di fitto di ramo d’azienda, risalente all’anno 2004, emergeva esclusivamente dalle difese svolte dai due convenuti, donde pure la riconvenzionale spiegata dal F., in proprio, contro la M.R., però superata dal giudizio intentato dalla stessa S.r.l. POESIE del FORNO contro la M.R., definito con sentenza di rigetto n. 24109 del 14-12-2011).
Orbene, in tale contesto, ritualmente la Corte capitolina con la sentenza de qua osservava, in via preliminare, che l’effetto devolutivo dell’interposto gravame non poteva che riguardare unicamente le domande e le allegazioni, in fatto ed in diritto, già poste dall’attrice, rimasta soccombente, a fondamento di quanto richiesto con il ricorso introduttivo del giudizio. Di conseguenza, la A. non poteva che attenersi in sede di appello a quanto dalla stessa prospettato al giudice adito in primo grado, il cui tenore era chiarito alla luce di quanto sopra rilevato. E si badi che sul punto la ricorrente non ha nemmeno lamentato, ex artt. 360 c.p.c., n. 4, una eventuale violazione dell’art. 437 c.p.c., comma 2 e art. 345 c.p.c. in tema di divieto di novità in appello, al cui principio invece risulta chiaramente ispirata l’anzidetta preliminare precisazione della Corte territoriale, circa i limiti devolutivi della proposta impugnazione (laddove peraltro come è noto l’appello costituisce rimedio processuale da intendere soltanto come revisio prioris instatiae e non già quale novum judicium. Cfr. Cass. lav. n. 4854 del 28/02/2014: nel rito del lavoro, il divieto di “nova” in appello, ex art. 437 cod. proc. civ., non riguarda soltanto le domande e le eccezioni in senso stretto, ma è esteso alle contestazioni nuove; cioè non esplicitate in primo grado, sia perchè l’art. 416 cod. proc. civ. impone un onere di tempestiva contestazione a pena di decadenza, sia perchè nuove contestazioni in secondo grado, oltre a modificare i temi di indagine – trasformando il giudizio di appello da “revisio prioris instantiae” in “iudicium novum”, estraneo al vigente ordinamento processuale -, altererebbero la parità delle parti, esponendo l’altra parte all’impossibilità di chiedere l’assunzione di quelle prove alle quali, in ipotesi, aveva rinunciato, confidando proprio nella mancata contestazione ad opera dell’avversario. V. inoltre, tra le altre, Cass. 3 civ. n. 1108 del 20/01/2006: anche nel rito del lavoro l’appello non ha effetto pienamente devolutivo, e, pertanto, ai sensi degli artt. 434,342 e 346 cod. proc. civ., il giudice del gravame può conoscere della controversia dibattuta in primo grado solo attraverso l’esame delle specifiche censure mosse dall’appellante, attraverso la cui formulazione si consuma il diritto di impugnazione, e non può estendere l’indagine su punti della sentenza di primo grado che non siano stati investiti, neanche implicitamente, da alcuna doglianza, per cui deve ritenersi formato il giudicato interno – rilevabile anche d’ufficio – in ordine alle circostanze poste dal giudice di primo grado alla base della sua decisione in relazione alle quali non siano stati formulati specifici motivi di appello. Conformi Cass. nn. 10937 e 14507 del 2003. V. altresì Cass. 2 civ. n. 11935 in data 08/08/2002 e Cass. lav. n. 18722 del 16/09/2004 nonchè n. 7208 del 15/04/2004. Parimenti, secondo Cass. 2 civ. n. 15558 del 25/07/2005, per cui occorre in particolare l’analitica esposizione delle ragioni di censura; nè, in caso di inosservanza di tale onere, il vizio appare suscettibile di sanatoria in virtù dell’accettazione del contraddittorio ad opera della controparte, atteso che l’inammissibilità dell’impugnazione comporta il formarsi del giudicato sui capi della sentenza investiti dal gravame inammissibile. Conformi Cass. 5068 del 2001 e 3 civ. n. 840 del 16/01/2007).
