Corte di Cassazione, sez. V Civile, Sentenza n.25472 del 12/10/2018

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta – rel. Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –

Dott. VENEGONI Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, e MINISTERO DELL’ISTRUZIONE DELL’UNIVERSITA’ E DELLA RICERCA, in persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliati in Roma, via dei Portoghesi n.12 presso l’Avvocatura Generale dello Stato che li rappresenta e difende;

– ricorrenti –

contro

V.S., + ALTRI OMESSI, tutte elettivamente domiciliate in Roma, via Nazario Sauro n. 16 presso lo studio degli Avv.ti Stefania Reho e Massimo Pistilli che le rappresentano e difendono, per procura in calce al controricorso;

– controricorrenti –

e contro

P.L., e F.A.;

– intimati –

avverso la sentenza n.5045/1/16 della Commissione Tributaria Regionale del Lazio, depositata il 5.9.2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del giorno 11 luglio 2018 dal Consigliere Roberta Crucitti;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. Sorrentino Federico, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito per i ricorrenti l’Avv. Fabrizio Di Rubbo;

udito per i controricorrenti l’Avv. Massimo Pistilli.

FATTI DI CAUSA

Gli odierni controricorrenti e intimati, come specificamente individuati in epigrafe, impugnarono, con separati ricorsi, il diniego loro opposto dall’Amministrazione finanziaria alle istanze di rimborso dell’Irpef, trattenuta e versata sugli importi loro corrisposti dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca a seguito di condanne pronunciate dal Tribunale – sezione lavoro in virtù dell’accertata illegittimità della reiterazione di contratti di lavoro a tempo determinato stipulati con il suddetto Ministero.

La Commissione tributaria provinciale, previa riunione, rigettò i ricorsi, ritenendo che l’importo erogato fosse tassabile D.P.R. n. 917 del 1986, ex art. 6, comma 2, ma la decisione, appellata dai contribuenti, è stata integralmente riformata, con la sentenza indicata in epigrafe, dalla Commissione tributaria regionale del Lazio, (d’ora in poi C.T.R.), la quale ha accolto i ricorsi introduttivi, riconoscendo il diritto dagli odierni controricorrenti al rimborso dell’Irpef.

In particolare, secondo il Giudice di appello vertendosi in materia di violazione di norme sul contratto di lavoro a tempo determinato, in presenza del divieto legale di conversione, in ambito pubblico, di una serie di contratti a tempo determinato in rapporto a tempo indeterminato, doveva ritenersi che il risarcimento del danno previsto dal Giudice del Lavoro non avesse funzione sostitutiva o integrativa del reddito (lucro cessante), ma natura ristoratrice (danno emergente) e che l’indicazione di diverse mensilità di retribuzione costituisse solo il riferimento ad un paramentro numerico, per la quantificazione del danno.

Per la cassazione della sentenza propongono ricorso, su unico motivo, l’Agenzia delle Entrate e il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca.

V.S. ed altri diciassette (come specificamente indicati in epigrafe) resistono con controricorso, ulteriormente illustrato con deposito di memoria ex art. 378 c.p.c..

P.L. e F.A. non hanno svolto attività difensiva.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con l’unico motivo l’Agenzia delle entrate deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 6, nell’interpretazione dello stesso fornita dalla giurisprudenza di questa Corte, laddove la C.T.R. laziale ha escluso l’assoggettabilità a tassazione delle indennità risarcitorie percepite dalle contribuenti, in virtù delle sentenze del Giudice del lavoro, violando il principio di diritto in base al quale tutte le indennità conseguite dal lavoratore a titolo di risarcimento di danni consistenti nella perdita di redditi (esclusi quelli dipendenti da invalidità permanente o da morte) e, quindi, tutte le indennità aventi causa o che traggano, comunque, origine dal rapporto di lavoro sono soggette a tassazione.

1.1. In particolare, secondo la prospettazione difensiva, il danno riconosciuto dal Giudice del lavoro, derivante dalla mancata stipula di un contratto a tempo non determinato e dalla conseguente perdita del lavoro e della retribuzione, era da inquadrarsi nella tipologia del risarcimento del lucro cessante con la conseguenza che le somme corrisposte, in quanto sostitutive del reddito, andavano (come da costante giurisprudenza di questa Corte) assoggettate a tassazione.

