LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BRUSCHETTA Ernestino – Presidente –
Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –
Dott. CATALLOZZI Paolo – Consigliere –
Dott. TRISCARI G. – rel. Consigliere –
Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO DI NOCERA Maria G. – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 26866 del ruolo generale dell’anno 2011 proposto da:
Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici ha domicilio in Roma, Via dei Portoghesi, n. 12;
– ricorrente –
contro
TCT s.r.l., in liquidazione, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, per procura a margine del controricorso, dall’Avv. Angelo Scala, elettivamente domiciliata in Roma, via G. Avezzana, n. 51, presso lo studio dell’Avv. Alessandra La Via;
– controricorrente e ricorrente incidentale –
e ne confronti di:
Equitalia Polis spa, in persona del legale rappresentante pro tempore;
– intimata –
per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania n. 144/32/11, depositata il giorno 15 aprile 2011;
udita la relazione svolta nella camera di consiglio del giorno 9 aprile 2018 dal Consigliere Giancarlo Triscari.
RILEVATO
che:
la sentenza impugnata ha esposto, in punto di fatto, che: la società contribuente aveva impugnato dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Napoli l’avviso di accertamento con il quale l’Agenzia delle entrate aveva rettificato la dichiarazione Iva relativa all’anno di imposta 2003, recuperando l’importo di Euro 24.861,00, essendo risultata dal p.v.c. redatto dalla Guardia di Finanza l’inesistenza delle operazioni commerciali; l’impugnazione era stata proposta per difetto di motivazione dell’atto impugnato e per erronea valutazione dei fatti; la Commissione tributaria provinciale aveva accolto il ricorso, avendo ritenuto fondati i motivi; l’Agenzia delle entrate aveva proposto appello ed era stato instaurato il contraddittorio con la contribuente;
la Commissione tributaria regionale della Campania ha rigettato l’appello, confermando la decisione del giudice di primo grado, avendo ritenuto che l’avviso di accertamento impugnato era illegittimo in quanto la motivazione del suddetto atto impositivo non indicava specificamente il criterio utilizzato, in quanto fondato unicamente sui rilievi mossi in sede di p.v.c. che aveva, erroneamente, ricostruito gli eventi, tenuto conto che la società contribuente aveva dimostrato la propria esistenza mediante la produzione delle dichiarazioni dei redditi relativi agli anni di imposta 2000, 2001 e 2002 e documentato che la stessa: in data 17 novembre 2003, era stata messa in liquidazione; nel 2001 aveva spostato la propria sede legale da *****; aveva versato la garanzia fideiussoria di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 38-bis; aveva provato l’esistenza del credito mediante la richiesta di cui al modello VR2004;
l’Agenzia delle entrate ricorre con quattro motivi per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania in epigrafe;
si è costituita la società contribuente con controricorso contenente ricorso incidentale;
non si è costituita Equitalia Polis spa, sebbene regolarmente intimata.
CONSIDERATO
che:
preliminarmente, deve essere disattesa l’eccezione di parte controricorrente di inammissibilità del ricorso per violazione del requisito dell’autosufficienza, fondata sulla considerazione che parte ricorrente non avrebbe specificato le vicende successive alla notifica dell’atto di accertamento, in particolare il contenuto delle impugnazioni, delle conseguenti sentenze e degli atti di causa, ed i motivi di ricorso, inoltre, sarebbero esposti in maniera tale da rendere difficile definire i limiti dei medesimi;
in realtà, nell’esposizione del fatto e dello svolgimento del processo del ricorso principale è chiaramente indicato quale sia l’oggetto della controversia, riportandosi specificamente il contenuto dell’atto di accertamento, la conseguente contestazione della contribuente, il passaggio motivazionale della pronuncia di primo grado, su cui si è poi fondato anche il giudice di appello, relativo alla mancanza di motivazione dell’atto impugnato, i motivi di appello (indicati per sintesi) proposti dall’Agenzia delle entrate, i punti essenziali della pronuncia del giudice del gravame;
si tratta, a ben vedere, di elementi dai quali è possibile avere un chiaro quadro ricostruttivo dell’intera vicenda in esame, sia con riferimento alle ragioni della pretesa che ai diversi passaggi processuali, non ravvisandovi, quindi, una violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3), che richiede una esposizione sommaria dei fatti idonei a far comprendere, in sede di giudizio di legittimità, le conseguenti ragioni di censura;
con il primo motivo di ricorso si censura, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), la sentenza impugnata per insufficiente motivazione sulla questione della non idoneità della motivazione dell’atto di impugnato ad indicare gli elementi concreti su cui l’Agenzia delle entrate aveva fondato la pretesa;
il motivo è fondato;
