LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –
Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –
Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –
Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –
Dott. GORGONI Marilena – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 3043/17 R.G. proposto da:
CIRCOLO COOPERATIVO E RICREATIVO POLARE DELLA CORONCINA SOCIETA’
COOPERATIVA, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa all’Avv. Paolo Pierini, con domicilio eletto in Roma, via Pomezia, n. 44, presso lo studio dell’Avv. Piero Farallo;
– ricorrente –
contro
A.I.R. APPARATI IMPIANTI RADIOTELEVISIVI, in persona del suo legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difeso dall’Avv. Andrea Mori Pometti e dall’Avv. Silvia Monfardini, con domicilio eletto in Roma, Corso Vittorio Emanuele II, n. 18, presso lo Studio Grez;
– controricorrente –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Firenze, n. 2166/15, depositata il 22 dicembre 2016;
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 4 luglio 2018 dal Consigliere Marilena Gorgoni.
FATTI DI CAUSA
La Corte di appello di Firenze, con sentenza n. 2166/2015, pubblicata il 22.12.2016, accoglieva parzialmente l’appello proposto dalla Cooperativa Circolo cooperativo e Ricreativo popolare Della Coroncina avverso la sentenza del Tribunale di Siena, n. 273/13, che aveva condannato l’appellante a dare esecuzione al contratto di locazione ultranovennale, avente ad oggetto una porzione di terreno di circa mq 200 per l’installazione di un traliccio di supporto per antenne e per accessori tecnici e per il ricovero di apparecchiature elettroniche, stipulato con la società A.I.R. (Apparati Impianti Radiotelevisivi s.r.l.).
La Cooperativa Circolo cooperativo e Ricreativo popolare Della Coroncina propone ricorso per cassazione avverso la decisione della Corte territoriale, fondato su quattro motivi.
Resiste con controricorso A.I.R. – Apparati impianti radiotelevisivi s.r.l. che si avvale della facoltà di depositare memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo la società ricorrente deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e omessa applicazione dell’art. 1355 c.c..
1.1. Nello specifico rimprovera alla Corte territoriale di non avere dichiarato la nullità della clausola, prevista dall’art. 2 del contratto di locazione stipulato con l’A.I.R., riprodotta integralmente in atti (p. 5 del ricorso), sì da soddisfare il principio di autosufficienza, di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, – la quale faceva decorrere sia la durata del contratto sia i pagamenti dalla fine dei lavori di costruzione e di installazione… dopo l’ottenimento delle concessioni e autorizzazioni necessarie ovvero anticipatamente previa comunicazione della A.I.R. tramite lettera raccomandata a/r di voler usufruire dell’immobile – consentendo, di conseguenza, che la ricorrente restasse vincolata sine die ad un contratto privo di termine, in attesa che la A.I.R. decidesse se e quando dar corso ai relativi effetti e senza poter ricevere nel frattempo alcun canone di locazione.
1.2. Va osservato in via preliminare che la prospettazione del motivo, a dispetto della rubrica, risulta denunciare la sentenza impugnata per omessa pronuncia sulla domanda volta a far dichiarare la natura meramente potestativa della clausola condizionale (p. 4 del ricorso). Dalla sentenza (p. 4 e p. 8) si evince però che l’appellante, attuale ricorrente, aveva lamentato che il giudice di primo grado, interpretando non correttamente la sua domanda, non si fosse pronunciato sulla natura impossibile della condizione, dipendente dal fatto che la A.I.R., non avendo la qualifica di gestore telefonico, non poteva essere destinataria di alcun provvedimento comunale autorizzatorio. La Corte territoriale, pur rilevando l’incongruenza dovuta al fatto che nelle conclusioni della citazione in appello l’appellante aveva esplicitamente chiesto dichiararsi la condizione meramente potestativa o impossibile, ha esaminato il gravame sotto il profilo della natura impossibile della condizione, concludendo nel senso della sua possibilità (pp. 7-8).
1.3. Sul punto va in primis evidenziato che al giudice del merito è conferito il potere di interpretare la domanda di parte e di qualificarla; egli nell’esercizio di tale potere deve accertare e valutare il contenuto della stessa, non solo utilizzando gli atti di parte nella loro formulazione letterale, ma anche considerando natura e vicende così come narrate dalla parte, tenendo conto delle precisazioni da essa fornite e del provvedimento in concreto richiesto (per tutte cfr. ad es. Cass. 10/02/2010 n. 3012). Tale potere va esercitato nel limite della corrispondenza tra chiesto e pronunciato (Cass. 31/03/2014, n. 7502) e può essere sindacato in sede di legittimità soltanto se nel concreto esercizio dello stesso il giudice abbia travalicato i limiti imposti dalla legge o non abbia motivato in modo sufficiente o logico la pronuncia. A questa Corte spetta, pertanto, solo il compito di verificare che sia legittimo il procedimento interpretativo seguito dal giudice del merito e che l’esito di tale ragionamento sia logico (Cass. 9/09/2008, n. 22893).
