LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –
Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –
Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –
Dott. GUIZZI Stefano Giaime – rel. Consigliere –
Dott. SPAZIANI Paolo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 24547-2015 proposto da:
D.G., elettivamente domiciliato in ROMA, V. DI PRISCILLA 128, presso lo studio dell’avvocato ALESSANDRO BARRETTA, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato NICOLA LEONE giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
DA.EG., C.C., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA TRIONFALE, 31, presso lo studio dell’avvocato EUGENIO MAURIZIO CARPINELLI, rappresentati e difesi dall’avvocato VITO NAPOLETANO giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrenti –
e contro
ASL BARI, INA ASSITALIA SPA, FONDIARIA SAI SPA, UNIPOL ASSICURAZIONI SPA;
– intimate –
avverso la sentenza n. 1011/2015 della CORTE D’APPELLO di BARI, depositata il 17/07/2015;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 24/01/2018 dal Consigliere Dott. STEFANO GIAIME GUIZZI;
lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. BASILE TOMMASO che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.
FATTI DI CAUSA
1. D.G. ricorre, sulla base di un unico motivo, per la cassazione della sentenza della Corte di Appello di Bari n. 1011/15, del 19 giugno 2015, che – respingendo il gravame da esso esperito contro la sentenza del Tribunale di Bari, sezionedistaccata di Monopoli, n. 119/11 del 2 maggio 2011 – ha rigettato la domanda risarcitoria dallo stesso proposta nei confronti dei dottori Da.Eg. e C.C., nonchè dell’Azienda USL Ba/*****, per non avere i predetti sanitari rilevato la presenza di corpi estranei nel cranio e nelle orecchie di esso ricorrente e non aver provveduto all’eliminazione degli stessi, all’esito di visita specialistica.
2. Riferisce, in punto di fatto, il ricorrente di essersi sottoposto il 23 luglio 2001 – presso l’Ospedale ***** – alla suddetta visita, non senza avere previamente informato l’equipe otorino-laringoiatrica del nosocomio, con nota raccomandata del *****, della lamentata esistenza di corpi estranei nel cranio e nelle orecchie, asserendo di avere allegato, a conferma, una risonanza magnetica eseguita a ***** nel *****. Deduce, altresì, che i sanitari – sebbene richiamati da esso D., nel corso della visita, ad esaminare le risultanze dell’esame radiodiagnostico “non solo avevano trascurato colposamente ogni accertamento sui corpi estranei evidenziati nella risonanza magnetica, ma avevano anche mancato di rimuoverli, limitandosi a dichiarare che dagli esami praticati non erano state rilevate anomalie.
Pertanto, con atto di citazione sempre del 23 luglio 2001, notificato ai convenuti il giorno 27 luglio, il D. conveniva in giudizio i predetti sanitari e la Asl territorialmente competente, chiedendone la condanna, in solido, al pagamento di Lire 480.000.000, o di diversa somma da accertarsi in corso di causa, a titolo di risarcimento danni.
Costituitisi in giudizio i dottori Da. e C., che oltre a resistere all’avversaria domanda di accertamento della loro responsabilità professionale e di risarcimento dei danni, proponevano domanda riconvenzionale volta al risarcimento dei danni da lesione del diritto all’onore e alla reputazione professionale, tutti i convenuti chiedevano – essendo, all’uopo, autorizzati dal Tribunale – di chiamare in causa le proprie compagnie assicuratrici (Assitalia-Le Assicurazioni d’Italia S.p.a., Unipol Assicurazioni. S.p.a. e SAI Assicurazioni S.p.a.), per essere dalle stesse manlevati.
Istruita la causa, tra l’altro, attraverso la prova per interpello dei dottori Da. e C., respinta la richiesta di CTU (e, dal Presidente del Tribunale, l’istanza di ricusazione del giudice di prime cure), la domanda attorea veniva rigettata, essendo poste le spese del grado a carico del D..
Proposto, da quest’ultimo, gravame, la Corte barese – non senza che fosse prima respinta l’istanza di ricusazione di “altri componenti del collegio” (dopo l’astensione dei tre originariamente designati, autorizzata dal Presidente della Corte) – lo rigettava, sul rilievo che la risonanza magnetica, in quanto priva di referto (ed avendo, oltretutto, il D. dichiarato, in sede di interrogatorio, che i medici londinesi si erano limitati a refertare “verbalmente” un “mal di testa”), non poteva ritenersi documento idoneo a provare la domanda e, finanche, la riferibilità all’attore/appellante dell’accertamento radiodiagnostico effettuato. In ogni caso, il secondo giudice riteneva che il D. non avesse assolto l’onere di provare che il pregiudizio subito fosse dipeso dall’inadempimento dei medici, giudicando come “esplorativa” la richiesta consulenza tecnica d’ufficio.
