Corte di Cassazione, sez. III Civile, Ordinanza n.25160 del 11/10/2018

Pubblicato il

Condividi su FacebookCondividi su LinkedinCondividi su Twitter

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARMANO Uliana – Presidente –

Dott. CIGNA Mario – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – rel. Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 29053-2016 proposto da:

REFILLGAS SRL IN LIQUIDAZIONE, in persona del legale rappresentante pro tempore e quale liquidatore Dott. P.E., elettivamente domiciliata in ROMA, P.ZA CROCE ROSSA 2/B, presso lo studio dell’avvocato RICCARDO TROIANO, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati FRANCESCO BELLA, ENRICO MARIA BELLA giusta procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

B.S., in proprio e quale titolare della Ditta ESSEBI ITALIA DI B.S., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA RODI 32, presso lo studio dell’avvocato MARTINO UMBERTO CHIOCCI, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati ANTONIO SPADETTA, ANNAMARIA SPADETTA giusta procura speciale a margine del controricorso;

– controricorrente –

e contro

ESSEBI ITALIA DI B.S. DITTA INDIVIDUALE, PLASTIGAS SAS DI B.A. & C, FALLIMENTO ***** SRL IN LIQUIDAZIONE;

– intimati –

avverso la sentenza n. 2322/2016 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 09/06/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 20/06/2018 dal Consigliere Dott. FRANCESCA FIECCONI.

RILEVATO IN FATTO

1. Con sentenza n. 3455/2014, depositata in data 16/12/2014, il Tribunale di Monza, dopo avere rigettato le prove per testi, ritenendo la causa documentale, si pronunciava sulla causa promossa da Refillgas s.r.l. in liquidazione contro B.S., Plastigas s.a.s. di B.A. & C. ed ***** s.r.l., e accoglieva parzialmente la domanda attorea, dichiarando la simulazione assoluta della cessione dei beni oggetto di causa (macchinari industriali) intervenuta tra Plastigas ed Essebi Italia di B.S.. Il Tribunale accertava che tra le parti Refillgas e Plastigas il 20/4/2007, era intervenuta una cessione di ramo d’azienda, comprensiva del suddetti beni, per effetto dell’esercizio di un diritto di opzione contenuto nel contratto di affitto di ramo di azienda vigente tra le parti dal 1/10/2001 al 30/9/2007, poi cessato con rilascio del capannone alla locatrice Plastigas. Pertanto il giudice adito dichiarava la simulazione assoluta della vendita dei suddetti beni, rimasti nel capannone, da parte della convenuta Plastigas s.a.s. a Essebi Italia di B.S., accertando il diritto dell’attrice a ritenere i beni oggetto di causa; tuttavia, il Tribunale respingeva la domanda di risarcimento del danno spiegata dall’attrice che non aveva ricevuto in consegna i beni per tutti gli anni di durata delle controversie e dichiarava integralmente compensate tra le parti le spese di lite.

2. Avverso tale sentenza la Refillgas s.r.l. in liquidazione proponeva impugnazione innanzi alla Corte d’Appello di Milano, con atto in data 16/2/2015, chiedendone la riforma parziale in relazione ai capi che respingevano la domanda di risarcimento dei danni e che compensavano le spese del giudizio. Con sentenza n. 2322/2016, pubblicata in data 9/6/2016, la Corte d’Appello di Milano rigettava l’impugnazione e confermava integralmente la sentenza di primo grado, condannando l’appellante al pagamento delle spese del grado di giudizio. La Corte, in particolare, affermava che l’appellante non aveva “fornito elementi ulteriori e decisivi ai fini della prova dell’esistenza del danno e della sua derivazione dalla mancata consegna dei macchinari”.

3. La Refillgas s.r.l. in liquidazione, con atto notificato in data 7/12/2016, propone ricorso innanzi a questa Corte avverso la sentenza n. 2322/2016, pubblicata in data 9/6/2016, affidandolo a due motivi. B.S., in proprio e quale titolare della Essebi Italia s.a.s., resiste con controricorso, notificato in data 19/1/2017. Parte ricorrente produce memoria.

