Corte di Cassazione, sez. V Civile, Ordinanza n.25218 del 11/10/2018

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GRECO Antonio – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta – rel. Consigliere –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. BERNAZZANI Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

3 ERRE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, via A.Gregoretti n.88, presso lo studio dell’Avv. Fabrizio Bianchi Schielholz che la rappresenta e difende per procura a margine del ricorso;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia n. 176/45/11, depositata il 25 novembre 2011;

Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 17 gennaio 2018 dal relatore Cons. Roberta Crucitti.

FATTO E DIRITTO

Rilevato che:

la 3 Erre s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, impugnò l’avviso di accertamento con il quale, a fronte di una perdita dichiarata, erano stati accertati maggiori ricavi, per l’anno di imposta 2003 ed ai fini dell’irpeg, dell’iva e dell’irap;

la Commissione Tributaria Provinciale accolse parzialmente il ricorso, annullando il recupero, ai fini i.v.a. di Euro 8.000 (per omessa fatturazione di parte del prezzo di un immobile venduto nel 2003) ed il recupero di maggior importo, ai fini delle imposte dirette e dell’i.v.a., sulla considerazione che non erano stati forniti da parte dell’Amministrazione finanziaria idonei riscontri in grado di provare che la differenza tra il mutuo erogato (agli acquirenti degli immobili) e l’importo da corrispondere, a saldo al momento del rogito, indicasse un occultamento di prezzo;

la decisione, appellata da entrambe le parti, è stata riformata, con la sentenza indicata in epigrafe, dalla Commissione tributaria Regionale della Lombardia la quale ha confermato la sola ripresa di Euro 8.000 ed annullato tutte le altre;

in particolare, con riferimento al maggior volume di affari accertato sulla base della maggiore somma erogata a titolo di mutuo agli acquirenti degli immobili rispetto al prezzo indicato nell’atto pubblico di vendita, il Giudice di appello ha ritenuto che tale circostanza, da sola, non legittimava la presunzione di una sotto dichiarazione del prezzo di cessione in quanto nella pratica commerciale è usuale che gli acquirenti degli immobili si rivolgano agli istituti di credito disponibili ad erogare il mutuo ipotecario per farsi anticipare, con dei prefinanziamenti, il peculio necessario per corrispondere gli anticipi di prezzo al venditore, prefinanziamenti poi estinti proprio con il ricavato del mutuo;

in relazione all’appello incidentale proposto dalla Società, il Giudice di appello ha ritenuto, invece, che quando, per il rispetto del criterio della competenza temporale, il ricavo della vendita di un bene di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 53,comma 1, quali gli immobili delle società che li acquistano, ristrutturano e successivamente li rivendono, viene attribuito ad un periodo di imposta diverso da quello risultante dal bilancio, la rettifica deve tenere conto degli effetti che tale variazione genera sulle altre poste reddituali, quali le variazioni delle rimanenze, e ciò per rispettare il principio costituzionale della ricorrenza tra capacità contributiva ed imposizione fiscale;

avverso la sentenza l’Agenzia delle entrate propone ricorso, su tre motivi, al quale resiste la Società con controricorso;

il ricorso è stato fissato in camera di consiglio ai sensi dell’art. 375 c.p.c., comma 2, e dell’art. 380 bis c.p.c., comma 1, introdotti dal D.L. 31 agosto 2016, n. 168, art. 1bis, convertito, con modificazioni, dalla L. 25 ottobre 2016, n. 197.

Considerato che:

con il primo motivo di ricorso si deduce la violazione di legge (D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d); D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 2, nonchè artt. 2697 e 2729 c.c.) nella quale sarebbe incorsa la Commissione Regionale nell’annullare l’avviso di accertamento, nella parte in cui era stata ripresa a tassazione la somma di maggiori ricavi, in ragione della qualificata presunzione di sottofatturazione del prezzo di cessione di due immobili;

con il secondo motivo si censura la sentenza impugnata, sullo stesso capo di decisione, di vizio di insufficiente motivazione su fatto decisivo ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, laddove la Commissione Tributaria Regionale non aveva considerato tutti gli ulteriori elementi concreti (relativi alle modalità di acquisto e di pagamento) posti dall’Ufficio a fondamento dell’accertamento induttivo;

le censure, esaminate congiuntamente siccome connesse, sono fondate;

la Commissione Tributaria Regionale, nel capo di sentenza impugnato con i detti mezzi, ha ritenuto che la sola circostanza, relativa ad una maggiore somma erogata a titolo di mutuo agli acquirenti degli immobili rispetto al saldo loro ancora dovuto al venditore, non legittimasse la presunzione di una sottodichiarazione del prezzo di cessione, essendo usuale nella prassi commerciale che gli acquirenti si rivolgano ad istituti di credito per ottenere dei prefinanziamenti per corrispondere gli anticipi di prezzo al venditore e che l’Ufficio avrebbe dovuto suffragare la circostanza con qualche ulteriore elemento…non essendo indice di tale sotto fatturazione il risultato negativo del bilancio della società contribuente;

così argomentando il Giudice di appello, non solo è incorso nel dedotto vizio motivazionale laddove ha omesso di esaminare tutta un’ulteriore serie di elementi fattuali, allegati dall’Agenzia delle entrate (ovvero le modalità di acquisto e del pagamento con un acconto quasi pari al valore dichiarato dell’immobile e, soprattutto, il minor importo del prezzo dichiarato in atto rispetto al valore stimato dalla banca a titolo di garanzia per la dazione del mutuo) che, ove valutati, avrebbero potuto comportare una diversa soluzione della controversia, ma è anche incorsa nella dedotta violazione di legge;

