LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –
Dott. CIGNA Mario – rel. Consigliere –
Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –
Dott. GIANNITI Pasquale – Consigliere –
Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 26914/2016 proposto da:
C.D., C.C., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA SOGLIANO 70, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE AMETRANO, rappresentati e difesi dall’avvocato GERARDO GRISI giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrenti –
contro
C.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CASILINA VECCHIA 27, presso lo studio dell’avvocato ANNA TECCE, rappresentato e difeso dall’avvocato RAFFAELE MARTONE giusta procura a margine del controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 679/2015 della CORTE D’APPELLO di SALERNO, depositata il 21/10/2015;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 17/07/2018 dal Consigliere Dott. MARIO CIGNA.
FATTI DI CAUSA
Con sentenza 17/25-3-2008 il Tribunale di Salerno, in accoglimento di domanda proposta da C.D. e C., condannò C.G., in solido con P.V., al risarcimento dei danni subiti a seguito dell’illegittima esecuzione del mandato conferito a C.G. per la gestione del contributo ottenuto, ex L. n. 219 del 1981, a seguito di sisma del 1980, per la ristrutturazione di un fabbricato sito in *****, di cui C.D., C. e G. erano comproprietari ed i cui lavori erano stati diretti da P.V..
Con sentenza 21-10-2015 la Corte d’Appello di Salerno, in riforma della statuizione di primo grado relativamente alla sola posizione di C.G., ha rigettato le domande avanzate nei confronti di quest’ultimo, dando inoltre atto che P.V., rimasto contumace in fase di gravame, non aveva neanche impugnato la condanna in suo danno.
In particolare la Corte, affermato il proprio potere di interpretare e qualificare la domanda sulla base del contenuto sostanziale della dedotta pretesa, ha concluso che C.G. era stato convenuto in giudizio in qualità di delegato per la riscossione e la gestione del contributo ex L. n. 219 del 1981 e cioè per curare la pratica amministrativa relativa al finanziamento ed alle attività collegate, a nulla rilevando gli eventuali profili di responsabilità addebitati in relazione alla gestione strettamente tecnica della pratica, e cioè alla gestione concreta dei lavori; rispetto a tale ristretto oggetto, nessun addebito poteva porsi a carico di C.G., che, come risultante dagli atti e dalla stessa CTU, aveva seguito costantemente l’andamento della pratica relazionando gli altri comproprietari, aveva provveduto ai relativi pagamenti concernenti sia le parti comuni sia quelle di proprietà esclusiva ed aveva reso il conto della sua gestione.
Avverso detta sentenza C.C. e D. propongono ricorso per Cassazione, affidato a tre motivi ed illustrato anche da successiva memoria ex art. 378 c.p.c..
Resiste con controricorso C.G., il quale eccepisce, peraltro, anche l’inammissibilità del ricorso, in quanto notificato all’avv. Maurizio Monina, precedente avvocato del controricorrente, e non al nuovo difensore avv. Raffaele Martone; sostituzione conosciuta dal ricorrente, atteso che l’avv. Martone aveva proceduto alla notifica della sentenza della Corte di Appello.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Va, in primo luogo, rigettata la sollevata eccezione di inammissibilità del ricorso, posto che, a prescindere da ogni altra considerazione, la notifica dello stesso ha raggiunto il suo scopo, avendo l’intimato resistito con controricorso.
Con il primo motivo i ricorrenti, denunziando – ex art. 360 c.p.c., n. 5 – omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio ed oggetto di discussione tra le parti, lamentano che la Corte abbia totalmente ignorato la circostanza che C.G. aveva eseguito i lavori, per i quali era stato concesso un contributo ex L. n. 219 del 1981, in difformità dal progetto e dalla concessione, tanto da essere stato tratto a giudizio per il reato di cui alla L. n. 47 del 1985, art. 20, lett. b) e art. 7 (giudizio poi conclusosi con sentenza di non doversi procedere per prescrizione); C.G. era l’unico soggetto a potere disporre del contributo e lo aveva utilizzato per finalità illecite e contrarie a quelle per le quali era stato accordato il contributo medesimo; da tale fatto non poteva non discendere una evidente responsabilità per fatto illecito.
Il motivo è infondato.