2. L’assunto non è condivisibile.

2.1. La norma di riferimento è costituita dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 6, comma 2, il quale stabilisce che: I proventi conseguiti in sostituzione di redditi, anche per effetto di cessione dei relativi crediti e le indennità conseguite, anche in forme assicurative, a titolo di risarcimento di danni consistenti nella perdita di redditi, esclusi quelli dipendenti da invalidità permanente o da morte, costituiscono redditi della stessa categoria di quelli sostituiti o perduti.

2.2 In materia costituisce, ormai ius receptum che “tutte le indennità conseguite dal lavoratore a titolo di risarcimento dei danni consistente nella perdita di redditi, ad esclusione di quelli dipendenti da invalidità permanente o da morte, e quindi, tutte le indennità aventi causa o che traggono origine dal rapporto di lavoro, comprese le indennità per la risoluzione del rapporto per illegittimo comportamento del datore di lavoro costituiscono redditi da lavoro dipendente e come tali sono assoggettati a tassazione separata ed a ritenuta d’acconto (v. Cass. n. 3582/2003, n. 22803/2006, n. 10972/2009; id. n. 2196/2012 tutte in tema di indennità risarcitorie conseguente a risoluzione del rapporto di lavoro, e Cass. n. 20482/2013 in tema di somme corrisposte a titolo di risarcimento del danno da licenziamento illegittimo).

2.3. Tali principi erano già stati affermati da Cass. n.23795 del 24/11/2010 la quale aveva statuito che “in tema di imposte sui redditi di lavoro dipendente, dalla lettura coordinata del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 6, comma 2 e art. 46 (sul primo dei quali nessuna innovazione deve ritenersi abbia apportato il D.L. 23 febbraio 1995, n. 41, art. 32 – convertito nella L. 22 marzo 1995, n. 85), si ricava che, al fine di poter negare l’assoggettabilità ad IRPEF di una erogazione economica effettuata a favore del prestatore di lavoro da parte del datore di lavoro, è necessario accertare che la stessa non trovi la sua causa nel rapporto di lavoro e, se ciò non viene positivamente escluso, che tale erogazione, in base all’interpretazione della concreta volontà manifestata dalle parti, non trovi la fonte della sua obbligatorietà nè in redditi sostituiti, nè nel risarcimento di danni consistenti nella perdita di redditi futuri, cioè successivi alla cessazione od all’interruzione del rapporto di lavoro”. Nel caso, allora al suo esame, la Corte, nell’affermare tali principi, ebbe a confermare la sentenza della Commissione Tributaria regionale che aveva riconosciuto il diritto al rimborso dell’IRPEF ad un lavoratore per una somma erogatagli dal datore di lavoro, a seguito di transazione giudiziale, a titolo di danno morale e di danno all’immagine derivanti dalle particolari modalità con le quali era stato svolto e poi interrotto il rapporto di lavoro, trattandosi di ristoro di danno emergente relativo alla integrità psicofisica del lavoratore e alla sua reputazione professionale. In estrema sintesi può, quindi, affermarsi che sono esclusi dalla tassazione di cui al citato art.6 quegli importi che il lavoratore percepisca a titolo di ristoro del danno emergente e non anche tutti gli indennizzi, originati dal rapporto di lavoro, volti a ristorare un lucro cessante.

3. Così inquadrato e interpretato il sistema normativo di riferimento (come posto a base del ricorso anche dalla stessa Agenzia delle Entrate) il punto controverso rimane la natura, o meglio il titolo giuridico, degli importi, percepiti dalle odierne controricorrenti, in virtù di sentenze del Tribunale del lavoro che hanno loro riconosciuto la spettanza di una somma, parametrata alla misura di alcune mensilità di retribuzione, per il danno subito a causa della mancata conversione degli illegittimi rapporti di lavoro a tempo determinato in rapporto a tempo indeterminato, stante il divieto legale di cui al D.Lgs. n. 165 del 2011, art. 36 ritenendo la ricorrente trattarsi di indennizzi aventi origine o, comunque, causa nei rapporti di lavoro a tempo determinato e non avendo, in ogni caso, i lavoratori provato, come da loro onere, di avere chiesto e ottenuto il risarcimento di danni ulteriori e diversi rispetto a quelli patrimoniali consistenti nel mancato guadagno, anche futuro, derivante dalla mancata stipula di un contratto di lavoro a tempo (in)determinato.