1.4. Poichè l’interpretazione della domanda di parte è un giudizio di fatto che spetta al giudice del merito, esso non è censurabile dalla Corte di cassazione purchè sia motivato in modo congruo ed adeguato (per tutte cfr. Cass. civ., 5 febbraio 2014, n. 2630).
1.5. Sulla scorta del comportamento processuale della ricorrente, dimostratosi più volte contraddittorio, questa Corte ritiene che il giudice a quo non sia affatto incorso nel vizio di omessa pronuncia, avendo egli esercitato il potere di farsi interprete della domanda non solo per come formulata, ma per come ulteriormente precisata dalla parte.
1.6. In aggiunta, l’illustrazione del motivo oscilla tra la riproposizione di argomenti che alludono alla impossibilità della condizione, ad altri che ne deducono l’illiceità, ad altri ancora che ne denunciano la nullità perchè meramente potestativa (pp. 6-7 del ricorso); in tutti i casi senza addurre argomenti per dimostrare la violazione dell’art. 1355 c.c. in cui sarebbe incorsa la Corte d’appello, se si esclude l’evocazione di un precedente di legittimità (si tratta di Cass. 28/07/2014, n. 14198), il quale non si attaglia alla fattispecie concreta.
1.7. Va precisato che l’evento dedotto in condizione non dipendeva dall’arbitrio della A.I.R., ma risultava collegato a valutazioni di interesse e di convenienza capaci di soddisfare anche l’interesse della cooperativa ricorrente. A tale conclusione si perviene considerando che il rilascio del provvedimento autorizzatorio era affidato al concorso di fattori estrinseci, idonei ad influire sulla determinazione della volontà dell’A.I.R., e che, come riconosciuto dal giudice a quo, anche la ricorrente avrebbe potuto attivarsi tanto per ottenere i provvedimenti amministrativi necessari quanto per stipulare contratti di servizio, ponti radio, locazione, affitto e qualsiasi altro contratto necessario ed utile per lo svolgimento dell’attività economica della soc. A.I.R.. E invero, come è stato più volte affermato dalla giurisprudenza di legittimità, la clausola contrattuale con la quale il sorgere del diritto di una parte viene condizionato all’ottenimento di un provvedimento amministrativo, non è configurabile alla stregua di condizione meramente potestativa, come tale nulla, atteso che, se anche il verificarsi di essa dipende dalla volontà e dall’attività di una sola delle parti, è anche vero che tale accadimento non è indifferente per la parte in questione, alla stregua di un mero si voluero, non potendosi dubitare della piena funzionalità della pattuizione ad uno specifico interesse dedotto come tale nel contratto e perciò oggetto del medesimo (Cass. 23/09/ 2009 n. 20444; Cass. 21/7/2000 n. 9587): nel caso di specie l’interesse dell’A.I.R. al contratto emergeva dalle “favorevoli implicazioni di natura economica connesse alla determinazione del Comune di Siena circa l’utilizzabilità dell’area”.
1.8. Nè va trascurata la considerazione che, benchè ai fini dell’ottenimento del provvedimento fossero indispensabili atti d’iniziativa ad opera della società richiedente, la sua concessione fosse un fatto che prescindeva dalla volontà dell’A.I.R., dipendendo anche da una serie di elementi esterni. La condizione, di cui all’art. 2 del contratto di locazione, dunque, rispondeva ai caratteri della condizione potestativa mista; tale è quella la cui realizzazione è rimessa in parte alla volontà di uno dei contraenti ed in parte ad un apporto causale esterno (Cass. Sez. un. 19/9/2005 n. 18450; Cass. 31/03/2014, n. 7509).
1.9. La considerazione appena formulata, peraltro, non è l’unica che induce a ritenere inammissibile il motivo. Ne ricorre un’altra ancora più tranciante: la Corte di appello ha ritenuto, sulla scorta della clausola n. 4 del contratto – con cui l’attuale ricorrente veniva autorizzata a stipulare contratti di servizio ponti radio, locazione, affitto e qualsiasi altro contratto necessario ed utile per lo svolgimento dell’attività economica della soc. A.I.R. – che non spettasse solo all’A.I.R. attivarsi al fine di ottenere il provvedimento amministrativo. Analoga facoltà di attivazione al fine di ottenerlo era riconosciuta alla ricorrente che avrebbe potuto contattare soggetti aventi la qualifica di operatori telefonici e convenire che si attivassero per ottenere la concessione necessaria. L’argomento è tale da escludere la ricorrenza anche in astratto del presupposto della potestatività della condizione.
