LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 3
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SESTINI Danilo – Presidente –
Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –
Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –
Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –
Dott. PELLECCHIA Antonella – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 4629-2017 proposto da:
S.M., elettivamente domiciliata in ROMA piazza Cavour presso la Cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentata e difesa dagli avvocati FERDINANDO EMILIO ABBATE, MARA MANFREDI;
– ricorrente –
contro
PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, C.F. *****, in persona del Presidente del Consiglio pro tempore, domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende ope legis;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 13643/2016 del TRIBUNALE di ROMA, depositata il 06/07/2016;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 05/04/2018 dal Consigliere Dott. ANTONELLA PELLECCHIA.
RILEVATO
che:
1. S.M. conveniva in giudizio dinanzi all’Ufficio del Giudice di Pace di Civitacastellana la Presidenza del Consiglio dei Ministri, al fine di conseguire il risarcimento dei danni derivanti dalla mancata attuazione, per l’anno 2010, da parte dello Stato Italiano, della direttiva 98/83/CE del 3/11/1998, con cui il Consiglio dell’UE aveva stabilito il valore limite di 10 mg/1 di arsenico nelle acque destinate al consumo umano.
Con sentenza 71/2013, depositata il 15/02/2013, il Giudice di Pace adito condannava parte convenuta al risarcimento dei danni in favore dell’attrice.
2. La Presidenza del Consiglio dei Ministri proponeva appello avverso detta statuizione, dinanzi al Tribunale civile di Roma. La S. si costituiva resistendo.
Con sentenza 13643/2016, del 6/07/2016, il Tribunale di Roma accoglieva il gravame, motivando che la direttiva 98/83/CE stabilisce che gli Stati membri possono autonomamente stabilire due deroghe all’attuazione della disciplina in essa contenuta, ciascuna per un periodo massimo di tre anni, e che, in circostanze eccezionali, lo Stato membro può domandare una terza deroga, per un periodo fino a tre anni. Lo Stato italiano avrebbe goduto dei due periodi di deroga, per poi domandare alla Commissione Europea di approfittare del terzo, per il triennio 2010-2012, per un valore massimo di 50 mg/l arsenico. Con decisione 7605/2010, la Commissione non concedeva la deroga per valori superiori ai 20 mg/l, e, a fronte del rifiuto, lo Stato Italiano reiterava l’istanza della terza deroga, ma nel limite dei 20 mg/l, cui seguiva la concessione da parte dell’Unione. Ne derivava l’impossibilità di ritenere l’Italia inadempiente, stante la concessa proroga per il biennio 2010-2012, considerato che la domanda di parte attrice era relativa all’anno 2010.
3. Avverso la sentenza d’appello, S.M. propone ricorso per cassazione, per quattro motivi. La Presidenza del Consiglio dei Ministri resiste con controricorso.
4. E’ stata depositata in cancelleria ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., e regolarmente notificata ai difensori delle parti, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza, la proposta di inammissibilità del ricorso. La ricorrente ha depositato memoria.
CONSIDERATO
che:
5. A seguito della discussione sul ricorso, tenuta nella camera di consiglio, reputa il Collegio, con le seguenti precisazioni di condividere la proposta del relatore.
6.1. Con il primo motivo la ricorrente denunzia la violazione e/o falsa applicazione di legge: artt. 339 e 113 c.p.c.; Direttiva Consiglio Unione Europea 98/83/CE. Lamenta che ex art. 339 c.p.c., l’appello contro le sentenze del Giudice di Pace, emesse secondo equità, è possibile nelle sole ipotesi di sentenza viziata da violazione delle norme sul procedimento, violazione di norme costituzionali o comunitarie, ovvero dei principi regolatori della materia, pertanto eccepisce che nella sentenza impugnata il Tribunale non avrebbe riportato le norme comunitarie che si assumono violate dal Giudice di Pace.
6.2. Con il secondo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione di legge: Direttiva Consiglio Unione Europea 98/83/CE: decisione commissione Europea del 28/10/2000: D.Lgs. n. 31 del 2001, artt. 13, 15 e 16: allegato 1 al D.Lgs. n. 31 del 2001. Nello specifico, parte ricorrente si duole della circostanza che il Tribunale non avrebbe tenuto conto del che a seguito della decisione negativa della Commissione Europea circa la concessione della terza proroga per valori limite di 50 mg/l di arsenico, lo Stato Italiano è intervenuto con D.I. 24 novembre 2010, che concede limitate deroghe con riguardo all’arsenico, per le sole regioni di Lombardia e Toscana e in maniera circoscritta ad alcuni comuni. Pertanto, ne risulterebbe esclusa la Regione Lazio, tenuta a conformarsi al limite massimo di 10 mg/l di arsenico e non anche ai 20 mg/l, così come, al contrario, ritenuto in secondo grado. Rileva altresì la circostanza per cui un D.I. non può prorogare decreti ministeriali. Ad ogni modo, la prova dell’intervenuta violazione della normativa comunitaria spetterebbe allo Stato, fermi comunque i limiti dell’art. 339 c.p.c..
