Corte di Cassazione, sez. V Civile, Sentenza n.25451 del 12/10/2018

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRUSCHETTA Ernestino Luigi – Presidente –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. NONNO Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. TRISCARI Giancarlo – rel. Consigliere –

Dott. GORI Pierpaolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 16937 del ruolo generale dell’anno 2010 proposto da:

Società Nautica del Porto s.n.c., in persona del legale rappresentante pro tempore, nonchè F.A., F.L. e G.T., quali soci, rappresentati e difesi, per procura speciale a margine del ricorso, dagli Avv.ti Umberto D’Autilia e Enrico Liberati, elettivamente domiciliati in Roma, via della Giuliana n. 32, presso lo studio di quest’ultimo difensore;

– ricorrenti –

contro

Agenzia delle entrate, in persona del direttore generale pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, è domiciliata;

– controricorrente –

e nei confronti di:

Ministero dell’economia e delle finanze, in persona del Ministro in carica;

– intimato –

nonchè di:

F.M.C. e F.G.;

– intimati –

per la cassazione della sentenza della Commissione Tributaria Regionale dell’Emilia Romagna n. 44/09/2009, depositata il giorno 3 giugno 2009;

udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 20 aprile 2018 dal Consigliere Giancarlo Triscari;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto procuratore generale dott.ssa Mastroberardino Paola, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;

uditi per la società l’Avv. Umberto D’Autilia e per l’Agenzia delle entrate l’Avvocato dello Stato Bruno Dettori.

FATTI DI CAUSA

La società Nautica del Porto s.n.c., nonchè i soci F.A., F.L. e G.T. ricorrono con quattro motivi per la cassazione della sentenza della Commissione Tributaria Regionale dell’Emilia Romagna, in epigrafe, che ha rigettato l’appello proposto dagli stessi avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Ferrara.

Il giudice di appello ha premesso, in punto di fatto, che: l’Agenzia delle entrate aveva emesso un avviso di accertamento con il quale, ai fini Irpef, Irap e Iva e relativamente all’anno di imposta 1998, aveva rettificato la dichiarazione dei redditi presentata dalla società, recuperando a tassazione alcuni costi e l’Iva portata in detrazione, nonchè contestando l’omessa fatturazione e registrazione di ricavi e la cessione di beni senza emissione di fattura; la società ed i soci avevano proposto ricorso, ritenendo non legittimi gli atti impugnati sia per avere la società aderito al condono di cui alla L. n. 289 del 2002, art. 9 che per tardività della notifica degli avvisi di accertamento, nonchè per illegittimità dei recuperi a tassazione e per nullità per difetto di motivazione degli avvisi di accertamento notificati ai soci senza allegazione del processo verbale di constatazione; costituitosi il contraddittorio, la Commissione tributaria provinciale di Ferrara aveva rigettato il ricorso; avverso la suddetta pronuncia avevano proposto appello la società contribuente ed i soci, nel contraddittorio con l’Agenzia delle entrate.

La Commissione tributaria regionale dell’Emilia Romagna ha rigettato l’appello.

In particolare, in punto di diritto, ha ritenuto che: nella fattispecie, non poteva trovare applicazione la previsione di cui alla L. n. 289 del 2002, art. 9 posto che la disposizione in materia di condono e dei conseguenti effetti estintivi non poteva trovare applicazione qualora alla data di entrata in vigore della legge fosse stato notificato il processo verbale di constatazione; non essendosi i contribuenti avvalsi della norma agevolativa, trovava applicazione la previsione di cui all’art. 10 della medesima legge che aveva prorogato di due anni i termini per la notifica dell’atto di accertamento; la suddetta previsione di proroga doveva trovare applicazione anche relativamente alle pretese in materia di Iva; non poteva dirsi sussistente un difetto di motivazione degli avvisi di accertamento per mancata notifica del p.v.c. ai soci, essendo stato questo allegato all’avviso di accertamento notificato alla società; inoltre, in punto di fatto, ha ritenuto che: i dati riscontrati dai block notes rinvenuti costituivano elementi di presunzione gravi, precisi e concordanti in ordine alla ritenuta esistenza di redditi non dichiarati; circa il recupero a tassazione dei cespiti non rilevati in sede di verifica, la società non aveva segnalato, con la denuncia di inizio attività, l’ubicazione di tutti i magazzini a disposizione e, inoltre, i rappresentanti della società non ne avevano fatto specifica indicazione all’atto delle verifiche; circa la natura di bene non strumentale dell’autovettura Opel Astra, le argomentazioni addotte erano generiche e prive di fondamento.

