LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SPIRITO Angelo – Presidente –
Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –
Dott. CIGNA Mario – rel. Consigliere –
Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –
Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 4991-2016 proposto da:
D.R.P., quale titolare e legale rappresentante della Ditta ***** D.R.P., elettivamente domiciliata in ROMA, V.LE DELLE MILIZIE 96, presso lo studio dell’avvocato GIORGIA MARSICANO, rappresentata e difesa dall’avvocato PIER AUGUSTO DI PEPPE giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
***** , in persona del Dott. G.C., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE, 4, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI BATTISTA MARTELLI, che la rappresenta e difende giusta procura in calce al controricorso;
CONDOMINIO ***** , considerato domiciliato ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato ALESSANDRO DE IULIIS giusta procura a margine del controricorso;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 110/2016 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA, depositata il 27/01/2016;
udita la relazione della causa svolta nella camera di Consiglio del 28/05/2018 dal Consigliere Dr. CIGNA MARIO;
FATTI DI CAUSA
Con citazione 28-5-2012 D.R.P., titolare e l.r. di “***** di D.R.P.”, convenne in giudizio dinanzi al Tribunale di Chieti il Condominio “*****” per sentirlo condannare al pagamento della somma di Euro 18.829,36 a titolo di risarcimento dei danni subiti per l’avvenuto allagamento di un locale da lei condotto in locazione, adibito a deposito, con conseguente deterioramento delta merce ivi esistente, oggetto delta sua attività commerciale (cartolibreria); allagamento dovuto a perdita idrica proveniente da tubazioni condominiali.
Il Condominio contestò la domanda nell’an” e nel “quantum”.
Nel giudizio fu chiamata in causa dal convenuto (e suc.c.,essivamente estromessa) la ***** SpA ed intervenne volontariamente la ***** Ass.ne SpA.
Con sentenza 9-12-2014 l’adito Tribunale rigettò la domanda per mancanza di prova che l’allagamento fosse ascrivibile a rottura o inefficienza di tubazioni condominiali, condannando l’attrice al pagamento delle spese di lite nonchè, d’ufficio, al pagamento dell’ulteriore somma di Euro 10,000,00 ex art. 96 c.p.c..
Con sentenza 27-1-2016 la Corte d’Appello de L’Aquila ha rigettato l’appello proposto dalla D.R., condannandola al pagamento delle spese processuali anche nei confronti della *****, chiamata in giudizio per la manleva a causa dell’intrapresa azione dell’appellante; nello specifico la Corte, sulla base delle risultanze dell’espletata istruttoria e, in particolare, degli ac.c.,ertamenti tecnici di parte in atti nonchè delle deposizioni testimoniali, ha confermato che l’attrice, sulla quale ex art. 2697 c.c., ricadeva il relativo onere, non aveva fornito “alcun elemento di prova, di minima verosimiglianza, sul piano eziologico, del lamentato fatto illecito condominiale”; nè tale mancanza poteva essere colmata attraverso la formulata richiesta di CTU, che, non essendo un mezzo di prova, non poteva rivestire carattere meramente esplorativo; la Corte, inoltre, ha ritenuto “appropriata e proporzionata” la statuizione emessa per responsabilità aggravata, correttamente “ancorata alla valutazione del comportamento extra processuale e processuale della D.R., che veramente appare insistita in una richiesta giudiziale di risarcimento danni completamente destituita dei presupposti di fatto ed, anzi, del tutto artificiosa”.
Avverso detta sentenza D.R.P. propone ricorso per Cassazione, affidato a tre motivi, cui resistono con controricorso sia il Condominio “*****” sia la *****.
Il Condominio, per la fissata adunanza del 28-5-2018, ha depositato in data 23-5-2018, e quindi oltre il termine di cui all’art. 380 bis c.p.c., comma 2, (cinque giorni prima), memoria difensiva, della quale quindi non si è tenuto conto nella decisione.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo la ricorrente, denunziando -ex art, 360 n. 3 c.p.c., -violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., si duole di essere stata condannata al pagamento delle spese di lite di entrambi i gradi del giudizio nei confronti della *****, la cui condanna era invece da ascriversi e porsi in capo al convenuto Condominio per la infondata chiamata in causali motivo è infondato.