Al rigetto del gravame seguiva la condanna, a carico dell’allora appellante, delle spese di ambo i gradi di giudizio.
3. Avverso tale sentenza della Corte di Appello di Bari ha proposto ricorso il D., sulla base di un unico motivo.
3.1. Esso – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 5), – ipotizza “violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ.”, nonchè “omesso esame circa un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti, con riferimento alla mancata ammissione della consulenza tecnica di ufficio”, ed infine violazione del principio del giusto processo ex art. 111 Cost..
Si contesta, innanzitutto, il giudizio di inidoneità, sul piano probatorio, della risonanza magnetica, essendo lo stesso “apodittico, perchè esprime una valutazione implicante necessariamente la conoscenza delle metodiche e delle tecniche di interpretazione delle immagini radiodiagnostiche che il giudice non possiede”, rilevandosi, inoltre, quanto al dubbio relativo alla riferibilità dell’esame al D., come il suo superamento fosse reso agevole “dal nome e dalle generalità riportate su ciascuna immagine e dalla data di esecuzione”.
L’affermazione della Corte, dunque, appare rivelatrice del fatto che le lastre neppure siano state visionate, ciò che si traduce “nell’omesso esame del documento clinico decisivo ai fini del decidere”.
D’altra parte, erronea sarebbe anche la decisione di non dare corso alla richiesta CTU, atteso che – in materia di responsabilità sanitaria – essa assume carattere “percipiente”, potendo (recte: dovendo, pena altrimenti la violazione del principio costituzionale “del giusto processo”) essere utilizzata, secondo il ricorrente, per l’accertamento del fatto costitutivo della pretesa risarcitoria.
4. Hanno resistito con controricorso il Da. ed il C., chiedendo il rigetto dell’avversaria impugnazione, della quale hanno, peraltro, eccepito preliminarmente l’inammissibilità, a norma dell’art. 360-bis cod. proc. civ., comma 1, nn. 1) e 2).
Rilevano, infatti, per un verso, che il giudice di appello ha deciso la causa in conformità con i precedenti di questa Corte (secondo cui il ricorso alla CTU non sarebbe consentito per acquisire documentazione che la parte aveva l’onere di produrre), e sottolineano, per altro verso, la manifesta infondatezza della censura di violazione del principio del “giusto” processo, giacchè l’eventuale licenziamento di CTU avrebbe, in difetto di prova da parte del D. circa un danno alla salute riconducibile all’inadempimento dei sanitari, esonerato lo stesso dal fatto costitutivo della propria pretesa risarcitoria.
Nel merito, poi, si contesta l’affermazione del ricorrente, secondo cui la Corte barese – nell’escludere l’idoneità della risonanza a suffragare la circostanza che essa dovrebbe provare – avrebbe espresso un giudizio implicante conoscenze tecniche che il giudice non possiede. Siffatta affermazione sarebbe, secondo i controricorrenti, “inconsistente”, dal momento che “il giudizio di inidoneità non si riferisce al contenuto della lastra” (peraltro, osservano i controricorrenti, ritirate dal D. dopo averle esibite in giudizio e mai più restituite), bensì “alla documentazione prodotta come mezzo di prova”, per essere la risonanza “sfornita di un referto”. D’altra parte, poi, le risultanze dell’interrogatorio del D. (secondo cui i medici londinesi gli refertarono esclusivamente un mal di testa, riferendogli solo verbalmente di aver riscontrato la presenza di corpi estranei nell’orecchio), corroborerebbe la decisione del giudice di appello circa l’assenza di prova della riferibilità della lastra suddetta proprio alla persona dell’odierno ricorrente.
5. Ha spiegato intervento, in persona di un suo sostituto, il Procuratore Generale della Repubblica presso questa Corte, chiedendo il rigetto sul ricorso, essenzialmente sul rilievo che la sentenza impugnata si è conformata al principio enunciato dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui è possibile assegnare alla CTU funzione “percipiente” solo quando verta su elementi già allegati dalla parte (è citata, in particolare, Cass. Sez. 2, sent. 22 gennaio 2015, n. 1190).
6. Ha presentato memoria il ricorrente, ribadendo le proprie argomentazioni e precisando – con riferimento, in particolare, al dedotto vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), – come sia “l’avvenuta produzione degli elementi visivi della lastre” a porsi come “il fatto di rilevanza processuale attestante in modo inconfutabile l’avvenuto assolvimento dell’onere probatorio” da parte dell’allora attore ed oggi ricorrente, che “la Corte territoriale ha ritenuto infondatamente non adempiuto”.
RAGIONI DELLA DECISIONE
7. Il ricorso va rigettato.
8. Va, peraltro, premesso che lo stesso – quantunque sia formalmente strutturato attraverso l’articolazione di un unico motivo – pone, in realtà, diverse censure, non tutte formulate, però, in modo ammissibile.