Avverso la suddetta pronuncia ha proposto ricorso la società contribuente e i soci F.A., F.L. e G.T.. L’Agenzia delle entrate si è costituita depositando controricorso.

A seguito di udienza pubblica del giorno 1 giugno 2017, questa Corte, considerato che il ricorso non risultava notificato ai soci F.M.C. e F.G. nè che questi si erano volontariamente costituiti in giudizio, pur avendo preso parte ai giudizi di merito, disponeva con ordinanza l’integrazione del contraddittorio.

RAGIONI DELLA DECISIONE

In via preliminare rispetto all’esame dei singoli motivi di impugnazione, deve essere dichiarato inammissibile il ricorso promosso nei confronti del Ministero dell’Economia e delle Finanze, posto che in tema di contenzioso tributario, a seguito del trasferimento alle agenzie fiscali, da parte del D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 300, art. 57, comma 1, di tutti i “rapporti giuridici”, i “poteri” e le “competenze” facenti capo al predetto Ministero, a partire dal primo gennaio 2001 (giorno di inizio di operatività delle Agenzie fiscali in forza del D.M. 28 dicembre 2000, art. 1), unico soggetto passivamente legittimato è l’Agenzia delle Entrate (Cass. civ, sez. 5, 28 gennaio 2015, n. 1550).

Con il primo motivo di ricorso si censura la sentenza impugnata, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 3, comma 3, per avere ritenuto che nella fattispecie, in cui la società aveva aderito al condono di cui alla L. n. 289 del 2002, poteva trovare applicazione la proroga biennale prevista dall’art. 10 medesima legge.

I ricorrenti, in particolare, deducono che la L. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 10 non avrebbe alcuna valenza di norma di sistema del procedimento tributario, richiesta dalla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 3 per la derogabilità dei termini di decadenza dall’accertamento fissati dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 43 e dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57.

Evidenziano, inoltre, che avrebbe rilevanza anche la pronuncia della Corte di giustizia del 17 luglio 2008 resa nella Causa C-132/06, laddove ha ritenuto illegittimo il condono fiscale 2002 per violazione della Direttiva 77/388.

Il motivo è infondato.

La L. n. 289 del 2002, art. 10 concede agli uffici finanziari una proroga di due anni dei termini per l’accertamento, fissati dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, (in materia di tributi diretti) e dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57, (in materia di IVA), nei confronti dei contribuenti “che non si avvalgono delle disposizioni recate dagli artt. da 7 a 9” della stessa legge.

Le disposizioni richiamate contemplano varie forme di condono fiscale per anni pregressi (rispettivamente, definizione automatica dei redditi d’impresa e di lavoro autonomo, integrazione degli imponibili dichiarati e definizione automatica); le quali non si applicano – fra l’altro, e per quanto interessa – ai soggetti che, come la ricorrente, hanno ricevuto notifica di un processo verbale di constatazione con esito positivo, ossia con accertamento di maggiore imponibile, prima dell’entrata in vigore della norma agevolativa (art. 7 cit., comma 3, lett. c; art. 8 cit., comma 10, lett. a; art. 9 cit., comma 14, lett. a).

Questa Corte (Cass. civ. Sez. 5, 23 luglio 2010, n. 17395), su una controversia analoga a quella in esame, ha precisato che posto che la legge concede proroga all’ufficio per l’accertamento nei confronti dei contribuenti “che non si avvalgono” dei benefici recati dalle suddette disposizioni di favore, all’interprete non è lecito distinguere fra soggetti che non intendono e soggetti che non possono avvalersene, poichè l’espressione “non avvalersi”, secondo il significato proprio delle parole (art. 12 preleggi), descrive ugualmente gli atteggiamenti di chi non voglia e di chi non possa accedere al beneficio indicato, non essendo specificata nella legge alcuna riserva.