RITENUTO IN DIRITTO

1. Con il primo motivo il ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione tra le parti, nonchè, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 e n. 4, la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c.. In particolare, il ricorrente contesta l’affermazione dei giudici di merito relativa all’assenza di prova circa il danno subito, essendo stato omesso l’esame della documentazione prodotta attestante l’inadempimento, senza alcuna considerazione in ordine all’intera vicenda contrattuale da cui avrebbe dovuto desumersi, non solo il comportamento di grave inadempimento della controparte al contratto di cessione di beni aziendali, ma anche la sua volontà di sottrarsi alla procedura esecutiva intrapresa dalla società ricorrente dopo che era intervenuto un lodo che aveva attestato il corretto esercizio del diritto d’opzione (per l’acquisto di ramo d’azienda con relativi beni), tutti comportamenti da cui avrebbe dovuto inferirsi la lesività della condotta gravemente inadempiente e in mala fede tenuta dalla controparte.

1.1. Le due censure sono inammissibili.

1.2. La prima censura attiene ad un vizio della motivazione, qualificata come “apparente”, che sarebbe sussumibile nel n. 5 della vecchia formulazione dell’art. 360 c.p.c.. Stante l’avvenuta modifica della norma e la deduzione, da parte del ricorrente, di soli elementi fattuali finalizzati ad una nuova valutazione dei fatti di causa e ad un terzo grado di giudizio, la censura è inammissibile. “In seguito alla riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, non sono più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, in quanto il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica della violazione del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6, individuabile nelle ipotesi – che si convertono in violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e danno luogo a nullità della sentenza – di “mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale”, di “motivazione apparente”, di “manifesta ed irriducibile contraddittorietà” e di “motivazione perplessa od incomprensibile”, al di fuori delle quali il vizio di motivazione può essere dedotto solo per omesso esame di un “fatto storico”, che abbia formato oggetto di discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una diversa soluzione della controversia” (Cass. Sez. 3, n. 23940/2017; SSUU n. 8053/2014).

1.3. Con riguardo alla seconda censura, attinente al profilo di omessa motivazione in ordine all’inadempimento da risarcire, in violazione dell’art. 132 c.p.c., anche in questo caso si rileva un motivo di inammissibilità. La motivazione resa dalla Corte territoriale non è incentrata tanto sulla sussistenza dei fatti costitutivi dell’inadempimento, che ha ritenuto sussistente, ma sulla mancata prova del danno che ne è conseguito, posto si assume che il ricorrente (allora attore appellante) aveva chiesto di valutare il danno in termini di “riferibilità della diminuzione del volume d’affari alla mancata disponibilità dei beni de quo” deducendo anche che “appare altresì evidente che la diminuzione quantitativamente poco rilevante degli utili, oltre che l’autonomia dei risultati di esercizio successivi alla presunta diminuzione dei ricavi, dimostra l’assoluta infondatezza dell’appello”. In tal modo la Corte ha inteso sottolineare che non è stato provato che il calo di fatturato (espresso in termini di “volume di affari”) registrato negli esercizi sociali successivi al trasferimento dell’azienda, fosse strettamente collegato al danno da mancata consegna dei macchinari oggetto di cessione, data la presunta autonomia dei risultati di gestione da tale evento dannoso e la diminuzione poco significativa degli utili che dimostravano, invece, che il risultato negativo di gestione fosse riconducibile a diversi fattori.

1.4. Osserva la Corte che la censura di mancata considerazione del calo di fatturato allegato non coglie gli esatti termini della ratio decidendi resa e, comunque, non sposta i termini della questione decisa, inerente al tema della mancata allegazione della prova del nesso causale tra fatto di inadempimento contrattuale, dalla Corte di merito affermato come sussistente, e mancato guadagno dell’impresa, ritenuto non sufficientemente provato. La parte ricorrente, infatti, si limita a sostenere un vizio nel ragionamento presuntivo (p. 37 del ricorso), assumendo che dal fatto noto (il prolungato inadempimento dell’obbligo di consegna dei macchinari e il calo di rendimento accumulato negli anni successivi alla cessione del ramo di azienda) si sarebbe dovuto dedurre il fatto ignoto, ovvero la sussistenza di un danno equivalente al mancato guadagno dell’impresa gestita dalla società, pari a circa quattro milioni di Euro: il che, oltre ad essere un ragionamento errato in ordine alla distribuzione dell’onere della prova del danno – conseguenza, gravante sempre sull’attore (come si vedrà al punto 2 di seguito), si rivela come un argomento che non è in grado di inficiare la ratio decidendi di rigetto della domanda, che poggia sulla considerazione che il risarcimento non è stato chiesto in termini di danno emergente, bensì di lucro cessante, per mancato utilizzo dei beni che, tuttavia, avrebbe richiesto l’offerta di migliori argomenti di prova, anche solo indiziari, in ordine alla stretta correlazione tra il calo di produttività registrato (riferito a tutta l’impresa e non solo al ramo d’azienda acquisito dalla società ricorrente) e la mancata disponibilità dei beni, allorchè l’impresa si era trasferita in altra sede.