Alla stregua delle anzidette corrette premesse, parimenti valide e del tutto ragionevoli appaiono le ulteriori considerazioni svolte dalla medesima Corte di merito, le cui valutazioni pertanto nemmeno possono sindacarsi in questa sede di legittimità con il secondo motivo di ricorso. Infatti, la Corte territoriale riteneva che in difetto di adeguate allegazioni di parte attrice (ossia tempestive e pertinenti) ed in mancanza, altresì, della chiamata in causa anche della società POESIE del FORNO (a cura della convenuta M.R., all’uopo autorizzata in prime cure, nei confronti della quale perciò non poteva in alcun modo dirsi instaurato un valido contraddittorio nemmeno da parte della A.), non poteva di conseguenza affermarsi in secondo grado che l’attività di gestione della vendita del pane (all’interno del supermercato) fosse da ricondursi ad una persona fisica come il F., il quale risultava documentalmente essere soltanto l’amministratore della società (di capitali) POESIE del FORNO (per giunta da novembre 2006, ossia da epoca posteriore al dedotto licenziamento orale intimato il 31 agosto di quello stesso anno, laddove in precedenza era un socio di detta S.r.l.). Nè, secondo la Corte capitolina, l’appellante in sede di gravame poteva – in evidente violazione del divieto di novità in appello – prospettare la carenza di consistenza aziendale ex art. 2555 c.c. in relazione ad una persona giuridica (la società POESIE del FORNO, perciò nettamente distinta dai propri soci), verso la quale nulla aveva dedotto in primo grado. Con il ricorso introduttivo – osservava, infatti, la Corte distrettuale nella sentenza de qua – era stata prospettava, peraltro genericamente, tale inconsistenza aziendale (per sostenere l’ivi ipotizzata interposizione fittizia di manodopera a favore della convenuta Srl M.R.), ma nei confronti del F. quale titolare di un’azienda individuale (cioè come persona fisica), e non già ne riguardi di una società di capitali (POESIE del FORNO), la cui esistenza, invece, era facilmente evincibile come da visura camerale in atti, oltre che dal contenzioso instaurato dalla stessa contro la M.R. per sostenere la tesi della simulazione in ordine al contratto di fitto di ramo d’azienda, però come visto respinta nel separato giudizio, definito con la sentenza di rigetto della domanda anche sulla scorta di apposita c.t.u.. Dunque, la Corte di merito ha motivatamente accertato, in fatto, che la gestione dell’attività commerciale, cui era stata adibita la lavoratrice, apparteneva alla società di capitali POESIE del FORNO, della quale il F. era amministratore (ma da novembre 2006), attività ammessa all’interno del supermercato della S.r.l. M.R. in virtù di contratto stipulato da queste due società (nel 2004), versato in atti e la cui simulazione risultava contraddetta dalla succitata sentenza del 14-12-2011, nonchè in base alle prove testimoniali espletate nel corso del primo grado del giudizio. Ne derivava che il rapporto di lavoro, dedotto dall’attrice, non poteva che riferirsi ad un terzo soggetto (POESIE del FORNO S.r.l.), neppure convenuto in giudizio dalla A., sicchè era da escludere la possibilità di configurare in capo alla società, che gestiva la vendita del pane (POESIE del FORNO), la posizione di mero datore di lavoro apparente (tesi peraltro, come visto, neanche dedotta dalla medesima attrice in prime cure), ed era parimenti da escludere la realizzazione – neppure di fatto – di un rapporto di lavoro direttamente con il F. (persona fisica), o addirittura con la società M.R., che gestiva l’intero supermercato. Tale accertamento, quindi, aveva carattere assorbente sia in ordine alle irrilevanti prove testimoniali (che dimostravano unicamente l’esistenza di un rapporto di lavoro in capo alla ricorrente durante l’arco temporale da costei indicato), sia rispetto alle pretese creditorie azionate, nonchè riguardo al lamentato licenziamento, trattandosi di “rivendicazioni da riferirsi a soggetto giuridico non presente (per scelta della ricorrente) nel presente giudizio”.
Orbene, tali lineari argomentazioni, immuni da errori di diritto, risultano alla base del convincimento in base al quale i due convenuti (soc. M.R. e F., come persona fisica, perciò in proprio) non potevano in alcun modo considerarsi i datori di lavoro della A., la quale però con il suo ricorso, anche con il secondo motivo, in effetti finisce per ignorare il percorso logico-giuridico seguito dalla Corte di merito nella sua decisione, pretendendo inammissibilmente in questa sede di legittimità di rivedere mediante intero riesame quanto appurato, apprezzato, valutato e giudicato dal competente collegio, ancorchè sotto il profilo del vizio di motivazione ex art. 360, n. 5, ma senza per giunta individuare precisamente alcun “fatto” decisivo, il cui esame sia stato omesso dai giudici di primo e di secondo grado (anche la pretesa simulazione e l’utilizzazione di materiale istruttorio, afferente al separato giudizio, non integrano quaestio facti, ma questioni di diritto, come tali non sussumibili nella previsione del citato art. 360, n. 5; nè si tiene conto delle preclusioni evidenziate dalla Corte di Appello circa l’impossibilità di esaminare in secondo grado nuove domande ed eccezioni o questioni sollevate dall’appellante nei confronti della S.r.l. POESIE del FORNO, che dalla A. non era stata evocata in giudizio, in verità nemmeno con il gravame da lei interposto; nè del rilievo attribuito dalla Corte capitolina alla posizione del F., a suo tempo convenuto in giudizio come persona fisica, perciò in proprio, e non già quale amministratore o comunque l.r.p.t. della POESIE del FORNO, che invece documentalmente risultava titolare della rivendita del pane all’interno del supermercato gestito dalla M.R., sulla scorta di apposito pregresso contratto, ritento valido e produttivo di effetti sostanziali).