In sostanza, tra i contribuenti che non si avvalgono dei benefici di cui alla norma in esame vanno ricondotti non solo quelli che, pur potendo, non hanno aderito alla disposizione agevolativa, ma anche coloro che non hanno potuto avvalersene in quanto, alla data di entrata in vigore della previsione, erano stati già raggiunti da un processo verbale di constatazione con esito positivo.

Con riferimento, inoltre, al profilo relativo alla ritenuta violazione della L. n. 212 del 2000, art. 3 va rilevato che il disposto della L. n. 289 del 2002, art. 10, comma 1, contiene un’espressa deroga al divieto di proroga dei termini per gli accertamenti di imposta, in perfetta coerenza, dunque, con la previsione di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 1, comma 1 (Cass. 1248/2014).

Con riferimento, poi, al ritenuto contrasto con la pronuncia della Corte di giustizia sopra citata, va osservato che in tema di condono fiscale, va disapplicato – perchè in contrasto con la sentenza 17 luglio 2008, causa C-132/06 della Corte di Giustizia, avuto riguardo agli artt. 2 e 22 della cd. Sesta Direttiva IVA e 10 Trattato CE – L. n. 289 del 2002, art. 9 nella parte in cui consente al contribuente, che abbia omesso di presentare le dichiarazioni IVA negli esercizi d’imposta coinvolti dal condono, di fruire per questa imposta della definizione agevolata; in caso contrario, infatti, si realizzerebbe la quasi-esenzione fiscale, che la Corte di Giustizia ha stigmatizzato proprio a causa dell’omessa presentazione delle dichiarazioni IVA, in quanto l’accesso alla definizione agevolata non consentirebbe la reale emersione dell’evasione, risolvendosi in una definitiva rinuncia all’accertamento ed alla riscossione dell’imposta. Tale effetto, tuttavia, si traduce in conseguenza contraria a quanto sostenuto dalla parte ricorrente, posto che, proprio in considerazione della impossibilità dell’accesso alla definizione agevolata in materia di Iva, la parte si trovava nelle condizioni di non potersi avvalere della previsione di cui all’art. 9, sopra citato, con conseguente applicabilità della previsione di cui all’art. 10 in materia di proroga.

Con il secondo motivo si censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione dell’art. 2729 c.c. e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 28 circa i presupposti per l’accertamento per presunzioni di maggiori redditi e per omessa motivazione su un punto decisivo della controversia costituito dalla qualificazione degli elementi di accertamento come gravi, precisi e concordanti.

Il motivo è inammissibile.

Va osservato, in primo luogo, che lo stesso censura la sentenza impugnata, senza alcuna specifica differenziazione tra il ravvisato vizio di violazione di legge e il vizio di motivazione.

In ogni caso, parte ricorrente lamenta la carenza dei presupposti dell’accertamento presuntivo compiuto dall’amministrazione finanziaria e, conseguentemente, l’adesione ad esso da parte del giudice di appello, senza, tuttavia, riportare il contenuto dell’atto impugnato in sede di ricorso, al fine di porre questa Suprema Corte nelle condizioni di potere valutare su quali presupposti si è proceduto ai fini della contestazione.

In linea generale, in ogni caso, deve precisarsi che la giurisprudenza costante di questa Corte è orientata nel senso che la documentazione extracontabile legittimamente reperita presso la sede dell’impresa, ancorchè consistente in annotazioni personali dell’imprenditore, costituisce elemento probatorio, sia pure meramente presuntivo, utilmente valutabile, indipendentemente dal contestuale riscontro di irregolarità nella tenuta della contabilità e nell’adempimento degli obblighi di legge. Qualora pertanto, a seguito di ispezione, venga rinvenuta presso la sede dell’impresa documentazione non obbligatoria astrattamente idonea ad evidenziare l’esistenza di operazioni non contabilizzate, tale documentazione, pur in assenza di irregolarità contabili, non può essere ritenuta di per sè probatoriamente irrilevante dal giudice, senza che a tale conclusione conducano l’analisi dell’intrinseco valore delle indicazioni dalla stessa promananti e la comparazione delle stesse con gli ulteriori dati acquisiti e con quelli emergenti dalla contabilità ufficiale del contribuente (Cass. civ, Sez. V, 8 settembre 2006, n. 19329); di conseguenza il rinvenimento di una contabilità informale, tenuta su un brogliaccio (ma anche di agende-calendario, block notes, matrici di assegni, estratti di conti correnti bancari), costituisce indizio grave, preciso e concordante dell’esistenza di imponibili non riportati nella contabilità ufficiale, che legittima l’Amministrazione finanziaria a procedere ad accertamento induttivo, ai sensi del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 54. (da ultimo, Cass. civ. Sez. 5, 12 gennaio 2018, n. 617).