3.1. Soccorrono, in materia, le Sezioni Unite di questa Corte le quali, con la sentenza n.5072 del 15 marzo 2016, hanno affermato il seguente principio di diritto: “In materia di pubblico impiego privatizzato, il danno risarcibile di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, comma 5, non deriva dalla mancata conversione del rapporto, legittimamente esclusa sia secondo i parametri costituzionali che per quelli Europei, bensì dalla prestazione in violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori da parte della P.A., ed è configurabile come perdita di “chance” di un’occupazione alternativa migliore, con onere della prova a carico del lavoratore, ai sensi dell’art. 1223 c.c.”.

In particolare la Corte, a Sezioni Unite, ha chiarito che il danno risarcibile D.Lgs. n. 165 del 2001, ex art. 36, comma 5, non è un danno da mancata conversione del rapporto di lavoro e, quindi, da perdita del posto di lavoro ma è altro, ovvero nell’evenienza ordinaria è la perdita di chance risarcibile come danno patrimoniale nella misura in cui l’illegittimo (soprattutto se prolungato) impiego a termine abbia fatto perdere al lavoratore altre occasioni di lavoro stabile. Ciò posto, le Sezioni Unite, sempre nella stessa pronuncia – nel fornire un’interpretazione adeguatrice orientata alla conformità costituzionale della normativa ordinaria e qualificato tale canone di danno presunto come danno comunitario – hanno, quindi, affermato l’ulteriore principio per cui “nel regime del lavoro pubblico contrattualizzato in caso di abuso del ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato da parte di una pubblica amministrazione il dipendente, che abbia subito la illegittima precarizzazione del rapporto di impiego, ha diritto fermo restando il divieto di trasformazione del contratto a tempo determinato a tempo indeterminato posto dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36,comma 5, al risarcimento del danno previsto dalla medesima disposizione, con esonero dell’onere probatorio, nella misura e nei limiti di cui alla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, comma 5.

3.2. Attribuita, pertanto, all’importo corrisposto alle odierne controricorrenti, in virtù dei superiori principi, natura risarcitoria da perdita di chance (ovvero di risarcimento di danno comunitario) estranea ai rapporti di lavoro posti in essere nella legittima impossibilità di procedere alla loro conversione, la soluzione non può che essere favorevole ai contribuenti, dovendosi rilevare, da un canto, che, nel caso in specie, non può neppure porsi un problema in ordine all’onere probatorio posto a carico del lavoratore (come eccepito dalla ricorrente) in quanto tale onere è già stato ritenuto assolto dal Giudice del lavoro nelle sentenze in cui ha riconosciuto la sussistenza del danno, e dall’altro, non potendosi revocare in dubbio che le somme riconosciute dal Giudice del lavoro siano destinate a risarcire un danno emergente, a nulla rilevando il diverso “tipo normativo” di parametro utilizzato, da quel Giudice, al fine della concreta quantificazione.

3.3. La giurisprudenza di questa Corte è, infatti, da tempo ferma nel ritenere che la perdita di chance, consistente nella privazione della possibilità di sviluppi e progressioni nell’attività lavorativa costituisca danno patrimoniale risarcibile, sotto forma di danno emergente, qualora sussista un pregiudizio certo (anche se non nel suo ammontare) da perdita di una possibilità attuale (v. Cass. n. 11322 del 21 luglio 2003; id. n. 12243 del 25 maggio 2007, in termini Cass. n. 19604 del 30 settembre 2016).

4. Conclusivamente, alla luce di tutte le considerazioni sin qui svolte e richiamata la normativa di riferimento come sopra illustrata, va affermato che gli importi riconosciuti dal Giudice del lavoro quale risarcimento del danno D.Lgs. n. 165 del 2001, ex art. 36, comma 5, non sono assoggettabili a tassazione D.P.R. n. 917 del 1986, ex art. 6, comma 1.

5. Ne consegue il rigetto del ricorso con compensazione integrale tra le parti delle spese di questo giudizio, attese la novità e peculiarietà delle questioni trattate.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Compensa integralmente tra le parti le spese processuali.

Così deciso in Roma, il 11 luglio 2018.

Depositato in Cancelleria il 12 ottobre 2018

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