la ricorrente ritiene che l’atto impugnato aveva chiaramente indicato, mediante il rinvio per relationem al p.v.c., diversi elementi non tenuti in considerazione dal giudice di appello, quali: il fatto che la società era rappresentata da persona non competente o inconsapevole del proprio ruolo, che, al tempo stesso, era rappresentante di altra società con cui la contribuente intratteneva reciproci rapporti; che nella sede legale della società e di altra società gemella (in *****) non era stata rinvenuta alcuna struttura aziendale; il libro dei cespiti ammortizzabili era in bianco, sicchè doveva farsi conseguire che la società non disponeva di beni strumentali per svolgere l’attività dichiarata;
va osservato che la controversia in esame ha ad oggetto la legittimità della pretesa dell’Agenzia delle entrate al recupero dell’Iva detratta dalla società contribuente per l’anno di imposta 2003 in base alla ritenuta inesistenza delle operazioni commerciali, per le quali è stata detratta l’Iva, attesa la ritenuta natura fittizia della società;
quindi, punto centrale della questione era l’accertamento della inesistenza della società in relazione ai diversi elementi presuntivi indicati nell’atto di accertamento;
la motivazione della sentenza censurata ha preso in esame la ricostruzione fattuale compiuta nel p.v.c. su cui si è fondata la pretesa dell’Agenzia delle entrate ed ha concluso che essa debba considerarsi errata, avendo la società contribuente dato prova di essere esistente e, quindi, non corretta la tesi della natura fittizia della medesima, ma il percorso argomentativo seguito risulta fondato unicamente su profili di ordine formale, quale la circostanza che la contribuente aveva provveduto a redigere le dichiarazioni dei redditi per gli anni di imposta 2000, 2001 e 2002, che era stata posta in liquidazione, che era stata spostata la sede legale da ***** in *****, che aveva versato la garanzia fideiussoria a seguito della cessazione dell’attività ed aveva, infine, formulato la richiesta di rimborso con il modello VR 2004;
la censura del vizio motivazionale della pronuncia in esame si fonda sulla ritenuta non sufficienza della motivazione, non avendo il giudice di appello tenuto conto di una serie di elementi che, ove considerati, avrebbero potuto condurre a una diversa valutazione, in particolare: che il rappresentante legale della società non aveva consapevolezza del proprio ruolo ed era, al tempo stesso, rappresentante di altra società con la quale sussistevano reciproci rapporti; che nella sede legale della società e di altra società non era stata ritrovata alcuna struttura aziendale; che il libro dei cespiti ammortizzabili era in bianco;
va premesso che il giudice tributario di merito, investito della controversia sulla legittimità e fondatezza dell’atto impositivo, è tenuto a valutare, singolarmente e complessivamente, gli elementi presuntivi forniti dall’Amministrazione, dando atto in motivazione dei risultati del proprio giudizio. Tale valutazione è impugnabile in cassazione non per il merito, ma solo per l’inadeguatezza o incongruità logica dei motivi che lo sorreggono, e solo in un secondo momento, qualora ritenga tali elementi dotati dei caratteri di gravità, precisione e concordanza, deve dare ingresso alla valutazione della prova contraria offerta dal contribuente, che ne è onerato ai sensi dell’art. 2727 c.c. e segg. e art. 2697 c.c., comma 2 (Cass. n. 9784 del 2010; Cass. n. 4306 del 2010);
nella fattispecie, il giudice di appello ha motivato, come detto, unicamente sulla base di considerazioni formali, dunque in modo non adeguato rispetto ai termini della vicenda, senza tenere in considerazione i diversi elementi prospettati dall’Agenzia delle entrate che, al di là del profilo formale, erano invece diretti ad accertare l’inesistenza sostanziale della società, cioè il fatto che la stessa non fosse soggetto passivo ai fini Iva e, in quanto tale, titolare del diritto a porre in detrazione l’Iva;
gli elementi prospettati dalla ricorrente, invero, potrebbero assumere valenza decisiva proprio nella prospettiva della verifica della non esistenza sostanziale della società;
va osservato, in particolare, che non può assumere rilievo la linea difensiva di parte controricorrente in ordine alle ragioni del rinvenimento della redazione in bianco del libro dei cespiti ammortizzabili, posto che tale profilo, unitamente agli altri elementi, ove complessivamente esaminati, potrebbe condurre ad una valutazione di mancanza di adeguati beni strumentali ai fini dello svolgimento dell’attività, e tenendo peraltro in considerazione che, sul punto, la stessa contribuente ha, nel controricorso, meramente argomentato che è probabile che avesse già alienato interamente i propri beni ammortizzabili, posto che tale profilo costituisce, invero, elemento presuntivo che impone, alla parte nei confronti della quale è stato prospettato, l’onere di fornire la prova contraria, non riscontrabile;
con il secondo motivo, si censura la sentenza impugnata per omessa pronuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), per violazione degli artt. 112 e 132 c.p.c., per non avere pronunciato sul motivo di appello con il quale si era evidenziato che la pretesa trovava fondamento sul fatto che la contribuente era una società fittizia che aveva posto in essere operazioni inesistenti;
il motivo è infondato;