Pertanto, le varie doglianze mosse con il secondo motivo, avanzate da parte ricorrente, non possono trovare accoglimento, in quanto, per consolidato orientamento di questa Corte, la motivazione omessa o insufficiente è configurabile soltanto qualora dal ragionamento del giudice di merito, come risultante dalla sentenza impugnata, emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione, ovvero quando sia evincibile l’obiettiva carenza, nel complesso della medesima sentenza, del procedimento logico che lo ha indotto, sulla base degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già quando, invece, vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato dal primo attribuiti agli elementi delibati, risolvendosi, altrimenti, il motivo di ricorso in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento di quest’ultimo tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, certamente estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione (v. tra le altre Cass. sez. un. n. 24148 del 2013). Infatti, il motivo di ricorso ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non conferisce alla Corte di legittimità il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, ma solo quello di controllare, sul piano della coerenza logico-formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito, al quale soltanto spetta di individuare le fonti del proprio convincimento, controllarne l’attendibilità e la concludenza nonchè scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti in discussione, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (Cass. sez. un. civ. n. 5802 del 1998, nonchè Cass. n. 1892 del 2002, n. 15355 del 2004, n. 1014 del 2006, n. 18119 del 2008).
Nella specie, parte ricorrente, lungi dal denunciare una totale obliterazione di un “fatto controverso e decisivo” che, ove valutato, avrebbe condotto, con criterio di certezza e non di mera probabilità, ad una diversa decisione, si è limitata ad assumere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice di merito al proprio diverso convincimento soggettivo, proponendo un preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti; tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, nonchè delle risultanze processuali nel complesso acquisite, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi dell’iter formativo di tale convincimento, rilevanti ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, anche nella versione di testo qui applicabile, sicchè la censura in esame, anche laddove deduce solo formalmente violazioni di legge, si traduce in sostanza nell’invocata revisione delle valutazioni e dei convincimenti espressi dal giudice di merito, tesa a conseguire una nuova pronuncia sul fatto, non ammessa perchè estranea alla natura ed alla finalità del giudizio di legittimità.
Il rigetto dell’impugnazione comporta la condanna della parte rimasta soccombente al rimborso delle spese, liquidate come da seguente dispositivo. Tuttavia, visto che la A. risulta essere stata ammessa, in via anticipata e provvisoria, al patrocinio a spese dello Stato in ordine a ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di Appello di Roma n. 2371/12, come da Delib. Consiglio degli Avvocati della Capitale in data 22 maggio 2012 (v. il relativo estratto in atti del 4 giugno 2012), a seguito di domanda in data 17 maggio 2012, la stessa interessata non è tenuta, almeno allo stato (in vista della sua definitiva ammissione da parte del competente giudice di merito in sede di conseguente liquidazione), al pagamento dell’ulteriore contributo unificato, nonostante l’integrale rigetto dell’impugnazione (cfr. Cass. 6 civ. – 5, ordinanza n. 7368 del 22/03/2017: in materia di ricorso per cassazione, il ricorrente ammesso al patrocinio a spese dello Stato non è tenuto, ove sia rigettata l’impugnazione, al versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, stante la prenotazione a debito in ragione dell’ammissione al predetto beneficio. Conforme, Cass. lav. n. 18523 del 02/09/2014).
P.Q.M.
la Corte RIGETTA il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese, che liquida a favore di ciascuna parte controricorrente, in Euro =3000,00= per compensi ed in Euro =200,00= per esborsi, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge.
Così deciso in Roma, il 13 dicembre 2017.
Depositato in Cancelleria il 1 ottobre 2018
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