Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Sentenza n.23765 del 01/10/2018

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

Dott. LEONE Margherita Maria – rel. Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 19273/2016 proposto da:

FALLIMENTO ***** S.R.L., in persona del Curatore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE DELLA PIRAMIDE CESTIA 1/B, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE MARIA GIOVANELLI, rappresentato e difeso dall’avvocato LUCIANO BROZZETTI, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

I.A., domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato VINCENZO DI LORENZO, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 613/2016 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA, depositata il 09/06/2016, R.G.N. 287/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 11/04/2018 dal Consigliere Dott. MARGHERITA MARIA LEONE;

udito l’Avvocato LUCIANO BROZZETTI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FRESA Mario, che ha concluso per l’accoglimento dell’ultimo motivo del ricorso, rigetto dei precedenti.

FATTI DI CAUSA

La Corte di appello di L’Aquila con la sentenza n. 613/2016, resa in sede di procedimento L. n. 92 del 2012, ex art. 1commi 47 e segg., riformando la decisione del Tribunale di Lanciano, aveva dichiarato la illegittimità del recesso adottato dalla ***** srl nei confronti di I.A. per insussistenza dei motivi posti a base della scelta datoriale, disponendo la reintegrazione del lavoratore nel suo posto di lavoro presso la società (alla quale era subentrato il Fallimento della stessa in persona del suo Curatore), e dichiarando il diritto del lavoratore ad una indennità pari alle retribuzioni globali di fatto dal licenziamento alla effettiva reintegrazione oltre accessori e versamento dei contributi dovuti.

La Corte territoriale aveva ritenuto che la lettera del 6.6.2013 con la quale la ***** srl aveva comunicato allo I. la cessazione del contratto di affitto di azienda con la società Tasso srl ed il rientro del lavoratore nella società originaria datrice di lavoro, fosse qualificabile quale licenziamento, risultando provato che lo I. non fosse mai stato dipendente della Tasso ma della *****.

Rilevava in proposito che il lavoratore era stato assunto in origine dalla Verlicchi Casoli srl allorchè quest’ultima aveva affittato il ramo d’azienda di proprietà della Tasso srl. A seguito del fallimento della *****, il ramo d’azienda, con risoluzione consensuale del contratto d’affitto datata 27.7.2011, era ritornato alla proprietaria Tasso che contestualmente, in pari data, aveva stipulato nuovo contratto d’affitto del medesimo ramo con la ***** srl. Lo I. sin dal 28.7.2011 e sino al 6.6.2013, in continuità rispetto al precedente rapporto con la *****, aveva prestato attività per la ***** srl.

Rispetto a tali cadenze contrattuali e lavorative, la Corte aquilana aveva escluso, anche in ragione del contenuto del contratto d’affitto da ultimo intervenuto, che il lavoratore fosse transitato, seppur temporaneamente, presso la Tasso srl, e quindi passato alla ***** in ragione del contratto di affitto, ritenendo invece che fosse stato assunto direttamente da quest’ultima. Aveva in conseguenza qualificato la lettera del 6.6.2013 quale licenziamento e ritenuto lo stesso privo di giusta causa o giustificato motivo oggettivo e quindi illegittimo. Aveva infine ritenuto di competenza del Giudice ordinario anche le domande risarcitorie conseguenti la disposta reintegrazione, se pur valutate nei confronti del Fallimento, in quanto comunque collegate al necessario accertamento sulle ragioni del recesso. Avverso detta decisione proponeva ricorso il Fallimento ***** affidandolo a sette motivi ed a successiva memoria cui resisteva con controricorso I.A..

RAGIONI DELLA DECISIONE

1)- Con il primo motivo la società ricorrente denuncia la nullità della sentenza per violazione degli artt. 112,156,161, e 434, c.p.c., quest’ultimo come modificato con L. n. 134 del 2012, in combinato con la L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 58, il tutto in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, per aver, la Corte, omesso di esaminare e valutare l’eccezione sollevata dalla società sulla inammissibilità del reclamo per carenza del contenuto dello stesso. Rileva la parte che, trattandosi di errore in procedendo, debba il Giudice di legittimità valutare direttamente l’invalidità denunciata essendo in tal caso investito del giudizio sul fatto processuale.

