Corte di Cassazione, sez. II Civile, Ordinanza n.25056 del 10/10/2018

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CORRENTI Vincenzo – Presidente –

Dott. SABATO Raffaele – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – rel. Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 29804-2014 proposto da:

C.S., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA BORSIERI 3, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE CORAPI, rappresentata e difesa dall’avvocato RENATO SIMONE;

– ricorrente –

contro

B.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ALESSANDRO MALLADRA 31, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI IARIA, rappresentata e difesa dall’avvocato ANTONIO DI MIZIO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1050/2013 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA, depositata il 24/10/2013;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 17/05/2018 dal Consigliere Dott. ANTONIO SCARPA.

FATTI DI CAUSA E RAGIONE DELLA DECISIONE C.S. ha proposto ricorso articolato in quattro motivi avverso la sentenza n. 1050/2013 della Corte d’Appello de L’Aquila, depositata il 24 ottobre 2013.

Resiste con controricorso B.A..

La ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 380 bis.1. c.p.c.

La Corte d’Appello de L’Aquila ha rigettato l’appello avanzato da C.S. contro la pronuncia resa in primo grado dal Tribunale di Avezzano in data 25 marzo 2009, la quale aveva a suo tempo respinto la domanda della C., proposta il 13 maggio 2003. Tale domanda cumulava pretese di carattere petitorio, possessorio e nunciatorio, a tutela della servitù di passaggio pedonale, di cui C.S. assumeva di fruire insieme alla convenuta B.A. sulla strada di collegamento tra il proprio fondo e la *****. C.S. dedusse che B.A. avesse chiuso per mesi tale passaggio nell’anno 2002 per eseguire lavori di scavo correlati alla modifica della struttura dell’androne, modifica consistente in opere (rimozione del cancello in ferro e sostituzione con altro di minore qualità, eliminazione dei gradini, costruzione di un ballatoio, di una nuova scala e di vani sotterranei, disselciamento) che si erano rivelate tali da impedire il transito pedonale.

La Corte de l’Aquila ha affermato: 1) che le opere realizzate dalla B. consistessero nella riduzione del pianerottolo da m. 2,70 a m. 1,60, nella rimozione del preesistente cancello in ferro, nella eliminazione dei gradini di ingresso e nella realizzazione di un ballatoio; 2) che l’area di passaggio oggetto di lite rientrasse nella proprietà di B.A., gravata di servitù di passaggio a vantaggio della proprietà C., come riconosciuto espressamente in precedenti ricorsi presentati da L.M.A., madre di C.S., convenendo prima D. e D.B.F., danti causa della B., e poi la stessa B.A., e come risultante dalla successione ereditaria di T.A. in favore di D. e D.B.F., nonchè dalla donazione operata da queste ultime ad B.A. con atto del 10 novembre 2001; 3) che non trovasse perciò applicazione l’invocato art. 1102 c.c., quanto l’art. 1067 c.c., comma 2; 4) che l’eliminazione dei gradini, la installazione di un moderno cancello di ingresso e la diminuita profondità del pianerottolo non avessero alterato il contenuto della servitù, ed anzi avessero reso più funzionale il passaggio; 5) che non rilevassero le norme urbanistiche ed edilizie richiamate dall’appellante, giacchè dirette al soddisfacimento di interessi generali; 6) che dovesse confermarsi la cessazione della materia del contendere quanto alla temporanea privazione del passaggio, necessitata dall’esecuzione dei lavori di scavo e poi immediatamente terminata; 7) che le rampe carrabili, che la B. aveva intenzione di realizzare, erano di tipo mobile, e dunque ritraibili dopo ogni transito veicolare; 8) che, avendo i lavori interessato la proprietà esclusiva B., al fine del rispetto della normativa sulle barriere architettoniche, bastasse riscontare l’avvenuto soddisfacimento del requisito della adattabilità.

1. Il primo motivo di ricorso di C.S. (numerato 2) è rubricato “violazione e falsa applicazione di legge”. Nella esposizione della censura si fa riferimento alla “violazione della normativa che tutela, allo stesso tempo, gli interessi pubblici e quelli del singolo”, si lamentano gli “abusi commessi ai danni della C., per via del compimento di attività edilizia illecita, consistente nella demolizione e ricostruzione del noto andito pedonale”, si ricorda che la modifica delle condizioni di esercizio di una servitù in base al titolo ed al possesso può essere consentita solo col consenso delle parti o per ordine del giudice, si contestano “le strani frasi contenute a pag. 6” della sentenza impugnata, si assume che sempre a pagina 6 della sentenza “è possibile rinvenire un’altra “perla””, quanto alla paventata futura realizzazione di un passaggio carrabile, si richiama “la portata vincolante di precise norme pubblicistiche… sicuramente applicabili in materia”, si contesta “il proposito ostinato e ostentato di apporre abusivamente rampe carrabili pericolose e contrarie addirittura alla normativa antisismica”. 1.1. Il primo motivo di ricorso è inammissibile. Esso è palesemente inosservante del requisito di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, in quanto privo dei caratteri della tassatività e della specificità imposti dalla natura di giudizio a critica vincolata del processo di cassazione, caratteri che impongono che il vizio denunciato rientri sempre nell’una o nell’altra delle categorie logiche previste dall’art. 360 c.p.c. Il primo motivo si risolve, invece, in una critica generica della sentenza impugnata, formulata con un’unica censura sotto una molteplicità di profili tra loro confusi e inestricabilmente combinati, non collegabili ad alcuna delle fattispecie di vizio enucleata dal codice di rito. Il motivo, sin dalla sua rubrica, non indica quali siano le norme di legge asseritamente violate, non contiene specifiche argomentazioni intelligibili ed esaurienti, intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, nè, infine, individua, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, di quali eventuali “fatti storici” sia stato omesso l’esame, quale sia il dato, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, come e quando tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti. La ricorrente illustra soltanto critiche apodittiche di erroneità o di inadeguatezza della motivazione od anche di omesso approfondimento di determinati temi di indagine, prendendo in considerazione emergenze istruttorie asseritamente suscettibili di diversa valutazione e traendone conclusioni difformi da quelle alle quali è pervenuto la Corte d’Appello, e così impedisce del tutto a questa Corte di operare un qualsiasi controllo pregiudiziale della decisività delle risultanze che si assumono non valutate.