2. Con il secondo motivo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 1218 c.c., art. 1372 c.c., nonchè degli artt. 1175 e 1375 c.c., laddove la Corte d’Appello non ha correttamente applicato al caso di specie i criteri normativi in materia di nesso causale nel valutare il grave comportamento di inadempimento contrattuale e di sottrazione agli obblighi derivanti da un lodo arbitrale reso esecutivo, mediante la cessione degli stessi beni ad altra società riferita all’obbligato. Il ricorrente sostiene che non sia stato erroneamente considerato che il persistente inadempimento dell’obbligo di consegna dei beni aziendali, in assoluto spregio degli obblighi di lealtà e correttezza cui deve informarsi ogni rapporto contrattuale, ha determinato, come conseguenza diretta ed immediata, il calo di fatturato registrato nei successivi esercizi sociali.

2.1. Il motivo è inammissibile, prima che infondato.

2.2. La censura, per come è formulata, attiene al piano della valutazione di una responsabilità per inadempimento contrattuale che non può affermarsi ove il danno patrimoniale non sia stato provato nel suo ammontare e non è quindi conferente con il tenore della decisione assunta, che ha respinto la domanda per mancanza di prova del danno da inadempimento contrattuale, tendendo invece a indurre questa Corte a ripercorrere considerazioni di merito sulla grave situazione di inadempienza constatata, invece, dalla Corte d’Appello che, richiamando la valutazione del Giudice di primo grado, ha ritenuto non raggiunta la prova del relativo danno prospettato solo in termini di lucro cessante.

2.3. In materia contrattuale i danni da risarcire devono essere conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento riscontrato, ai sensi dell’art. 1223 c.c.. Nel considerare il risarcimento del danno, il rapporto tra comportamento ed evento e tra questo e il danno muta a seconda che il danno sia un elemento della fattispecie o un suo effetto, e devono conseguentemente distinguersi il nesso che deve sussistere tra comportamento ed evento, affinchè possa configurarsi a monte una responsabilità, in termini di causalità materiale, e il nesso che, collegando l’evento al danno, consente l’imputazione delle singole conseguenze dannose, in termini di causalità giuridica, e ha la funzione di delimitare a valle i confini della responsabilità. Pertanto la limitazione del rapporto causale tra inadempimento e danno alle sole conseguenze immediate e dirette è fondata sulla necessità di contenere l’estensione temporale e spaziale degli effetti e degli eventi illeciti ed è orientata a escludere, dalla connessione giuridicamente rilevante, ogni conseguenza dell’inadempimento che non sia propriamente diretta ed immediata (vedi Cassazione Sez. Lav., sentenza n. 9374/2006).

2.4. Tale principio è ancor meglio espresso in Cass. Sez. 3, Sentenza n. 21619 del 16/10/2007 (Rv. 599816 – 01), ove si chiarisce che nel cosiddetto sottosistema civilistico, il nesso di causalità (materiale) – la cui valutazione in sede civile è diversa da quella penale (ove vale il criterio dell’elevato grado di credibilità razionale che è prossimo alla “certezza”) – consiste anche nella relazione probabilistica concreta tra comportamento ed evento dannoso, secondo il criterio (ispirato alla regola della normalità causale) del “più probabile che non”; esso si distingue dall’indagine diretta all’individuazione delle singole conseguenze dannose (finalizzata a delimitare, a valle, i confini della già accertata responsabilità risarcitoria) e prescinde da ogni valutazione di prevedibilità o previsione da parte dell’autore, la quale va compiuta soltanto in una fase successiva ai fini dell’accertamento dell’elemento soggettivo (colpevolezza) (v. anche Sez. 3, Sentenza n. 11189 del 15/05/2007).

2.5. Passando alla materia che ci occupa, ove il ricorrente deduce il mancato accoglimento di una pretesa risarcitoria da inadempimento contrattuale espressa solo in termini di lucro cessante, correlato alla mancata disponibilità, per un notevole lasso di tempo che ha coinvolto più esercizi sociali, di un complesso di beni aziendali utilizzati al tempo in cui era conduttore del ramo di azienda, giova sottolineare che il danno patrimoniale da mancato guadagno (lucro cessante), concretandosi nell’accrescimento patrimoniale effettivamente pregiudicato o impedito dall’inadempimento dell’obbligazione contrattuale, presuppone la prova, sia pure indiziaria, dell’utilità patrimoniale che il creditore avrebbe conseguito se l’obbligazione fosse stata adempiuta, con la sola esclusione dei mancati guadagni meramente ipotetici perchè dipendenti da condizioni incerte (v. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 24632 del 03/12/2015 – Rv. 637952 – 01-).