la C.T.R, infatti, nell’annullare il recupero di cui si discute ha argomentato la decisione facendo riferimento ad una “pratica commerciale” ritenuta usuale (come sopra descritta) che non rientra nella nozione di fatto notorio come individuata da questa Corte;

in materia, si è, infatti, costantemente statuito che “il fatto notorio, derogando al principio dispositivo delle prove e al principio del contraddittorio, va inteso in senso rigoroso, e cioè come fatto acquisito alle conoscenze della collettività con tale grado di certezza da apparire incontestabile” (Cass. n. 5232/2008) ovvero (Cass. n. 6299 del 19/03/2014) che “il ricorso alle nozioni di comune esperienza (fatto notorio), comportando una deroga al principio dispositivo ed al contraddittorio, in quanto introduce nel processo civile prove non fornite dalle parti e relative a fatti dalle stesse non vagliati nè controllati, va inteso in senso rigoroso, e cioè come fatto acquisito alle conoscenze della collettività con tale grado di certezza da apparire indubitabile ed incontestabile. Ne consegue che restano estranei a tale nozione le acquisizioni specifiche di natura tecnica, gli elementi valutativi che implicano cognizioni particolari o richiedono il preventivo accertamento di particolari dati, nonchè quelle nozioni che rientrano nella scienza privata del giudice, poichè questa, in quanto non universale, non rientra nella categoria del notorio, neppure quando derivi al giudice medesimo dalla pregressa trattazione d’analoghe controversie”;

nella specie, l’affermata pratica commerciale “usuale” non possiede certamente i suddetti caratteri necessari al fine di consentire deroga al principio dispositivo delle prove con conseguente inadeguatezza della motivazione;

con il terzo motivo si deduce la violazione di legge (D.P.R. n. 917 del 1986, artt. 53,59 e 75) nella quale era incorsa la C.T.R. nell’annullare il recupero della somma di Euro 120.000, malgrado incontestabilmente dichiarata dalla società tra i ricavi per la vendita di un immobile, erroneamente reputando che l’indicazione del medesimo importo nelle rimanenze finali non avesse comportato alcun indebito vantaggio fiscale;

in sintesi, per quanto risulta in atti, la ripresa atteneva all’omessa dichiarazione di ricavi (Euro 120.000) pari al valore di un immobile che, benchè fosse già stato ceduto nel 2003, risultava ancora appostato a fine esercizio tra le rimanenze finali;

la Commissione regionale, nell’accogliere l’appello incidentale proposto dalla Società ed aderendo alla prospettazione difensiva della contribuente, ha annullato tale ripresa ritenendo che l’Amministrazione finanziaria nel recuperare l’importo tra i ricavi per l’esercizio 2003 avrebbe dovuto, al fine di ripristinare la reale rispondenza di bilancio e rispettare il principio costituzionale della ricorrenza tra capacità contributiva ed imposizione fiscale, appostare il correlativo decremento delle rimanenze finali;

così ricostruiti i termini fattuali della vicenda processuale, la censura è fondata;

ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 53, comma 1, lett. a) e art. 75, comma 1 e 2 – vigente ratione temporis – i corrispettivi delle cessioni immobiliari concorrono a formare reddito imponibile, quali ricavi, nell’anno in cui interviene l’atto traslativo della proprietà (nel caso in esame incontestabilmente nel 2003);

la stessa C.T.R. ha rilevato che, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75, vigente ratione temporis, i ricavi concorrono a formare il reddito nell’esercizio di competenza che, nella specie, era quello durante il quale avviene la stipula dell’atto ma ha, poi, ritenuto che l’Amministrazione finanziaria fosse tenutari a rettificare la dichiarazione operando un decremento delle rimanenze finali (fra le quali la Società aveva continuato ad appostare il valore dell’immobile invece venduto) pena una illegittima doppia imposizione;

l’argomentazione è errata siccome difforme dai principi consolidati, espressi in materia da questa Corte, secondo cui (Cass. n.ri 23725 del 21/10/2013; 26665 del 18/12/2009) “In tema di determinazione del reddito d’impresa, le regole sull’imputazione temporale dei componenti di reddito sono inderogabili sia per il contribuente che per l’ufficio finanziario e, pertanto, il recupero a tassazione dei ricavi nell’esercizio di competenza non può trovare ostacolo nella circostanza che essi siano stati dichiarati in un diverso esercizio”;

nè può accedersi alla tesi difensiva della contribuente, fatta propria della Commissione tributaria regionale secondo cui, in mancanza di dette decremento delle rimanenze finali, si verificherebbe un’illegittima doppia imposizione, dato che proprio l’illegittima appostazione dell’immobile tra le rimanenze finali ha consentito alla Società di avvalersene, nell’esercizio successivo, come esistenza iniziale con la conseguenza che, nella specie, non ricorreva, diversamente da quanto ritenuto dal Giudice di appello, la neutralità fiscale della violazione commessa dalla Società nella rappresentazione in bilancio;

conclusivamente, il ricorso va accolto con cassazione della sentenza impugnata e rinvio alla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, in diversa composizione, la quale provvederà al riesame, adeguandosi ai superiori principi e fornendo congrua motivazione, oltre che al regolamento delle spese processuali di questo giudizio.

P.Q.M.

In accoglimento del ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 17 gennaio 2018.

Depositato in Cancelleria il 11 ottobre 2018

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