Come più volte affermato da questa S.C. invero, “in tema di spese giudiziali sostenute dal terzo chiamato in garanzia, una volta rigettata la domanda principale, il relativo onere va posto a carico della parte soccombente che ha provocato e giustificato la chiamata in garanzia, in applicazione del principio di causalità, e ciò anche se l’attore soccombente non abbia formulato alcuna domanda nei confronti del terzo” (Cass. 2492/2016; conf. Cass. 4195/2018; 23552/2011; Cass. 7674/2008); nel caso di specie la ***** ha partecipato al giudizio in ragione e per effetto della chiamata in causa promossa dal convenuto Condominio, quale compagnia assicuratrice di quest’ultimo, sicchè correttamente, in applicazione del predetto principio l’attrice è stata condannata al pagamento delle spese processuali anche nei confronti della *****.
Con il secondo motivo la ricorrente, denunziando – ex art. 360 c.p.c., n. 3, -violazione e falsa applicazione dell’art. 96 c.p.c., si duole della condanna al pagamento di Euro 10.000,00, disposta dal primo Giudice e confermata dalla Corte, “senza indicazione della sussistenza di specifico presupposto di legge e dei requisiti oggettivi” e, in particolare, senza il necessario accertamento della mala fede o colpa grave della parte soccombente-.
Il motivo è infondato.
Come evidenziato da questa Corte a sez. unite nella sentenza 9912/2018, “la responsabilità aggravata ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 3, a differenza di quella di cui ai primi due commi della medesima norma, non richiede la domanda di parte nè la prova del danno, ma esige pur sempre, sul piano soggettivo, la mala fede o la colpa grave della parte soccombente, sussistente nell’ipotesi di violazione del grado minimo di diligenza che consente di avvertire facilmente l’infondatezza o l’inammissibilità della propria domanda, non essendo sufficiente la mera infondatezza, anche manifesta, delle tesi prospettate; peraltro, sia la mala fede che la colpa grave devono coinvolgere l’esercizio dell’azione processuale nel suo complesso, cosicchè possa considerarsi meritevole di sanzione l’abuso dello strumento processuale in sè, anche a prescindere dal danno procurato alla controparte e da una sua richiesta …”.
Correttamente, pertanto, la Corte territoriale, a prescindere dalla domanda di parte e dalla prova del danno, valutando tutto il comportamento processuale ed extraprocessuale della D.R., ha ritenuto appropriata e proporzionata la condanna per responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c., disposta dal primo Giudice, precisando al riguardo che la richiesta giudiziale attorea di risarcimento danni era completamente destituita anche dei presupposti di fatto nonchè palesemente del tutto artificiosa, così implicitamente evidenziando che l’attrice aveva proposto la sua domanda in violazione del predetto grado minimo di diligenza richiesto.
Con il terzo motivo la ricorrente, denunciando -ex art. 360 c.p.c., n. 3, – violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., si duole che sia il Tribunale sia la Corte non abbiano ammesso la richiesta CTU.
Il motivo è inammissibile.
Come affermato in più occasioni da questa S.C. la consulenza tecnica d’ufficio non è mezzo istruttorio in senso proprio, avendo la finalità di coadiuvare il giudice nella valutazione di elementi acquisiti o nella soluzione di questioni che necessitino di specifiche conoscenze. Ne consegue che il suddetto mezzo di indagine non può essere utilizzato al fine di esonerare la parte dal fornire fa prova di quanto assume, ed è quindi legittimamente negata qualora la parte tenda con essa a supplire alla deficienza delle proprie allegazioni o offerte di prova, ovvero di compiere una indagine esplorativa alla ricerca di elementi, fatti o circostanze non provati” (Cass. 30218/2017).
Correttamente, pertanto, la Corte, dopo avere evidenziato la mancanza, in capo all’attrice, della “compiuta allegazione del determinismo causale in ragione del quale l’allagamento del magazzino-garage si sarebbe prodotto”, ha confermato l’ordinanza di rigetto della richiesta attrice di CTU, ritenendo che la stessa rivestisse carattere meramente esplorativo.