8.1. E’ quanto a dirsi, in particolare, per la dedotta violazione dell’art. 2697 cod. civ..
Detta evenienza, infatti, è “configurabile soltanto nell’ipotesi in il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne risulta gravata secondo le regole dettate da quella norma” (Cass. Sez. 3, sent. 17 giugno 2013, n. 15107, Rv. 62690701), e non anche “laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti”, essendo “sindacabile, quest’ultima, in sede di legittimità, entro i ristretti limiti del “nuovo” art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5)” (Cass. Sez. 3, ord. 29 maggio 2018, n. 13395, Rv. 649038-01), ovvero con scrutinio destinato ad investire la parte motiva della sentenza solo entro il “minimo costituzionale” (cfr. Cass. Sez. Un., sent. 7 aprile 2014, n. 8053, Rv. 629830-01, nonchè – ex multis – Cass. Sez. 3, ord. 20 novembre 2015, n. 23828, Rv. 637781-01; Cass. Sez. 3, sent. 5 luglio 2017, n. 16502, Rv. 637781-01), vale a dire nel caso in cui la sentenza sia viziata da motivazione “meramente apparente”, configurabile, oltre che nell’ipotesi di “carenza grafica” della stessa, quando essa, “benchè graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perchè recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento” (Cass. Sez. Un., sent. 3 novembre 2016, n. 22232, Rv. 641526-01), o perchè affetta da “irriducibile contraddittorietà” (cfr. Cass. Sez. 3, sent. 12 ottobre 2017, n. 23940, Rv. 645828-01).
Non è, tuttavia, un’erronea distribuzione “inter partes” dell’onere della prova ciò che è lamentato dal ricorrente (come in particolare conferma la memoria dallo stesso depositata), dolendosi, invece, costui che la Corte territoriale abbia “ritenuto infondatamente non adempiuto” siffatto onere, e ciò sebbene egli avesse, invece, prodotto in giudizio le lastre di risonanza magnetica, integranti – a suo dire “il fatto di rilevanza processuale attestante in modo inconfutabile l’avvenuto assolvimento dell’onere probatorio”.
8.2. In parte inammissibile e in parte non fondata è, invece, la censura formulata ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).
8.2.1. In relazione al primo aspetto deve osservarsi che, ad onta di quanto dedotto dal ricorrente (il quale – sempre con riguardo alle lastre di risonanza magnetica – ipotizza il vizio di “omesso esame del documento clinico decisivo ai fini del decidere”), nessuna omissione può essere addebitata alla Corte barese.
Il documento, infatti, è stato da essa esaminato, sebbene il giudice di appello abbia negato ad esso efficacia probatoria, e ciò sul presupposto dell’assenza di un referto clinico che corredasse le lastre della risonanza magnetica.
In queste condizioni, dunque, la censura del D. finisce, fatalmente, per investire – in modo inammissibile – il piano della valutazione che la sentenza impugnata ha fatto di quella prova documentale.
Trova, infatti, al riguardo applicazione il principio secondo cui il “cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio), nè in quello del precedente n. 4), disposizione che – per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4, – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante” (Cass. Sez. 3, sent. 10 giugno 2016, n. 11892, Rv. 640194-01 in senso conforme, tra le altre, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 12 ottobre 2017, n. 23940, nonchè Cass. Sez. 3, sent. 12 aprile 2017, n. 9356, Rv. 644001-01).
8.2.2. D’altra parte, qualora si dovesse ritenere – come il ricorrente si è premurato di precisare nella propria memoria – che l’omesso esame addebitato alla Corte barese non investa “il documento clinico” di per sè, quanto il fatto costituito dalla presenza, sullo stesso, del nome e delle generalità del paziente e della data di avvenuta esecuzione dell’esame, il motivo si paleserebbe, comunque, non fondato.
Va, in proposito, rammentato che “il mancato esame di un documento può essere denunciato per cassazione solo nel caso in cui determini l’omissione di motivazione su un punto decisivo della controversia e, segnatamente, quando il documento non esaminato offra la prova di circostanze di tale portata da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la “ratio decidendi” venga a trovarsi priva di fondamento” (Cass. Sez. 3, ord. 20 giugno 2018, n. 16812, Rv. 649421 – 01), identificandosi, nella sostanza, il fatto decisivo in quello “idoneo a determinare un esito diverso della controversia” (Cass. Sez. 6-5, ord. 4 ottobre 2017, n. 23238, Rv. 646308-01).
Detta evenienza, però, non ricorre nel caso di specie, visto che la Corte barese ha riconosciuto come mancante “qualsiasi prova che l’attore abbia sofferto di problemi di salute” in conseguenza del comportamento dei sanitari, prova in assenza della quale – soggiunge la sentenza impugnata – “non vi è diritto ad alcun risarcimento”, essendo onere del paziente, nelle cause di responsabilità medica, “provare un danno alla salute di cui l’inadempimento del medico sarebbe stato causa o concausa”.