Questa Corte ha già avuto modo di chiarire che “allorquando sia denunciato un “error in procedendo”, (il Giudice di legittimità) è anche giudice del fatto ed ha il potere di esaminare direttamente gli atti di causa; tuttavia, non essendo il predetto vizio rilevabile “ex officio”, è necessario che la parte ricorrente indichi gli elementi individuanti e caratterizzanti il “fatto processuale” di cui richiede il riesame e, quindi, che il corrispondente motivo sia ammissibile e contenga, per il principio di autosufficienza del ricorso, tutte le precisazioni e i riferimenti necessari ad individuare la dedotta violazione processuale” (Cass. n. 2771/2017).

In continuità con il principio espresso, il potere del Giudice di legittimità deve essere esercitato in presenza di adeguati elementi ricognitivi del vizio denunciato. Nel caso di specie l’onere di specifica indicazione non risulta adempiuto in quanto parte ricorrente non riporta il contenuto dell’atto da valutare e non indica i singoli profili di carenza denunciata.

Il motivo risulta quindi inammissibile.

2)- Con il secondo motivo è denunciata la violazione o falsa applicazione degli artt. 13732112,2118 e 2909 c.c., art. 116 c.p.c.; L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 58, anche con riferimento agli artt. 324 e 325 c.p.c., L. n. 604 del 1966, artt. 1 e 3; L. n. 300 del 1970, art. 18; L. n. 183 del 2010, art. 32, il tutto con riferimento all’art. 360, comma 1, n. 3.

Ha rilevato parte ricorrente l’errata valutazione della Corte aquilana sulla inapplicabilità nella fattispecie dell’art. 2112 c.c., trattandosi comunque, anche in ipotesi di restituzione dell’azienda in affitto, di una vicenda traslativa della azienda assoggettata alla disciplina della norma codicistica. Richiama a riguardo la giurisprudenza di questa Corte sulla qualificazione del ramo d’azienda e sulle necessarie condizioni di preesistenza ed autonomia che devono caratterizzarlo, sicchè ogni eventuale “scorporo” di personale risulti operazione contrastante rispetto al fenomeno unitariamente considerato dalla norma e dalle tutele in essa contenute.

I principi affermati da questa Corte in materia di applicabilità della disciplina di cui all’art. 2112 c.c., anche alle ipotesi di cessazione dell’affitto dell’azienda e di restituzione della stessa alla originaria cedente, (Cass. n. 12909/2003; Cass. n. 7458/2002) muovono dal presupposto che anche in tali situazioni sia presente un fenomeno traslativo dell’azienda o di parte di essa che richieda la tutela diretta al mantenimento della occupazione per i lavoratori trasferiti ed al trattamento già percepito dagli stessi.

La condizione presupposta resta sempre la configurabilità del ramo d’azienda quale complesso di beni dotato di autonomia funzionale preesistente e quindi capace di individuazione specifica rispetto alla restante parte dell’impresa, nonchè la ulteriore condizione che nella retrocessione l’impresa retrocessionaria (originariamente cedente) utilizzi l’azienda in funzione dell’esercizio dell’attività di cui la stessa è strumento, e quindi prosegua, mediante la immutata organizzazione dei beni aziendali, l’attività già esercitata in precedenza, vanificandosi, altrimenti, l’intento perseguito dal Legislatore (Cass. n. 12909 del 2003; in tal senso anche Cass. n. 16255/2011) Rispetto a tale quadro teorico di riferimento deve valutarsi se nella fattispecie in esame, rispetto allo I., sia ipotizzabile una retrocessione. I principi enunciati, e le condizioni evidenziate per la corretta operatività delle disposizioni di cui all’art. 2112 c.c., in caso di retrocessione, richiedono che la società ricorrente, invocandone l’applicabilità, avrebbe dovuto allegare la presenza delle circostanze richieste, ovvero non soltanto la adibizione del lavoratore al ramo d’azienda retrocesso, sì da dimostrarne la stretta inerenza rispetto a quello, ma anche la condizione della prosecuzione dell’attività da parte della retrocessionaria.

Tale ultimo elemento, costitutivo della ipotesi di retrocessione, avrebbe dovuto essere allegato dal ricorrente Fallimento nei giudizi di merito e di tale allegazione lo stesso avrebbe dovuto dar conto, specificamente indicando nel ricorso in cassazione i tempi ed i modi delle circostanze evidenziate e della domanda svolta, così da soddisfare i requisiti di autosufficienza del ricorso, richiesti per la valutazione della censura.