dinanzi alla prospettazione della pretesa dell’Agenzia delle entrate di procedere al recupero dell’Iva in base alla contestazione della inesistenza della società, la pronuncia impugnata ha motivato sulle ragioni per le quali ha, invece, ritenuto che la società contribuente fosse soggetto Iva che, correttamente, ha provveduto a detrarre l’Iva sulle operazioni commerciali eseguite;
in tal modo, la pronuncia ha escluso che la contribuente fosse una società fittizia, avendone ritenuta provata l’esistenza;
va evidenziato, sotto tale profilo, che la contestazione dell’Agenzia delle entrate muove proprio dalla considerazione che le operazioni commerciali non sarebbe state poste in essere in quanto la società esisteva solo fittiziamente, non avendo dedotto su altri elementi di prova, anche presuntivi, relativi alla insussistenza delle operazioni commerciali in esame;
sicchè, la stretta connessione, operata dall’Agenzia delle entrate, tra inesistenza della società – inesistenza delle operazioni commerciali, ha indotto il giudice di appello a verificare la correttezza della pretesa e, in particolare, se gli elementi addotti potevano condurre a ritenere non esistenti le operazioni commerciali;
rispetto, quindi, a quanto dedotto dalla parte ricorrente, diretta a sostenere la legittimità della propria pretesa, il giudice di appello ha ritenuto non sussistente il presupposto sul quale è stata fondata la pretesa, cioè il fatto che la società contribuente non fosse soggetto esistente e non fosse, quindi, soggetto passivo Iva che poteva legittimamente detrarre l’Iva;
pertanto, una volta escluso il presupposto della pretesa, non può ragionarsi in termini di mancata pronuncia su quanto richiesto con l’atto di appello, avendo il giudice di appello dato compiuta risposta alle ragioni in esso prospettate;
con il terzo motivo si censura la sentenza impugnata per insufficiente motivazione su fatti controversi e decisivi per il giudizio in relazione ai requisiti necessari per la legittimità del rimborso, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), dovendo il giudice di appello non solo pronunciare sulla formale esistenza della società, ma anche sulla effettiva attività esercitata e, in particolare, sulla effettiva realizzazione delle operazioni;
con il quarto motivo si censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione dell’art. 2967 c.c., e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 30 e art. 54, comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), avendo la ricorrente assolto al proprio onere probatorio relativo alla fittizietà delle operazioni e non avendo, invece, la società contribuente offerto alcuna prova delle effettività delle operazioni;
le considerazioni espresse in sede di esame del primo motivo di ricorso devono essere richiamate anche al fine di pronunciare la fondatezza dei presenti motivi di ricorso, atteso che, come chiarito, il giudice di appello non ha espresso alcuna valutazione in ordine ai diversi elementi presuntivi diretti all’accertamento della effettiva esistenza della società prospettati dall’ufficio finanziario, ma ha solo tenuto conto di profili formali, di per sè non sufficienti, e non ha valutato se la contribuente, al di là dei meri riscontri formali, ha fornito prova contraria tesa a contrastare gli elementi presuntivi proposti;
va precisato, per completezza, che, in relazione al profilo del riparto dell’onere probatorio in caso di contestazione di operazioni soggettivamente e oggettivamente inesistenti, secondo la giurisprudenza di questa Corte Suprema (Cass. civ., sez. 5, 28 marzo 2018, n. 7613) in tema di fatture relative ad operazioni oggettivamente o soggettivamente inesistenti, il giudizio negativo sulla prova contraria implica pur sempre la preventiva valutazione, da parte del giudice tributario, sulla idoneità degli elementi offerti dal Fisco a suffragio della contestazione;
nella fattispecie, il giudice di appello ha escluso che l’agenzia delle entrate abbia sufficientemente assolto al proprio onere probatorio di allegare idonei elementi, anche presuntivi, in ordine alla ritenuta fittizietà dell’esistenza della società contribuente, ma senza avere adeguatamente posti a valutazioni i medesimi, diretti a sostenere la pretesa della inesistenza sostanziale della società;
il ricorso principale, pertanto, deve essere accolto relativamente ai motivi primo, terzo e quarto, con cassazione della sentenza e rinvio alla Commissione tributaria regionale per nuovo esame;
con riferimento al ricorso incidentale, va osservato che la controricorrente censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione dell’art. 92 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per avere pronunciato la compensazione delle spese nonostante la totale soccombenza dell’appellante;
il motivo in esame è da dichiararsi assorbito dall’accoglimento del ricorso principale.
PQM
La Corte:
accoglie il primo, terzo e quarto motivo di ricorso principale, rigettato il secondo, assorbito il ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Campania, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese di lite del presente grado di giudizio.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione quinta civile, il 9 aprile 2018.
Depositato in Cancelleria il 12 ottobre 2018
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