Per quanto riguarda, poi, il ritenuto vizio di omessa motivazione della sentenza impugnata, va osservato che la stessa ha motivato sulle ragioni per le quali ha ritenuto che gli elementi probatori a disposizione erano da considerarsi gravi, precisi e concordanti, in particolare ha precisato la circostanza che i maggiori ricavi non dichiarati, risultanti dai block notes, erano confermati dalle dichiarazioni (riportate nell’atto di accertamento), nonchè dalle stesse tesi difensive della medesima parte appellante.

In realtà, con il motivo di ricorso in esame parte ricorrente censura l’erroneità del giudizio valutativo espresso dal giudice di appello, sicchè si risolve in una non consentita istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, id est di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di Cassazione. Peraltro, la valutazione degli elementi probatori è attività istituzionalmente riservata al giudice di merito, non sindacabile in Cassazione se non sotto il profilo della congruità della motivazione del relativo apprezzamento (ex multis, Cass. n. 322 del 2003, n. 23286 del 2005, n. 9233 del 2006, n. 1414 del 2015 e numerose successive conformi). Il giudice di merito è infatti libero di attingere il proprio convincimento dagli elementi probatori che ritenga più attendibili ed idonee nella formazione dello stesso, essendo sufficiente, al fine della congruità della motivazione del relativo apprezzamento, che da questa risulti che il convincimento nell’accertamento dei fatti su cui giudicare si sia realizzato attraverso una valutazione dei vari elementi probatori considerati nel loro complesso, pur senza una esplicita confutazione degli altri elementi non menzionati o non considerati, come, nella specie, è di certo accaduto per la sentenza gravata.

Le doglianze che la ricorrente solleva alla decisione impugnata si sostanziano, quindi, nella inammissibile richiesta al giudice di legittimità di sottoporre le risultanze processuali emerse nel corso del giudizio di merito ad una nuova valutazione, in modo da sostituire alla valutazione sfavorevole già effettuata dai primi giudici una più consona alle proprie concrete aspirazioni (cfr., ex multis, Cass. civ, n. 25332 del 2014).

Con il terzo motivo si censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 53 nonchè per nullità della sentenza per difetto di motivazione su un punto decisivo della controversia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), in quanto, relativamente all’accertamento della esistenza delle rimanenze di magazzino, ha applicato il procedimento presuntivo di cui all’art. 53 sopra citato, per superare la circostanza dell’omesso svolgimento delle attività di accertamento da parte dei verbalizzanti in sede di verifica presso l’azienda, nonostante sussistessero documenti prodotti (dichiarazioni rese da terzi) idonei a dimostrare che presso il cantiere nautico era presente un ampio magazzino.

Il motivo è infondato.

Anche in questo caso si censura la sentenza sia per violazione di legge che per vizio di motivazione.

Con riferimento al primo profilo, la pronuncia censurata ha fatto applicazione della previsione contenuta nel D.P.R. n. 633 del 1972, art. 53 che prevede che si presumono ceduti i beni acquistati, importati o prodotti che non si trovano nei luoghi in cui il contribuente esercita la sua attività, comprese le sedi secondarie, filiali, succursali, dipendenze stabilimenti, negozi o depositi dell’impresa, nè presso suoi rappresentanti.

Il procedimento presuntivo, quindi, è stato compiuto in base alla suddetta previsione normativa e tenuto conto del riscontro, in via di fatto, di due circostanze: a) non era stata compiuta alcuna dichiarazione da parte della contribuente circa la sussistenza di altri depositi; b) al momento dell’esame delle giacenze di magazzino i rappresentanti della stessa, presenti con i verificatori, non hanno indicato l’esistenza di altri depositi.