Pertanto la concreta fattispecie, come radicatasi in giudizio, esclude comunque, anche in ipotesi si volesse accedere alla tesi sostenuta dalla società, la eventuale operatività della norma codicistica di cui all’art. 2112 c.c., in quanto non allegati e provati i presupposti necessari.

Deve peraltro osservarsi che rispetto alla valutazione della Corte territoriale che, pur investita della eccezione circa la presenza della retrocessione ne ha escluso la operatività ritenendo il lavoratore diretto dipendente della *****, la parte ricorrente, anche in questa sede, ha censurato la decisione solo con riguardo alla mancata valutazione della continuativa adibizione del lavoratore al ramo d’azienda ed alla cessazione di ogni attività produttiva presso lo stabilimento di ***** (destinato al ramo d’azienda in questione), oltre che alla errata interpretazione della comunicazione del 6.6.2013, nulla rilevando rispetto alla continuazione della attività presso la retrocessionaria società Tasso.

Ciò evidenzia ulteriormente la originaria carenza allegatoria che ha portato la Corte territoriale ad escludere la valenza della risoluzione del contratto di affitto (e della retrocessione) nei riguardi dello I., valutando il solo oggettivo rapporto intercorso con la ***** srl, il contratto stipulato con la stessa ed il recesso azionato.

Da ciò la correttezza della decisione della corte territoriale e la infondatezza del motivo di censura.

3) – Con il terzo motivo è dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1321,1324,1362,1363,1373 e 2118 c.c., L. n. 604 del 1966, artt. 1 e 3; L. n. 300 del 1970, art. 18 (ex art. 360, comma 1, n. 3), per aver, la Corte erroneamente qualificato la lettera del 6.6.2013, quale comunicazione di recesso. La società denuncia la violazione dei criteri ermeneutici, primo fra tutti il criterio letterale che, in ordine gerarchico, ritiene essere il primo da considerare.

Il motivo risulta inconferente in quanto la valutazione della Corte ha rispettato i criteri in questione attribuendo un significato (non si valuta se errato o meno in quanto sindacato di merito estraneo a questa sede), sulla base del contenuto letterale dell’atto qualificato alla luce delle norme giuridiche ed è comunque un motivo assorbito da quanto si è rilevato rispetto al precedente motivo di censura.

4)- Il quarto motivo denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti, quale la cessazione totale della attività da parte della società ***** nello stabilimento di *****. Tale circostanza, se esaminata, avrebbe evidenziato la sussistenza di un giustificato motivo oggettivo di licenziamento.

5)- Con il quinto motivo è censurata la violazione della L. n. 604, artt. 1 e 3, L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 6, L. n. 183 del 2010, art. 30, R.D. n. 267 del 1942, artt. 24,52,93,96, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, non essendo stata considerata nella decisione impugnata la totale cessazione della attività nella sede di ***** e quindi la soppressione del settore lavorativo cui era adibito il lavoratore. Denunciava la società che il recesso datoriale era intervenuto in ragione del motivo oggettivo pacificamente accertato e che, comunque, anche in ipotesi di eventuale illegittimità dello stesso, la tutela riconoscibile era quella di cui alla L. n. 300 del 1970, n. 6, art. 18 (tutela economica c.d. debole).

Con ulteriore profilo di doglianza è anche evidenziata la incompetenza del giudice del lavoro in ipotesi, come quella di specie, in cui è chiesta una pronuncia a contenuto economico nei confronti del fallimento.

I due motivi possono essere trattati congiuntamente in quanto attinenti alla medesima circostanza quale la cessazione dell’attività cui era preposto il lavoratore, e la esistenza di un giustificato motivo oggettivo di licenziamento.

Quanto alla competenza del giudice del lavoro deve richiamarsi la recentissima pronuncia di questa Corte secondo la quale “La domanda volta a far dichiarare la nullità, l’invalidità o l’inefficacia degli atti di cessione del ramo di azienda e la conseguente domanda di condanna al ripristino del rapporto di lavoro con la cedente appartengono, anche in caso di fallimento della cessionaria, alla cognizione del giudice del lavoro, quale giudice del rapporto e delle controversie relative allo status del lavoratore, in quanto l’accertamento richiesto in tali ipotesi non costituisce premessa di una pretesa economica nei confronti della massa fallimentare e dunque non richiede la cognizione del giudice fallimentare, chiamato soltanto alla qualificazione dei diritti di credito dipendenti dal rapporto di lavoro, in funzione della partecipazione paritaria al concorso tra creditori e con effetti esclusivamente endoconcorsuali” (Cass. n. 1646/2018). L’eccezione deve essere disattesa.