6.3. Con il terzo motivo lamenta la Violazione e/o falsa applicazione di legge-339, art. 113 c.p.c.: art. 2697 c.c.: artt. 115 e 116 c.p.c., deduce la violazione di artt. 339 e 113 c.p.c., nonchè degli artt. 1226,2043 e 2697 c.c., nonchè degli artt. 115 e 116 c.p.c. e la Direttiva del Consiglio dell’Unione Europea 98-83-CEE con riferimento alla parte della decisione che esclude la sussistenza del nesso causale tra il danno subito dall’attore e il mancato adeguamento dell’Italia i limiti fissati dalla Direttiva evidenziando, come già fatto con il primo motivo, che l’amministrazione appellante non ha individuato il “motivo limitato” tra quelli consentiti dalle norme citate. Sotto altro profilo non possono essere oggetto di appello avverso le decisioni adottate secondo equità dal Giudice di pace le valutazioni che riguardano le prove; Il terzo motivo è assorbito dal rigetto dei precedenti.
6.4. Con il quarto motivo chiede in via subordinata, la formulazione di un quesito interpretativo alla Corte di Giustizia CE, ex art. 267 TFUE (già art. 234 TCE) al fine di verificare se il diritto fondamentale di ogni cittadino dell’unione di poter usufruire di acqua salubre e pulita osta all’adozione da parte dello Stato membro di decreti amministrativi con i quali venga prorogato l’utilizzo di un parametro superiore, in deroga a quello contenuto nella Direttiva.
7.1. Il primo motivo, che presenta profili di inammissibilità, non è comunque fondato. Il Tribunale, infatti, ha rilevato che l’appello rispettava in tutto le condizioni di cui all’art. 342 c.p.c., nè il ricorso illustra, su questo punto, le ragioni per le quali esso avrebbe dovuto essere ritenuto inammissibile. Quanto ai limiti dell’appello avverso le sentenze pronunciate secondo equità, si osserva che il Tribunale ha rilevato che la causa doveva considerarsi decisa secondo equità (c.d. giudizio necessario di equità) in considerazione dei limiti della domanda risarcitoria (contenuta nella somma richiesta di Euro 900, esplicitamente indicata), senza che assumesse rilievo il fatto che l’attrice era titolare di un’utenza idrica, posto che ciò non bastava a rendere obbligatoria la decisione secondo diritto. Sulla base di detta premessa, il Tribunale ha correttamente osservato che l’unica impugnazione ammessa era l’appello a motivi limitati (art. 339 c.p.c., comma 3) e che l’appello era da ritenere ammissibile, avendo la Presidenza del Consiglio dei ministri invocato la violazione di una direttiva comunitaria e della normativa interna di recepimento, oltre che per il fatto che il Giudice di pace aveva liquidato il danno, a dire della parte appellante, senza alcun accertamento sull’an debeatur. A fronte di tale impostazione, la censura in esame lamenta la violazione delle regole in tema di appello a motivi vincolati, ma la doglianza non supera, in effetti, la ratio decidendi della sentenza impugnata; il Tribunale, infatti, dopo aver premesso che l’odierna ricorrente aveva invocato in primo grado una violazione della normativa comunitaria, ha spiegato che l’Avvocatura dello Stato aveva invece escluso, nell’atto di appello, che tale violazione vi fosse ed ha in questo ravvisato la ragione giustificatrice dell’ammissibilità dell’appello.
Nè può sostenersi come vorrebbe la parte ricorrente – che tale violazione rappresenti “l’oggetto della controversia”, quasi come se il ricorrente dovesse indicare qualcosa in più rispetto alla presunta violazione della direttiva, perchè l’assunto si tradurrebbe sulla creazione di una sorta di limite esterno (ulteriore) che la lettera e lo spirito dell’art. 339 c.p.c., comma 3, certamente non prevedono. In altri termini, quindi, l’appello è da ritenere certamente ammissibile quando la lesione della norma costituzionale o comunitaria costituisce la causa petendi della domanda.
7.2. Anche il 2^ motivo, che presenta profili di inammissibilità, non è comunque fondato. La sentenza impugnata ha ricostruito i termini della vicenda ed ha posto in luce che il Governo italiano aveva attivato, secondo quanto previsto dall’art. 9 dell’invocata direttiva, due periodi triennali di proroga, l’uno dal 2004 al 2006 e l’altro dal 2007 al 2009. Perdurando la situazione di superamento del tasso soglia di 10 microgrammi per litro, fissato dalla direttiva citata, il Governo italiano aveva chiesto alla Commissione Europea un terzo periodo di proroga, invocando l’applicazione del tasso soglia di 50 microgrammi per litro. La sentenza ha aggiunto che la Commissione Europea aveva emesso due pronunce: la decisione n. 7605 del 28 ottobre 2010, con cui non aveva concesso deroghe per valori superiori a 20 microgrammi per litro (cioè, non i 50 richiesti), e la decisione n. 2014 del 22 marzo 2011, con cui aveva autorizzato) la deroga temporanea, fino al 31 dicembre 2012, per valori di arsenico non superiori a 20 microgrammi per litro (salvo che per i bambini e le imprese alimentari). Da tali premesse il Tribunale ha tratto la conclusione per cui la lettura coordinata delle due decisioni portava ad affermare che fino alla data del 31 dicembre 2012 era stato) autorizzato il superamento della soglia dei 10 microgrammi purchè non si andasse oltre i 20 microgrammi, mentre il raggiungimento della soglia di 50 microgrammi non era stato mai consentito. Poichè l’attrice non aveva provato che nell’anno 2010 fosse stata superata la soglia ora indicata, ne conseguiva che la domanda doveva essere respinta.