2. Il secondo motivo di ricorso di C.S. (numerato 3) è rubricato “violazione dei principi giuridici regolanti il tema della cosa giudicata”. Si fa riferimento al richiamo incongruo di “altre sentenze che non hanno nulla a che fare con il caso in esame” e perciò si invoca l’art. 2909 c.c.

2.1.Anche il secondo motivo di ricorso è inammissibile perchè propone una censura priva di specifica attinenza al decisum della sentenza impugnata, come imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4. La Corte de L’Aquila non ha riconosciuto alcuna valenza di giudicato esterno ad altre sentenze, ma ha evidenziato come in pregressi ricorsi L.M.A., madre di C.S., avesse espressamente riconosciuto che l’area di passaggio rientrasse nella proprietà di B.A., ed ha poi escluso la pregnanza della sollecitata disapplicazione della concessione edilizia, la cui legittimità risultava peraltro riconosciuta da una sentenza del T.A.R. E’ principio giurisprudenziale del tutto consolidato quello secondo cui il giudice civile, nell’ordinamento processuale vigente, in forza dell’art. 116 c.p.c., può legittimamente porre a base del proprio convincimento anche prove cosiddette atipiche, purchè idonee a fornire elementi di giudizio sufficienti (se ed in quanto non smentite dal raffronto critico con le altre risultanze del processo), quali possono rivelarsi proprio gli atti e le sentenze inerenti a precedenti giudizi, visto che una sentenza, nella specie, oltre a produrre gli effetti propri del giudicato, può anche avere la diversa efficacia di prova o di elemento di prova documentale in ordine alla situazione giuridica che formi oggetto dell’accertamento giudiziale. Tale efficacia indiretta di prova documentale degli atti processuali può affermarsi anche rispetto ai terzi che non furono parti nel giudizio (cfr. Cass. Sez. L, 18/05/1999, n. 4821; Cass. Sez. 1, 06/06/1987, n. 4949).

3. Il terzo motivo di ricorso di C.S. (numerato 4) è rubricato “extra petita (art. 112 c.p.c.)” ed assume che la Corte d’Appello si sia spinta d’ufficio a pronunciare sulla questione della proprietà delle particelle *****, oggetto del passaggio pedonale, senza che vi fosse domanda.

3.1. Il terzo motivo di ricorso è del tutto infondato.

La Corte d’Appello ha dovuto accertare se l’androne di passaggio controverso fosse oggetto di proprietà comune alle parti, o se invece fosse soltanto di proprietà B., perchè ciò era imposto dalla verifica di fondatezza delle azioni spiegate proprio da C.S., in quanto l’invocato principio di cui all’art. 1102 c.c., sull’uso della cosa comune consentito al partecipante, non è applicabile ai rapporti tra proprietà individuali, che sono piuttosto disciplinati dalle norme attinenti alle distanze legali ed alle servitù prediali, ossia da quelle che regolano i rapporti tra proprietà contigue od asservite e che non contraddicono alla particolare normativa della comunione (cfr. da ultimo Cass. Sez. 2, 31/03/2017, n. 8507). Ricondotta l’azione all’art. 1067 c.c., comma 2, operante nel caso di mero impedimento qualitativo o quantitativo dell’esercizio della servitù senza contestazione del relativo diritto, non può che osservarsi che, nelle azioni in tema di servitù, la legittimazione attiva e passiva compete a coloro che siano titolari delle posizioni giuridiche dominicali, rispettivamente, svantaggiate o avvantaggiate dalla servitù, sicchè l’accertamento della proprietà del fondo (nella specie) servente, proprio perchè costituisce un requisito di legittimazione, e cioè un elemento costitutivo della domanda attinente al merito della decisione, va comunque operato dal giudice, anche d’ufficio, sulla base dagli atti di causa.