Pertanto, l’attivazione del procedimento presuntivo in esame ha avuto a suo presupposto il mancato ritrovamento delle rimanenze presso il deposito, in linea, quindi, con quanto previsto dall’art. 53, sopra citato.

Con riferimento al secondo profilo, si osserva che, in primo luogo, il motivo difetta di autosufficienza, non essendo stato riportato l’atto di accertamento o il p.v.c. da cui evincere, come sostenuto dai ricorrenti, che i verificatori non avevano fatto richiesta al legale rappresentante dell’esistenza e dell’ubicazione del magazzino.

In ogni caso, il giudice di appello ha tenuto conto degli elementi probatori a disposizione, ed ha ritenuto di dare rilevanza a due circostanze di fondo, sopra indicate, quali la mancata dichiarazione della esistenza di altri magazzini nonchè la presenza dei rappresentanti in sede di verifica, circostanze che ha ritenuto prevalenti rispetto ad ogni altro ulteriore elemento di valutazione posto alla sua attenzione.

Non è quindi dato riscontrare la decisività ai fini del giudizio delle dichiarazioni rese da terzi, peraltro non riportate nel motivo di ricorso.

Con il quarto motivo si censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42 e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 56 e della L. n. 212 del 2000, art. 2 per avere la pronuncia di appello ritenuto non in contrasto con le suddette previsioni la circostanza che il p.v.c. non era stato notificato ai ricorrenti G.T. e F.L. (soci della società), ma solo alla società.

Il motivo è infondato.

Questa Corte ha precisato che il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 42, comma 2, esige, oltre alla puntualizzazione degli estremi soggettivi ed oggettivi della posizione creditoria dedotta, soltanto l’indicazione di fatti astrattamente giustificativi di essa, che consentano di delimitare l’ambito delle ragioni adducibili dall’ufficio nell’eventuale successiva fase contenziosa, restando poi affidate al giudizio d’impugnazione dell’atto le questioni riguardanti l’effettivo verificarsi dei fatti stessi e la loro idoneità a dare sostegno alla pretesa impositiva – Cass. n. 23615/2011 e Cass n. 26458 del 04/11/2008-. Si è poi precisato che nel regime introdotto dalla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 7, l’obbligo di motivazione degli atti tributari può essere adempiuto anche “per relationem”, ovverosia mediante il riferimento ad elementi di fatto risultanti da altri atti o documenti, a condizione che questi ultimi siano allegati all’atto notificato ovvero che lo stesso ne riproduca il contenuto essenziale, per tale dovendosi intendere l’insieme di quelle parti (oggetto, contenuto e destinatari) dell’atto o del documento che risultino necessarie e sufficienti per sostenere il contenuto del provvedimento adottato, e la cui indicazione consente al contribuente – ed al giudice in sede di eventuale sindacato giurisdizionale – di individuare i luoghi specifici dell’atto richiamato nei quali risiedono quelle parti del discorso che formano gli elementi della motivazione del provvedimento – Cass. n. 1906 del 29/01/2008; Cass. n. 6914 del 25/03/2011; Cass. n. 9032 del 15/04/2013.

E’ stato pure aggiunto (Cass. n. 5645 del 12 marzo 2014) che “in tema di accertamento delle imposte sui redditi, l’obbligo di porre il contribuente in condizione di conoscere le ragioni dalle quali deriva la pretesa fiscale, stabilito dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 42 è soddisfatto dall’avviso di accertamento dei redditi del socio… che rinvii “per relationem” a quello, relativo ai redditi della società, ancorchè solo a quest’ultima notificato, giacchè il socio, a norma dell’art. 2261 c.c., ha il potere di consultare la documentazione relativa alla società, e quindi di prendere visione sia dell’accertamento presupposto che dei documenti richiamati a suo fondamento, ovvero di rilevarne l’omessa comunicazione”.

Ne consegue il rigetto del ricorso, con condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese di lite in favore della controricorrente, liquidate in dispositivo.

PQM

La Corte:

dichiara inammissibile il ricorso proposto nei confronti del Ministero dell’Economia e delle Finanze; rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese di lite in favore della controricorrente, che si liquidano in complessive Euro 5.300,00, oltre spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 20 aprile 2018.

Depositato in Cancelleria il 12 ottobre 2018

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