La ricostruzione operata dal Tribunale è corretta. Ed invero l’art. 9 della direttiva suindicata, sostanzialmente recepito nel D.Lgs. n. 31 del 2001, art. 13 consente agli Stati membri di stabilire deroghe ai valori di parametro ivi fissati, per un periodo non superiore ai tre anni, previa richiesta alla Commissione. Le deroghe sono al massimo due, salva la possibilità, in casi eccezionali, di chiederne una terza, sempre per un triennio. Risulta dall’Allegato 1, parte B, al D.Lgs. n. 31 del 2001, che la soglia tollerata di arsenico nell’acqua potabile deve essere contenuta entro 10 microgrammi per litro. La Commissione Europea, nella decisione del 28 ottobre 2010, in risposta alla deroga chiesta dall’Italia, ha dato conto che la presenza dell’arsenico nell’acqua potabile poteva essere consentita, per un periodo temporaneo, fino alla soglia di 20 microgrammi per litro, mentre le più elevate soglie di 30, 40 e 50 microgrammi non potevano essere autorizzate, perchè tali da determinare un rischio di insorgenza del cancro. Quella decisione, quindi, dopo aver negato la richiesta proroga fino a 50 microgrammi (art. 1, comma 2), l’ha autorizzata fino alla soglia intermedia di 20 microgrammi (come si legge nel Considerando). La successiva decisione del 22 marzo “2011 ha confermato la precedente, consentendo la deroga fino al 31 dicembre 2012 per valore di arsenico fino a 20 microgrammi per litro, fatta eccezione dei bambini da zero a tre anni e delle imprese alimentari, e ribadendo il divieto assoluto di potabilità per i valori superiori a 20 microgrammi. Il che equivale a dire che per il periodo oggetto della presente causa, cioè l’anno 2010, ogni richiesta risarcitoria avrebbe dovuto dimostrare il superamento del suindicato tasso soglia stabilito in via derogatoria temporanea; nè è sindacabile in questa sede il mancato superamento dell’onere della prova, su questo punto, da parte della ricorrente. A fronte di tale ricostruzione, il motivo in esame è generico e dimostra di non cogliere la ratio decidendi della sentenza in esame. Esso da un lato invoca senza fondamento la lesione dei principi sull’onere della prova, posto che è evidente che è il danneggiato a dover provare il fatto costitutivo della pretesa risarcitoria (cioè il superamento della soglia); dall’altro si attarda a contestare presunte errate interpretazioni delle direttive senza considerare che il ‘Tribunale ha dato una propria ricostruzione dei fatti che non viene, in effetti, realmente contestata.
7.3. Il terzo motivo di ricorso è in parte ripetitivo del primo motivo, e comunque è infondato. Anche volendo tralasciare la scarsa chiarezza di alcuni passaggi, è decisivo il fatto che la contestazione dei limiti entro i quali può essere fatta oggetto di appello una sentenza del giudice di pace non può riguardare anche il merito della valutazione delle prove; in altri termini, è errato sostenere che il Tribunale, una volta ritenuto ammissibile l’appello, non potesse sindacare la valutazione delle prove compiuta dal giudice di pace (tale sembra essere la censura), perchè tale affermazione non trova alcun supporto normativo. La Corte costituzionale, occupandosi della legittimità costituzionale dell’art. 339 c.p.c., comma 3, ha evidenziato che l’appello avverse le sentenze del giudice di pace pronunciate secondo equità, “pur limitato al controllo di vizi specifici, è comunque caratterizzato dalla sua essenza di mezzo a critica libera derivante dall’effetto devolutivo pieno della materia esaminata in primo grado” (ordinanza n. 304 del 2012). E’ poi da aggiungere, ad abundantiam, che non è contestata la motivazione della sentenza nella parte in cui afferma che l’interessato non aveva in alcun modo documentato l’effettivo esborso per l’acquisto dell’acqua minerale in luogo di quella fornita dal Comune.
7.4. Il rigetto dei primi tre motivi comporta l’assorbimento del quarto, col quale si chiede di rimettere una questione pregiudiziale di interpretazione alla Corte di giustizia dell’Unione Europea, posto che è chiara l’irrilevanza della sollecitata rimessione.
8. Le spese seguono la soccombenza.
PQM
la Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 300 per compensi, oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del citato art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione sesta civile della Corte Suprema di Cassazione, il 5 aprile 2018.
Depositato in Cancelleria il 11 ottobre 2018
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