Entrambe le censure inerenti l’esistenza di una condizione oggettiva giustificativa del recesso datoriale, quale la cessazione della attività del ramo d’azienda cui era preposto il lavoratore e la chiusura totale dello stabilimento in cui era svolta, risultano inconferenti ed estranee rispetto alla stessa scelta datoriale come chiaramente enunciata nella lettera del 6.6.2013, nella quale altra e differente era la ragione espulsiva del lavoratore. Dovendosi misurare la legittimità del recesso nel perimetro delineato dalla scelta datoriale in ragione del principio di immutabilità della causa di licenziamento (Cass. n. 5131/2004), deve rilevarsi la estraneità delle circostanze indicate rispetto al recesso impugnato ed alle circostanze in origine allegate dal datore di lavoro (nella comunicazione richiamata).

I motivi devono essere rigettati.

6) Con il sesto motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18, come riformato dalla L. n. 92 del 2012, nonchè degli artt. 1218, 1223,1256 e 1463 c.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), in quanto la Corte distrettuale non aveva considerato che, se pur accertata l’illegittimità del recesso in questione, era, nelle more del giudizio, intervenuta l’impossibilità di reintegrare il lavoratore, stante la cessazione di quella attività. Sono richiamate in proposito le disposizioni di cui agli artt. 1256 e 1463 c.c., relativamente alla estinzione della obbligazione in caso di impossibilità sopravvenuta della prestazione dell’obbligato per ragione a lui non imputabile.

Con riguardo alla specifica obbligazione a contenuto reintegratorio conseguente alla illegittimità del recesso del datore di lavoro (nelle ipotesi in cui la legge conserva la tutela in tal senso), deve rilevarsi che il venir meno del posto di lavoro non esaurisce l’obbligazione in quanto il datore di lavoro deve anche dimostrare l’impossibilità di reimpiegare il lavoratore in altra occupazione compatibile(da ultimo Cass. n. 24882/2017). Alcuna allegazione e prova è stata a riguardo fornita.

Il motivo è infondato.

7) L’ultimo motivo denuncia la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c. (ex art. 360, n. 4); violazione dell’art. 12 disp. att. c.c., L. n. 300 del 1970, art. 18 (ex art. 360 c.p.c., n. 3), per aver, la Corte, erroneamente condannato la società a pagare una indennità superiore (dal licenziamento alla reintegrazione), rispetto a quella invece richiesta dal lavoratore(da sei a 12 mensilità).

Deve premettersi che anche lo I. ha aderito a questa censura, evidenziandone la fondatezza.

Il motivo risulta fondato alla luce della originaria domanda svolta dal lavoratore relativamente alla richiesta di condanna al pagamento dell’indennità risarcitoria comunque non superiore a dodici mensilità, ed al dettato della L. n. 18 del 1970, art. 18, commi 7 e 4, come riformato dalla L. n. 92 del 2012, nel caso di licenziamento illegittimo per la insussistenza del motivo posto a suo fondamento. La Corte territoriale aveva specificato di applicare alla fattispecie in esame il richiamato comma 4 dell’art. 18, così qualificando la tipologia del vizio rilevato nel licenziamento, ma aveva poi condannato la società al pagamento di una indennità pari a tutte le mensilità maturate dal momento del licenziamento alla effettiva reintegra, così contravvenendo alla stessa disposizione richiamata ed applicata, invece dispositiva di una indennità massima non superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto. Il motivo deve essere accolto e cassata sul punto la sentenza. Trattandosi di questione che non richiede ulteriori accertamenti, decidendo nel merito, si determina l’indennità risarcitoria nella misura di dodici mensilità della retribuzione globale di fatto, oltre accessori e contributi di legge.

PQM

La Corte accoglie il settimo motivo; rigetta gli altri motivi. Cassa la sentenza in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito,determina l’indennità risarcitoria nella misura di dodici mensilità della retribuzione globale di fatto, oltre accessori e contributi di legge.

Conferma le statuizioni sulle spese liquidate nei giudizi di merito e compensa le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 11 aprile 2018.

Depositato in Cancelleria il 1 ottobre 2018

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