Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.25413 del 12/10/2018

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Presidente –

Dott. BISOGNI Giacinto – Consigliere –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio – rel. Consigliere –

Dott. DOLMETTA Aldo Angelo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 29966-2017 proposto da:

R.S.M., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato LUIGI MIGLIACCIO;

– ricorrente –

contro

UTG PREFETTURA di MILANO;

– intimata –

avverso il decreto n. R.G. 23000/2017 del GIUDICE DI PACE di MILANO, depositato il 09/05/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 18/09/2018 dal Consigliere Relatore Dott. ANTONIO PIETRO LAMORGESE.

FATTI DI CAUSA

Il Giudice di Pace di Milano, con ordinanza del 9 maggio 2017, ha rigettato il ricorso di R.S.M., cittadino *****, avverso il decreto prefettizio di espulsione emesso nei suoi confronti con accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica, per essere entrato nel territorio italiano sottraendosi ai controlli di frontiera e quindi illegalmente soggiornante in Italia, oltre che per il pericolo di fuga.

Egli ha proposto ricorso per cassazione, denunciando violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 2, comma 6 e del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 13, comma 7, per la mancata traduzione del decreto in lingua a lui nota (primo motivo) e dell’art. 7 della direttiva UE. n. 2008/115, per la mancata concessione di un termine per la partenza volontaria, sebbene egli fosse in possesso del passaporto, avesse la disponibilità di un alloggio e non avesse alcuna segnalazione di polizia pregiudizievole (secondo motivo).

Il Prefetto di Milano non ha svolto attività difensiva.

RAGIONI DELLA DECISIONE

Il primo motivo è infondato.

Il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 13, comma 7, prevede che il decreto di espulsione e ogni altro concernente l’ingresso, il soggiorno e l’espulsione “sono comunicati all’interessato unitamente (…) ad una traduzione in una lingui da lui conosciuta ovvero, ove non sia possibile, in lingua inglese, francese o spagnola”. La giurisprudenza l’ha interpretato nel senso che grava sull’amministrazione l’onere di provare l’eventuale conoscenza della lingua italiana o di una delle lingue veicolari da parte del destinatario del provvedimento di espulsione, quale elemento costitutivo della facoltà di notificargli l’atto in una di dette lingue (cfr. Cass. n. 1215 del 2015). Questa interpretazione della norma è da condividere, dovendosi precisare che è compito del giudice di merito accertare in concreto se la persona comprenda la lingua nella quale il provvedimento espulsivo sia stato tradotto (il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 2, comma 6, dispone la traduzione dell’atto “in una lingua comprensibile al destinatario”, non necessariamente nella sua lingua nazionale); a tal fine, il giudice deve valutare gli elementi probatori del processo, tra i quali assumono rilievo anche le dichiarazioni rese dall’interessato all’autorità amministrativa, come nella specie.

Il decreto impugnato, infatti, ha evidenziato che il ricorrente aveva dichiarato di scegliere e di preferire la lingua inglese nella quale il provvedimento di espulsione è stato sinteticamente tradotto, circostanze queste dalle quali il giudice di merito ha desunto il convincimento che egli conoscesse la lingua inglese (v. in termini Cass. n. 11887 del 2017). Si tratta di un apprezzamento di fatto astrattamente censurabile in sede di legittimità nei ristretti limiti di cui al novellato art. 360 c.p.c., n. 5, nella specie neppure evocati nel ricorso. Questa conclusione è conforme al principio secondo cui la nullità del decreto di espulsione – ravvisabile, in linea di principio, per l’omessa traduzione nella lingua conosciuta dall’interessato o in quella veicolare – non sussiste quando vi sia prova anche presuntiva che lo straniero conosca la lingua in cui il decreto è stato tradotto, specie in presenza di dichiarazioni rese dall’interessato all’autorità amministrativa in atti aventi carattere fidefacente (cfr. Cass. n. 18123 del 2017, n. 13114 del 2011).

Il secondo motivo è in parte inammissibile, perchè non è chiaro quale sia l’oggetto della doglianza, cioè se riguardi la mancata concessione del termine per la partenza volontaria da parte del prefetto (D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 13, comma 5) – nel qual caso non è rispettoso del canone di specificità, di cui all’art. 366 c.p.c., nn. 4 e 6, non precisandosi se e quando il ricorrente abbia chiesto al prefetto la concessione del termine per la partenza volontaria – o la mancata informazione che avrebbe dovuto essergli data dal questore circa la possibilità di chiedere il suddetto termine (art. 13, comma 5, n. 1).

Esso inoltre è infondato, perchè contrastante con il principio secondo cui il decreto di espulsione emesso a seguito di ingresso irregolare dello straniero nel territorio dello Stato ha carattere di automaticità, con esclusione di qualsivoglia potere discrezionale del prefetto al riguardo e non può essere dichiarato illegittimo perchè non contenga un termine per la partenza volontaria, in quanto tale omissione non incide sulla validità del provvedimento espulsivo, ma solo sulla misura coercitiva adottata per eseguire l’espulsione (Cass. n. 18540/2016).

Il ricorso è rigettato. Non si deve provvedere sulle spese, non avendo l’intimato svolto attività difensiva.

P.Q.M.

La. Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 18 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 12 ottobre 2018

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