In altri termini, il ritenuto difetto di prova – anzi, a ben vedere, addirittura di allegazione – da parte del D. circa l’esistenza, o l’aggravamento, di problemi di salute, ricollegabili alla (asserita) presenza di corpi estranei nel cranio e nelle orecchie, e, soprattutto, al mancato tempestivo accertamento di tale situazione ad opera dei sanitari, rende priva di decisività la circostanza relativa all’omesso esame delle indicazioni ricavabili dalle lastre prodotte, in quanto il “fatto” omesso non avrebbe determinato un diverso esito della controversia.
Nella specie, infatti, la valutazione della Corte barese si è arrestata, per così dire, “a monte”, dello scrutinio circa l’eventuale incidenza che il (supposto) inadempimento dei sanitari avrebbe avuto sulla condizione di salute del paziente, e ciò, peraltro, in conformità con i principi enunciati da questa Corte, secondo cui, nel “giudizio di risarcimento del danno conseguente ad attività medico chirurgica”, l’attore danneggiato ha, comunque, “l’onere di provare l’esistenza del contratto (o il contatto sociale)” con la struttura “e l’insorgenza (o l’aggravamento) della patologia” (ex multis, Cass. Sez. 3, sent. 30 settembre 2014, n. 20547, Rv. 632891-01), essendosi di recente anche precisato che grava “sul paziente che agisce per il risarcimento del danno l’onere di provare il nesso di causalità tra l’aggravamento della patologia (o l’insorgenza di una nuova malattia) e l’azione o l’omissione dei sanitari”, sicchè solo “ove il danneggiato abbia assolto a tale onere, spetta alla struttura dimostrare l’impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile, provando che l’inesatto adempimento è stato determinato da un impedimento imprevedibile ed inevitabile con l’ordinaria diligenza” (Cass. Sez. 3, sent. 26 luglio 2017, n. 18392, Rv. 645164-01; nello stesso senso anche Cass. Sez. 3, sent. 4 novembre 2017, n. 26824, non massimata; Cass. Sez. 3, sent. 7 dicembre 2017, n. 29315, Rv. 646653-01).
8.3. I rilievi da ultimo espressi escludono, infine, la fondatezza anche della censura di violazione dei principi del “giusto processo”, in particolare basata sull’assunto che il giudice d’appello non avrebbe dato corso al licenziamento di CTU “percipiente”, così violando il diritto del D. alla prova.
Vero è, infatti, che in materia di responsabilità sanitaria, “la consulenza tecnica è di norma “consulenza percipiente” a causa delle conoscenze tecniche specialistiche necessarie, non solo per la comprensione dei fatti, ma per la rilevabilità stessa dei fatti, i quali, anche solo per essere individuati, necessitano di specifiche cognizioni e/o strumentazioni tecniche; atteso che, proprio gli accertamenti in sede di consulenza offrono al giudice il quadro dei fattori causali entro il quale far operare la regola probatoria della certezza probabilistica per la ricostruzione del nesso causale” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 20 ottobre 2014, n. 22225).
Nondimeno, tale principio non giova – nella specie – al ricorrente.
Invero, in presenza di una situazione in cui non risultava provata (anzi, nemmeno allegata) una modificazione in senso peggiorativo dello stato di salute del paziente, il ricorso ad un simile accertamento si palesava come del tutto superfluo, e ciò – come ha ben osservato il sostituto Procuratore Generale presso questa Corte – sulla scorta del principio secondo cui, “in tema di risarcimento del danno, è possibile assegnare alla consulenza tecnica d’ufficio ed alle correlate indagini peritali funzione “percipiente””, ma a condizione che “essa verta su elementi già allegati dalla parte, ma che soltanto un tecnico sia in grado di accertare, per mezzo delle conoscenze e degli strumenti di cui dispone” (Cass. Sez. 2, sent. 22 gennaio 2015, n. 1190, Rv. 633974-01), giacchè, anche quando la consulenza “può costituire essa stessa fonte oggettiva di prova”, resta pur sempre “necessario che le parti stesse deducano quantomeno i fatti e gli elementi specifici posti a fondamento di tali diritti” (Cass. Sez. 3, sent. 26 novembre 2007, n. 24620, Rv. 600467-01).
9. Le spese del presente giudizio vanno poste a carico del ricorrente e sono liquidate come da dispositivo.
10. A carico del ricorrente, rimasto soccombente, sussiste l’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso, condannando D.G. a rifondere a Da.Eg. e C.C. le spese del presente giudizio, che liquida – nel complesso, per entrambi – in Euro 10.000,00, più Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfetarie nella misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, all’esito di adunanza camerale della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 24 gennaio 2018.
Depositato in Cancelleria il 12 ottobre 2018