1.10. Non sussiste, pertanto, la violazione di legge dedotta dalla ricorrente, dovendosi piuttosto rilevare che quest’ultima, nel sostenere che la clausola controversa doveva essere interpretata nel senso della sua nullità, censura sostanzialmente il risultato dell’operazione ermeneutica compiuta dalla Corte d’Appello, sollecitando un’indagine che esorbita dai rigorosi limiti entro cui deve essere condotta, nel giudizio di legittimità, la verifica della correttezza dell’interpretazione data all’atto negoziale dal giudice di merito.
2. Con il secondo motivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la ricorrente lamenta l’omessa applicazione e/o violazione dell’art. 1354 c.c..
2.1. Pur deducendo in rubrica la omessa applicazione e/o violazione dell’art. 1354 c.c., cioè la nullità della condizione, dalla scarna esposizione del motivo si evince che la ricorrente deduce che la A.I.R., avendo tenuto un comportamento contrario a buona fede durante la fase di pendenza della condizione, sia incorsa nella sanzione di cui all’art. 1359 c.c., il quale considera avverato l’evento dedotto in condizione quando il suo mancato avveramento sia imputabile alla parte che aveva interesse contrario.
2.2. Il motivo è formulato in maniera generica tanto da non consentire l’agevole individuazione della parte motiva della sentenza impugnata oggetto di censura. In casi analoghi, questa Corte ha ritenuto il motivo inammissibile, ex art. 366 c.p.c., per il mancato raggiungimento del suo scopo (Cass. 13/12/2017 n. 29891).
2.3. Ad ogni modo, le premesse in iure per invocare l’applicazione degli artt. 1358 e 1359 c.c. sono le seguenti: a) l’omissione di un’attività in tanto può costituire fonte di responsabilità in quanto l’attività omessa costituisca oggetto di un obbligo giuridico – direttamente discendente dall’art. 1358 c.c. – che lo impone come requisito della condotta da tenere durante lo stato di pendenza della condizione; b) la sussistenza di tale obbligo va riconosciuta anche per l’attività di attuazione dell’elemento potestativo di una condizione mista, quale effetto ex lege del contratto; c) il giudice del merito deve procedere ad un penetrante esame della clausola recante la condizione e del comportamento delle parti, nel contesto del negozio in cui la clausola stessa è contenuta, al fine di verificare, alla stregua degli elementi probatori acquisiti, se corrispondano ad uno standard esigibile di buona fede le iniziative poste in essere al fine di ottenere i provvedimenti amministrativi necessari; d) alla condizione potestativa mista è applicabile anche l’art. 1359 c.c. secondo cui la condizione si considera avverata qualora sia mancata per fatto imputabile alla parte che aveva interesse contrario all’avveramento di essa (Cass. 14/12/2012 n. 23014; Cass. 18/11/2011 n. 24325; Cass. 3/06/2010 n. 13469). In proposito, è stato evidenziato, in particolare, che la citata norma, allorchè fa riferimento alla parte che aveva interesse contrario all’avveramento della condizione, non intende riferirsi soltanto a coloro che, per contratto, apparivano avere interesse al verificarsi della condizione, ma anche ai comportamenti di chi in concreto ha dimostrato, con una successiva condotta, di non avere più interesse al verificarsi dell’evento dedotto in condizione, ponendo in essere atti tali da contribuire a far acquistare al contratto un elemento modificativo dell’iter attuativo della sua efficacia.
2.4. Ne discende che, nel caso in esame, di contratto in cui taluni obblighi siano subordinati all’ottenimento di un provvedimento amministrativo, la società stipulante non avrebbe potuto tenere un comportamento che rendesse inoperante il suo obbligo di pagamento dei canoni di locazione. Pertanto, in ipotesi di mancato avveramento di tale condizione, il giudice di merito era tenuto ad accertare, proprio come ha fatto, se contraente, in base ai doveri gravanti su di essa in forza dell’art. 1358 c.c., si fosse attivata per ottenere i provvedimenti amministrativi e se le iniziative prese a tal fine corrispondessero ad uno standard esigibile di buona fede. Solo in caso contrario, dalla violazione del suddetto obbligo comportamentale, sarebbe conseguito il diritto della controparte di chiedere la risoluzione del contratto e il risarcimento del danno, ai sensi dell’art. 1358 c.c., o, in alternativa, l’adempimento del contratto e, quindi, il pagamento del compenso pattuito, in base alla fictio di avveramento della condizione di cui all’art. 1359 c.c. (Cass. 3/06/2010 n. 13469; Cass. n. 7509/2014 cit.).