Contrariamente a quanto sostenuto dai ricorrenti, la Corte non ha omesso l’esame del detto fatto (esecuzione dei lavori in difformità dal progetto e dalla concessione), ma, al contrario, espressamente esaminandolo, lo ha considerato estraneo al conferito incarico (ritenuto relativo alla sola riscossione e gestione del contributo, e non esteso anche alla gestione concreta dei lavori) e, conseguentemente, non compreso nella domanda risarcitoria avanzata dagli attori, avente per oggetto (secondo la Corte) danni derivanti da mancata diligenza nell’esecuzione dell’incarico.
Con il secondo motivo i ricorrenti, denunziando – ex art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5 – violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’interpretazione della domanda formulata da essi ricorrenti in primo grado, lamentano che la Corte, nell’interpretazione della domanda, si sia limitata alla prospettazione letterale della pretesa (e, in particolare, al titolo esplicitato nelle conclusioni: inadempimento all’incarico conferitogli) ed abbia trascurato la ricerca dell’effettivo suo contenuto sostanziale; nel caso di specie, infatti, i ricorrenti avevano effettivamente individuato la non corretta esecuzione della delega come titolo di responsabilità risarcitoria, ma non si erano limitati a tale deduzione, avendo posto un pari accento anche sul danno derivante dalla esecuzione dei lavori in difformità dalla concessione; come desumibile anche dal richiamo al procedimento penale per il reato di cui alla L. n. 47 del 1985, art. 20, il dedotto obbligo risarcitorio aveva la sua fonte, pertanto, non solo nella delega ma anche nella condotta illecita consistita nell’aver fatto eseguire i lavori in violazione della concessione.
Il motivo è inammissibile, atteso che con lo stesso, sub specie di violazione di legge (e, in particolare dell’art. 112 c.p.c.), si tende ad una diversa interpretazione della domanda da parte di questa S.C., in violazione del consolidato principio secondo cui l’interpretazione delle domande, eccezioni e deduzioni delle parti dà luogo ad un giudizio di fatto, riservato al giudice di merito.
Con il terzo motivo i ricorrenti, denunziando – ex art. 360 c.p.c., n. 3 – violazione dell’art. 1362 c.c., commi 1 e 2 e art. 1363 c.c., sostengono che l’interpretazione del contratto (o, comunque, dell’atto unilaterale), come operata dalla Corte in relazione all’oggetto della delega ed alla correlata accettazione della controparte, non sia conforme ad alcun canone di interpretazione codicistico; in particolare lamentano che la Corte, nell’interpretazione della delega e della correlata accettazione, abbia fatto esclusivo riferimento alle non univoche parole “riscossione e gestione dei contributi”, senza invece indagare il complessivo tenore letterale del documento e la comune intenzione delle parti (anche attraverso il comportamento successivo alla conclusione del contratto) e senza interpretare le clausole le une per mezzo delle altre.
Il motivo è in parte infondato e in parte inammissibile.
Per costante principio di questa S.C., invero, “in tema di ermeneutica contrattuale, l’accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto del negozio si traduce in una indagine di fatto, affidata al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità solo nell’ipotesi di violazione dei canoni legali d’interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362 c.c.e segg. (Cass. 27136/2017; v. anche, tra le tante, Cass. 14355 del 2016 e 17168/2012).
La Corte, nel caso di specie, non si è discostata dai canoni legali di interpretazione, avendo valutato la delega in relazione alla sua finalità (curare la pratica amministrativa relativa al finanziamento ex L. n. 219 del 1981), al tenore letterale (l’incarico di gestire e riscuotere il contributo; v. anche nota 21-3-1988 del Comune, richiamata in sentenza) ed al comportamento delle parti (v. lett. racc. 2-5-88); la doglianza si risolve, pertanto, in una critica all’interpretazione della Corte e, sotto tale profilo, è inammissibile.
Alla luce di tali considerazioni, pertanto, il ricorso va rigettato.
Le spese del presente giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, poichè il ricorso è stato presentato successivamente al 30-1-2013 ed è stato rigettato, sì dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del cit. art. 13, comma 1 bis.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano in Euro 7.800,00, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge; dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale.
Così deciso in Roma, il 17 luglio 2018.
Depositato in Cancelleria il 12 ottobre 2018
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