Siffatto giudizio, con riferimento alla necessità ed utilità di far ricorso allo strumento della consulenza tecnica d’ufficio, rientra nel potere discrezionale del giudice del merito, la cui decisione è, di regola, incensurabile nel giudizio di legittimità, se non per vizi motivazionali ex art. 360 c.p.c., n. 5, (nel nuovo testo, applicabile ratione temporis), non specificamente dedotti nel caso di specie, (conf, Cass. 7472/2017).
In conclusione, pertanto, il ricorso va rigettato.
Le spese del presente giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
Ricorrono, inoltre, i presupposti di cui all’art. 96 c.p.c., u. comma, avendo la ricorrente proposto il presente giudizio di legittimità senza quel grado minimo di diligenza che consente di avvertire facilmente l’infondatezza o l’inammissibilità della propria domanda (v. la su riportata Cass. sez. unite 9912/2018).
La condanna ex art. 96 c.p.c., comma 3, applicabile d’ufficio in tutti i casi di soccombenza, configura, invero, una sanzione di carattere pubblicistico, autonoma ed indipendente rispetto alle ipotesi di responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c., commi 1 e 2, e con queste cumulabile, volta al contenimento dell’abuso dello strumento processuale; la sua applicazione, pertanto, richiede, quale elemento costitutivo della fattispecie, una condotta oggettivamente valutabile alla stregua di “abuso del processo”, quale l’aver agito o resistito pretestuosamente e cioè nell’evidenza di non poter vantare alcuna plausibile ragione (v. anche Cass. 27623/2017 e Cass. SSUU 16601/2017); in tali ipotesi, il ricorso per cassazione integra infatti un ingiustificato sviamento del sistema giurisdizionale, essendo non già finalizzato alla tutela dei diritti ed alla risposta alle istanze di giustizia, ma destinato soltanto ad aumentare il volume del contenzioso e, conseguentemente, a ostacolare la ragionevole durata dei processi pendenti ed il corretto impiego delle risorse necessarie per il buon andamento della giurisdizione.
Nel caso in esame, le censure contenute nel ricorso (palesemente infondate e in contrasto con consolidati principi di questa Corte e/o tendenti ad un inammissibile riesame nel merito della controversia) devono ritenersi gravemente erronee e non più compatibili con un quadro ordinamentale che, da una parte, deve universalmente garantire l’accesso alla giustizia ed alla tutela dei diritti (cfr. art. 6 CEDU) e, dall’altra, deve tener conto del principio costituzionalizzato della ragionevole durata del processo (art, 111 Cost.) e della necessità di creare strumenti dissuasivi rispetto ad azioni meramente dilatorie e defatigatorie: in tale contesto questa Corte intende valorizzare la sanzionabilità dell’abuso dello strumento giudiziario proprio al fine di evitare la dispersione delle risorse per la giurisdizione (cfr Cass. SSUU. 12310/201 in motivazione) e consentire l’accesso alla tutela giudiziaria dei soggetti meritevoli e dei diritti violati, per il quale, nella giustizia civile, il primo filtro valutativo – rispetto alle azioni ed ai rimedi da promuovere – è affidato alla prudenza del ceto forense coniugata con il principio di responsabilità delle parti.
Deve pertanto concludersi per la condanna della ricorrente, d’ufficio, al pagamento in favore delle controparti, in aggiunta alle spese di lite, di una somma equitativamente determinata in Euro 8.000,00, pari, all’incirca, in termini di proporzionalità (cfr. Cass. SU 16601/2017 sopra richiamata) alla metà del massimo dei compensi liquidabili in relazione al valore della causa. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, poichè il ricorso è stato presentato successivamente al 30-1-2013 ed è stato rigettato, si da atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del cit. art. 13, comma 1 bis.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità sostenute da entrambi i resistenti, che si liquidano, per ciascuno, in Euro 5.000,00, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge; condanna la ricorrente ai sensi dell’art. 96 c.p.c., al pagamento, in favore delle controparti, in aggiunta alle spese di lite, della somma di Euro 8,000,00; dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale.
Così deciso in Roma, il 28 maggio 2018.
Depositato in Cancelleria il 4 ottobre 2018
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