Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Ordinanza n.23774 del 01/10/2018

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BALESTRIERI Federico – Presidente –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – rel. Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –

Dott. MARCHESE Gabriella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 87/2017 proposto da:

AGRICOLA LA CHIUSA DI B.G. & C. S.N.C., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, LUNGOTEVERE FLAMINIO 28, presso lo studio dell’avvocato MASSIMO ERRANTE, che la rappresenta e difende giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

Z.C.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 582/2016 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 16/06/2016, R. G. N. 557/2015.

FATTO E DIRITTO

RILEVATO CHE:

La Corte d’Appello di Firenze, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, dichiarava l’illegittimità del recesso intimato in data 7/5/2009, per giustificato motivo soggettivo, dalla s.n.c. La Chiusa di B.G. nei confronti di Z.C.; condannava la società al risarcimento del danno commisurato a cinque mensilità dell’ultima retribuzione e, dato atto dell’opzione esercitata dal lavoratore di cui al comma quinto dell’art.18 l. 300/70, la condannava altresì al pagamento di quindici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

Scrutinato il quadro probatorio, la Corte distrettuale argomentava che non era emerso alcun notevole inadempimento ascrivibile al lavoratore, tale da giustificare l’irrogazione della sanzione espulsiva, considerata la mancanza di una contestazione specifica, peraltro non rilevata dal ricorrente, e la genericità delle deposizioni testimoniali raccolte che non descrivevano alcuna precipua mancanza ascrivibile al dipendente. Sotto altro versante considerava che la mali del 27/1/2009 che la società attribuiva allo Z. – e si deduceva recasse toni offensivi nei confronti della parte datoriale non fosse stata oggetto di alcuna allegazione specifica nel giudizio di primo grado; la questione era stata comunque agitata tardivamente rispetto al licenziamento intimato. In ogni caso – concludeva la Corte – la reazione adottata dalla società era da ritenersi del tutto sproporzionata rispetto alla condotta asseritamente ingiuriosa assunta dal dipendente.

La cassazione di tale decisione è domandata dalla società sulla base di tre motivi.

La parte intimata non ha svolto attività difensiva.

CONSIDERATO CHE:

1. Con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1321,1324,1334 e 1362 c.c., nonchè delle L. n. 300 del 1970, e L. n. 604 del 1966. Ci si duole che la Corte territoriale abbia accreditato la tesi sostenuta dal lavoratore, circa l’intervenuta intimazione di un atto di licenziamento, piuttosto che della conclusione di un accordo fra le parti in ordine alla risoluzione del rapporto di lavoro, intervenuto all’esito di una complessa trattativa intercorsa, chiaramente desumibile dalle dichiarazioni testimoniali raccolte.

2. Il secondo motivo prospetta violazione e falsa applicazione degli artt. 115 – 116 c.p.c..

Si lamenta che i giudici del gravame non abbiano valorizzato la deposizione del teste Zi., se non con riferimento alla riferita ammissione da parte dello Z., di aver avuto alcune reazioni irriguardevoli nei confronti della titolare. In realtà il teste avrebbe affermato che le parti si erano accordate nel senso di modificare una prima lettera di licenziamento, con il rilascio di referenze positive da parte datoriale, e conferma di chiusura del rapporto.

3. I motivi, la cui trattazione congiunta è consentita dalla connessione che li connota, vanno disattesi.

La Corte di merito, invero – dato atto nello storico di lite, della prospettata intercorrenza fra le parti di una ipotesi di accordo concernente l’accettazione da parte del lavoratore del licenziamento a fronte della eliminazione dell’insubordinazione dei motivi di recesso, e del rilascio della lettera di positive referenze – ha, tuttavia, ritenuto che la risoluzione del rapporto fosse riconducibile all’atto unilaterale di recesso della parte datoriale, recante un richiamo al venir meno della fiducia in un corretto adempimento delle obbligazioni gravanti sul lavoratore, che non aveva rinvenuto alcun riscontro probatorio.