4. Il quarto motivo di ricorso di C.S. (numerato 5) è rubricato “nullità della sentenza” ed assume che la sentenza della Corte d’Appello sia priva di un minimo di base logica, in contrasto con l’art. 132 c.p.c., n. 4, e con l’art. 111 Cost. Segue una lunga disamina dei profili urbanistici della vicenda con riferimento al requisito dell’adattabilità delle opere ai fini della normativa sulle barriere architettoniche, alla legislazione antisismica, agli artt. 64 e 65 testo Unico sull’Edilizia, alle prescrizioni del regolamento edilizio in rapporto alle dimensioni del pianerottolo.

4.1. Questo quarto motivo è del tutto inammissibile.

La pronuncia impugnata non è affatto nulla per violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4, in quanto contiene le argomentazioni rilevanti per individuare e comprendere le ragioni, in fatto e in diritto, della decisione, con le quali, piuttosto, la ricorrente non si confronta.

La sentenza della Corte de L’Aquila ha risolto la controversia sulla base dell’art. 1067 c.c., comma 2, a norma del quale il proprietario del fondo servente non può compiere alcuna cosa che tenda a diminuire l’esercizio della servitù o a renderlo più incomodo. L’art. 1067 c.c., comma 2, esclude, cioè, la facoltà del proprietario del fondo servente di eseguire opere che, incidendo sull’andatura e sull’estensione della servitù, riducano la possibilità per il proprietario del fondo dominante di trarre dalla stessa servitù la più ampia utilitas assicurata dal titolo. Conseguentemente, per interpretazione consolidata di questa Corte, in tema di servitù di passaggio, non comporta diminuzione dell’esercizio della servitù l’esecuzione di opere, ovvero la modifica dello stato dei luoghi che, pur riducendo la larghezza dello spazio di fatto disponibile a tal fine, la conservino, tuttavia, in quelle dimensioni che non cagionino una riduzione o una maggiore scomodità dell’esercizio delle servitù (cfr. Cass. Sez. 2, 03/11/1998, n. 10990; Cass. Sez. 2, 19/04/1993, n. 4585). Non possono comunque ritenersi compresi nel divieto posto dall’art. 1067 c.c., comma 2, quegli atti che, restando contemperate le esigenze del fondo dominante con quelle del fondo servente, rappresentino l’esercizio compiuto civiliter dal proprietario delle facoltà di godimento del fondo servente stesso, facoltà che l’esistenza della servitù non può totalmente elidere (Cass. Sez. 2, 03/01/1966, n. 10). L’indagine sulla natura, sull’entità e perciò sulla rilevanza delle innovazioni o delle trasformazioni apportate nel fondo servente, e sul correlativo pregiudizio derivabile dalle stesse al fondo dominante, con riferimento all’art. 1067 c.c., comma 2, costituisce apprezzamento di fatto spettante al giudice del merito (e qui compiutamente operato dalla Corte d’Appello de L’Aquila), apprezzamento sindacabile in sede di legittimità soltanto nell’ambito del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Tra le facoltà di godimento del fondo servente, che il diritto di passaggio su esso gravante non può obliterare, vi sono certamente, anche (o soprattutto) quelle finalizzate a consentire una piena accessibilità alla casa di abitazione da parte di qualsiasi portatore di handicap o persona con ridotta capacità motoria. Questa Corte ha già chiarito come la pronuncia della Corte costituzionale n. 167 del 1999 abbia imposto un mutamento di prospettiva, in forza del quale l’istituto della servitù di passaggio non è più limitato ad una visuale dominicale e produttivistica, ma è proiettato in una dimensione dei valori della persona, di cui agli art. 2 e 3 Cost., che permea di sè anche lo statuto dei beni ed i rapporti patrimoniali in generale (Cass. Sez. 2, 03/08/2012, n. 14103; si vedano anche Cass. Sez. 2, 28/01/2009, n. 2150; Cass. Sez. 2, 16/04/2008, n. 10045).

Tuttavia la ricorrente, nel suo quarto motivo, introduce una serie di elementi legati al rispetto di leggi speciali in materia edilizia, decreti ministeriali, norme di regolamenti edilizi, dei quali non vi è cenno nella sentenza impugnata e che pertanto devono intendersi come proposti ex novo in sede di legittimità, non specificandosi, come imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, in quale atto difensivo dei pregressi gradi di merito tali rilievi furono compiuti. Nel giudizio di cassazione è preclusa alle parti la prospettazione di nuove questioni di diritto o di nuovi temi di contestazione, che postulino indagini ed accertamenti di fatto non compiuti dal giudice del merito, a meno che tali questioni o temi non abbiano formato oggetto di gravame o di tempestiva e rituale contestazione nel giudizio di appello.

5. Il ricorso va perciò rigettato. La ricorrente va condannata a rimborsare alla controricorrente le spese del giudizio di cassazione nell’importo liquidato in dispositivo.

Sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, che ha aggiunto il comma 1-quater al testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 – dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione integralmente rigettata.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a rimborsare alla controricorrente le spese sostenute nel giudizio di cassazione, che liquida in complessivi Euro 3.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre a spese generali e ad accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione seconda civile della Corte Suprema di Cassazione, il 17 maggio 2018.

Depositato in Cancelleria il 10 ottobre 2018

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