2.5. La ricorrente avrebbe avuto ragione di lamentare la violazione degli artt. 1358 e 1359 c.c., qualora avesse provato al giudice di merito l’inattività, contraria a buona fede dell’A.I.R., la quale, dunque, con il proprio comportamento decettivo avesse impedito il verificarsi dell’evento dedotto in condizione, cioè l’ottenimento dei provvedimenti amministrativi di autorizzazione. Solo sulla base di tale presupposto fattuale, in altri termini, la decisione qui impugnata sarebbe risultata emessa in contrasto con la normativa dianzi ricostruita. In assenza di ciò – vero è, al contrario, che il giudice a quo ha accertato l’adozione di un comportamento attivo e non inadempiente da parte dell’A.I.R. – è dunque evidente che il richiamo alla violazione dell’obbligo normativo di buona fede contrattuale in pendenza di condizione ed alla stessa finzione legale di avveramento risulti mal posto, giacchè rispondente ad una ricostruzione della fattispecie concreta del tutto diversa da quella recepita dal giudice di merito (Cass. 10/06/2015, n. 12080).
3. Con il terzo motivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la società ricorrente lamenta la violazione e/o omessa applicazione dell’art. 1218 c.c. per non avere la Corte territoriale riconosciuto l’inadempimento degli obblighi contrattuali assunti da parte della A.I.R., dando rilievo esclusivamente ad un carteggio insignificante intervenuto con il comune di Siena con cui essa chiedeva l’inserimento dell’immobile di proprietà della ricorrente tra quelli all’epoca destinatari di concessioni.
3.1. Avendo la Corte di merito respinto il secondo motivo di gravame volto proprio a dimostrare che l’A.I.R., contrariamente a quanto ritenuto dal giudice di primo grado, non avesse adempiuto agli obblighi derivanti dal contratto – in particolare, risultava che l’A.I.R. si era attivata per ottenere che la località La Coroncina fosse inserita tra quelle che il comune di Siena aveva destinato alla collocazione degli impianti telefonici e che aveva contattato diversi operatori telefonici per promuovere la società resistente, dopo che il nuovo regolamento comunale del 2003 aveva individuato esclusivamente nei gestori telefonici i soggetti legittimati ad ottenere i provvedimenti comunali autorizzatori – è evidente che la ricorrente mira ad ottenere una diversa e per sè favorevole valutazione delle risultanze probatorie, anche introducendo in sede di legittimità elementi – la testimonianza del procuratore della Ericsson Telecomunicazioni – tutt’altro che conferenti, perchè si rivelano del tutto inidonei a dimostrare che il giudice a quo sia incorso nel vizio di violazione dell’art. 1218 c.c..
4. Con il quarto motivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la ricorrente lamenta la violazione ed erronea applicazione dell’art. 1218 c.c. per avere la Corte territoriale ritenuto che, in base alle disposizioni contrattuali, anche la ricorrente potesse attivarsi per ottenere l’autorizzazione al rilascio delle concessioni amministrative.
4.1. Il motivo è assorbito dal primo. Val solo la pena di aggiungere che il giudice a quo, confermando la decisione di prime cure, ha condannato la ricorrente all’adempimento del contratto, perchè, pur avendo chiesto la risoluzione del contratto imputandone la responsabilità all’A.I.R., aveva tenuto un comportamento inadempiente, stante che aveva preso accordi direttamente con taluni operatori telefonici, ritenendo evidentemente più conveniente stipulare direttamente con loro un contratto di locazione e che tale suo accertato inadempimento non aveva portato ad alcuna condanna risarcitoria, pure richiesta dall’A.I.R. per una somma di Euro 500.000,00, solo perchè quest’ultima non era stata in grado di provare l’ammontare del danno subito. Il giudice aveva, infatti, ritenuto che la quantificazione di esso non potesse essere fatta in relazione ai guadagni ottenuti dall’attuale ricorrente con la riscossione dei canoni direttamente dagli operatori telefonici.
5. Ne consegue che il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
6. Le spese del presente giudizio di cassazione – liquidate nella misura indicata in dispositivo – seguono la soccombenza, dandosi atto della sussistenza dei presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.
PQM
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese in favore della società controricorrente, liquidandole in Euro 8.200,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della società ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, nella camera di Consiglio della Terza Sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 4 luglio 2018.
Depositato in Cancelleria il 11 ottobre 2018
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