L’operazione ermeneutica svolta dai giudici del gravame attraverso lo scrutinio delle deposizioni testimoniali raccolte – dalla quale non era emersa una concorde volontà delle parti diretta allo scioglimento del vincolo contrattuale – non può essere validamente sindacata in questa sede di legittimità, secondo le rigorose regole sui motivi che possono essere fatti valere al fine di incrinare la ricostruzione di ogni vicenda storica antecedente al contenzioso giudiziale, previste dall’art. 360 c.p.c., n. 5, tempo per tempo vigente (vedi Cass. 12/12/2017 n. 29781).

Consegue alle suesposte considerazioni, che gli approdi ai quali è pervenuta la Corte di merito. non restano scalfite dalla critica formulata.

3. Con l’ultimo motivo è denunciata violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c..

Si stigmatizza la sentenza impugnata per non aver valorizzato le risultanze documentali acquisite in primo grado, che rendevano conto dell’atteggiamento aggressivo trasfuso nell’invio di “e-mail dal tenore farneticante, dai toni accesi che ben possono essere ritenuti offensivi dal destinatario”, oppure “i cui toni appaiono ictu oculi contrari agli obblighi di correttezza propri del rapporto di lavoro subordinato”.

La censura presenta evidenti profili di inammissibilità.

Una questione di violazione o di falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., non può, infatti, porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma, rispettivamente, solo allorchè si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (vedi Cass. 27/12/2016 n.27000); ipotesi queste non riscontrabili nella fattispecie scrutinata. Non può poi, tralasciarsi di considerare che secondo l’insegnamento di questa Corte, in tema di valutazione delle risultanze probatorie in base al principio del libero convincimento del giudice, la violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. è apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei limiti del vizio di motivazione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, e deve emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di causa, non consentito in sede di legittimità (Cass. n. 20/6/2006 n. 14267, cui adde, Cass. 30/11/2016 n. 24434, nonchè Cass. 27/7/2017 n. 18665). L’art. 116 c.p.c., comma 1, consacra il principio del libero convincimento del giudice, al cui prudente apprezzamento – salvo alcune specifiche ipotesi di prova legale – è pertanto rimessa la valutazione globale delle risultanze processuali, essendo egli peraltro tenuto ad indicare gli elementi sui quali si fonda il suo convincimento nonchè l’iter seguito per addivenire alle raggiunte conclusioni, ben potendo al riguardo disattendere taluni elementi ritenuti incompatibili con la decisione adottata (ex plurimis vedi Cass. Cass. 15/1/14 n.687). Nello specifico, non può sottacersi come il ricorso solleciti, nella forma apparente della denuncia di error in iudicando, un riesame dei fatti, inammissibile nella presente sede.

Con riferimento al vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), premesso che questo può rilevare solo nei limiti in cui l’apprezzamento delle prove – liberamente valutabili dal giudice di merito, costituendo giudizio di fatto – si sia tradotto in una pronuncia che sia sorretta da motivazione non rispondente al minimo costituzionale – deve rilevarsi che la Corte di appello ha dato conto delle fonti del proprio convincimento ed ha argomentato in modo logicamente congruo.

Ha dedotto in ordine alla inidoneità delle mail indirizzate dal lavoratore all’Associazione Sommellier Toscana, per quanto di tono polemico, a causare un danno all’immagine della società giuridicamente apprezzabile, e a vulnerare i principi di correttezza e buona fede sottesi al vincolo fiduciario, ritenendo in ogni caso la reazione adottata dalla parte datoriale, assolutamente sproporzionata rispetto alla pretesa mancanza.

A fronte di ciò, il ricorso si limita ad opporre un’altra soluzione interpretativa, basata su una diversa ricostruzione fattuale, secondo modalità non consentite nella presente sede, per quanto sinora detto.

Al lume delle superiori argomentazioni, deve dichiararsi l’inammissibilità del ricorso.

Nessuna statuizione va emessa quanto alla regolamentazione delle spese, non avendo l’intimato svolto attività difensiva.

Essendo stato il presente ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, che ha aggiunto l’art. 13, comma 1 quater, del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Nulla per le spese.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 16 maggio 2018.

Depositato in Cancelleria il 1 ottobre 2018

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