2.6. Sicchè, dovendo trasporsi i suddetti principi alla fattispecie in esame, la prova della effettiva consistenza del danno da risarcire richiede un giudizio di adeguatezza della causa a generare il danno lamentato che, se riferita all’inadempimento dell’obbligazione contrattuale di consegna di beni, deve direttamente collegarsi alla perdita della loro specifica utilità. Lo stesso criterio si riscontra in materia societaria, ove si è sancito che il criterio di valutazione del danno sociale, deve riporsi su dati oggettivi direttamente collegati all’inadempimento, se nella disponibilità della parte deducente, potendo solo in via residuale valere il ricorso a dati presuntivi o equitativi riferiti ai risultati negativi di gestione. In tal senso si richiama Sez. U, Sentenza n. 9100 del 06/05/2015 (Rv. 635451 – 01) in cui è chiaramente espresso che nell’azione di responsabilità sociale “la mancata (o irregolare) tenuta delle scritture contabili, pur se addebitabile all’amministratore della società, non giustifica che il danno risarcibile sia determinato e liquidato nella misura corrispondente alla differenza tra il passivo accertato e l’attivo liquidato in sede fallimentare, potendo tale criterio essere utilizzato solo quale parametro per una liquidazione equitativa ove ne sussistano le condizioni, semprechè il ricorso ad esso sia, in ragione delle circostanze del caso concreto, logicamente plausibile e, comunque, l’attore abbia allegato un inadempimento dell’amministratore almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno lamentato, indicando le ragioni che gli hanno impedito l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore medesimo.” (v. anche Cass. Sez. 1 -, Sentenza n. 2500 del 01/02/2018 (Rv. 647230 – 01)).

2.7. Pertanto, ragionando alla luce dei suddetti principi di diritto, riferibili alla fattispecie in esame, deve affermarsi l’ulteriore principio in base al quale “nel caso in cui il danno da perdita di un complesso di beni aziendali sia fatto coincidere con il calo di fatturato aziendale di una società, la astratta riferibilità di tale risultato negativo di gestione societaria all’evento occorso non esonera l’attore dall’onere di dimostrare il nesso sussistente tra l’indisponibilità dei beni, funzionali all’esercizio dell’impresa, e la perdita economica registrata per più esercizi sociali, non potendo la prova, anche solo induttiva e per presunzioni, riferirsi al solo dato, di origine incerta, della complessiva diminuzione di ricavi sociali, normalmente riconducibile a diversi fattori economici e strutturali afferenti alla gestione della società che conduce l’impresa. La parte che deduce un danno sociale per mancato utilizzo di beni aziendali è pertanto onerata di provare la sussistenza di un nesso causale diretto e immediato, in termini di causalità adeguata, tra il risultato negativo di gestione sociale registrato e la mancata disponibilità di beni strumentali per l’esercizio dell’impresa”.

2.8. Poichè il tenore della decisione assunta si dimostra in linea con i principi di diritto sopra richiamati sul tema della prova del danno patrimoniale da inadempimento contrattuale nell’ambito dell’esercizio di una attività commerciale e imprenditoriale, la censura risulta inammissibile nella misura in cui essa non si rapporta alla ratio sottesa nella decisione impugnata e, in ogni caso, induce il giudice di legittimità a svolgere riconsiderazioni “in fatto”effettuate dai Giudici di merito alla luce di corretti principi di diritto, con violazione del disposto di cui all’art. 366 c.p.c., n. 4.

3. Conclusivamente, il ricorso è inammissibile, con ogni conseguenza in ordine alle spese, da porsi a carico del ricorrente soccombente come di seguito liquidate.

PQM

1. Dichiara l’inammissibilità del ricorso;

2. Condanna il ricorrente alle spese, liquidate in Euro 9.000,00, oltre 200,00 per esborsi, spese forfetarie al 15% e oneri di legge.

3. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1- bis, dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, il 20 giugno 2018.

Depositato in Cancelleria il 11 ottobre 2018

©2024 misterlex.it - [email protected] - Privacy - P.I. 02029690472