LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. STALLA Giacomo Maria – Presidente –
Dott. ESPOSITO Lucia – Consigliere –
Dott. BALSAMO Milena – Consigliere –
Dott. MONDINI Antonio – Consigliere –
Dott. PENTA Andrea – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 1682-2011 proposto da:
AGENZIA DELLE ENTRATE, (C.F.: *****), in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato (C.F.: *****), nei cui uffici domicilia in Roma, alla via dei Portoghesi n. 12;
– ricorrente –
contro
T.A.M., nata a ***** (C.F.: *****), residente in *****, rappresentata e difesa, in virtù di procura a margine del controricorso, anche disgiuntamente, dagli Avv.ti Oreste Cantillo (C.F.: CNTRST65D14H703S) e Guglielmo Cantillo (C.F.:
CNTGLL75A01H703D), presso il cui studio in Roma, alla via Ovidio n. 32, è elettivamente domiciliata;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 468/2009 emessa dalla CTR di Napoli, sez. st.
di Salerno, in data 22/12/2009 e non notificata;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 22/06/2018 dal Consigliere Dott. Andrea Penta.
RITENUTO IN FATTO
L’Agenzia delle Entrate di Pagani, sulla base dell’atto per notar T. P. dell’8/11/1999 di cessione di una farmacia, in *****, al prezzo complessivo di Lire 850.000.000, delle quali Lire 350.000.000 dichiarate a titolo di avviamento e le restanti Lire 500.000.00 per merce in magazzino e beni strumentali, considerata plusvalenza tassabile il corrispettivo parziale della cessione di Lire 500.000.000 attribuita ad elementi rimasti intederminati, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 e art. 39, comma 1, accertava il maggior reddito d’impresa derivante dalla cessione d’azienda di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 54 di Lire 500.000.000 e, conseguentemente, determinava, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 41 bis, il reddito complessivo di Lire 726.546.000 ai fini dell’IRPEF con relative imposte e sanzioni.
Con decisione n. 50 del 19/03/2008 la Commissione Tributaria Provinciale di Salerno rigettava il ricorso proposto da T.A.M. avverso l’avviso di accertamento IRPEF relativo all’anno 1999.
T.A.M. proponeva appello avverso la menzionata decisione, chiedendo, in riforma della stessa, l’annullamento dell’atto fiscale impugnato.
A sostegno dei motivi deduceva:
a) l’assoluta carenza di motivazione dell’impugnata sentenza in riferimento alla L. n. 212 del 2000, art. 7;
b) la mancata valutazione delle merci e dei beni strumentali alla data dell’8/11/1999, a suo dire esistenti per il valore complessivo di Lire 722.000.000 e ridotti a Lire 500.000.000 solo per poter concludere velocemente la vendita;
c) l’illogicità del valore attribuito all’avviamento anche in riferimento ai criteri dettati dal D.P.R. n. 460 del 1996.
Resisteva, con proprie controdeduzioni, l’Agenzia delle Entrate di Pagani, concludendo per il rigetto dell’appello.
Con sentenza del 22.12.2009, la CTR di Napoli, sez. st. di Salerno, accoglieva l’appello, sulla base delle seguenti considerazioni:
1) non avrebbe potuto l’Ufficio, sulla base della documentazione prodotta dalla contribuente, non tener conto dell’esistenza e dei costi delle merci e dei beni strumentali, indipendentemente dal valore forfettario attribuito dalle parti nell’atto di cessione e, quindi, nella determinazione del valore dell’avviamento, considerare quale plusvalenza tassabile il corrispettivo attribuito a tali valori alla data delle cessione;
2) pertanto, anche sulla base dei parametri di riferimento dettati dal D.P.R. n. 460 del 1996, poteva ritenersi congruo il valore dell’avviamento dichiarato dalla contribuente, quale risultante dalla media dei valori tra Lire 470.715.000 e Lire 313.813.000.
Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso l’Agenzia delle Entrate, sulla base di due motivi. T.A.M. ha resistito con controricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Con il primo motivo la ricorrente deduce la insufficienza ed illogicità della motivazione (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), per non aver la CTR indicato la documentazione che l’Ufficio finanziario avrebbe dovuto considerare e per aver, comunque, valorizzato, ai fini della plusvalenza, documentazione prodotta dalla contribuente attestante la quantità di merci presente in magazzino alla data del 31.12.1999 (per un valore complessivo di lire 722.710.830), anzichè a quella (8.11.1999) della cessione della farmacia, viepiù se si considerava che, accedendo all’opposta tesi, il valore dell’avviamento sarebbe diventato incongruo e che la contribuente, in sede di verifica precontenziosa, non aveva formulato contestazioni avverso la ricostruzione dell’Ufficio.
1.1. Il motivo è infondato.
In primo luogo, è evidente che, pur non avendo la CTR indicato con precisione a quale documentazione (non presa in considerazione dall’Ufficio) prodotta dalla contribuente intendesse riferirsi, l’Agenzia l’abbia facilmente individuata (quella prodotta in primo grado, dalla quale si sarebbe potuto evincere, a dire della contribuente, che le merci presenti in magazzino, alla data della cessione, avevano un valore di Lire 722.710.830), a tal punto da impostare l’intero motivo in esame sulla sua inidoneità sul piano probatorio.
In secondo luogo, per quanto, in violazione del principio di specificità, la ricorrente abbia omesso di trascrivere, almeno nei suoi passaggi maggiormente significativi, la detta documentazione, si desume che, alla stregua di una ricostruzione (cfr. pag. 28 del ricorso: “attraverso i propri conteggi”) a ritroso sulla stessa fondata, la T. ha indicato nel valore di Lire 722.710.830 la merce presente in magazzino alla data della cessione della farmacia (cfr. pag. 28 del ricorso: “alla data della cessione”), e non già (come, invece, sostenuto dalla ricorrente) a quella, successiva, del 31.12.1999.
Il corollario ricavato dalla odierna ricorrente da tale ricostruzione, secondo cui, considerando il corrispettivo effettivamente percepito di Lire 850.000.000 ed il valore predetto della merce (in luogo di quello di Lire 500.000.000 indicato nell’atto di cessione), il valore dell’avviamento sarebbe stato pari, per differenza, a Lire 128.000.000 e, dunque, del tutto incongruo, è all’evidenza, già sul piano logico, errato. Invero, premesso che il valore delle merci e dei beni strumentali era stato indicato nel contratto nella minor misura di Lire 500.000.000 al solo fine di favorire una rapida conclusione della vendita (cfr. pag. 3 della sentenza in questa sede impugnata), è chiaro che, in presenza di un maggior valore della merce, non si sarebbe, per l’effetto, ridotto quello dell’avviamento, bensì sarebbe semmai aumentato il corrispettivo complessivo dovuto dall’acquirente (il quale sarebbe assurto al maggior importo di Lire 1.072.710.830).
Da ultimo, se è vero, in linea di principio, che, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, la partecipazione del contribuente alle operazioni di verifica senza contestazioni, pur in mancanza di un’approvazione espressa, equivale sostanzialmente ad accettazione delle operazioni stesse e dei loro risultati, attesi la facoltà e l’onere di formulare immediatamente il proprio dissenso (cfr. Sez. 5, Sentenza n. 15851 del 29/07/2016), è altrettanto vero che la ricorrente, non essendovi cenno della questione nella sentenza impugnata, avrebbe dovuto indicare con precisione con quale atto e in quale fase processuale l’avesse sollevata.
2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia l’illogicità della motivazione (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), per aver la CTR ritenuto congruo il valore dell’avviamento dichiarato dalla contribuente sulla base di una normativa (il D.P.R. n. 460 del 1996) ormai abrogata e della media di due valori apoditticamente indicati.
2.1. Il motivo è infondato.
Rappresenta ormai un principio consolidato quello per cui, in tema di determinazione della base imponibile dell’imposta, il valore dell’avviamento, costituente qualità dell’azienda, in presenza di metodi tecnici diversi di valutazione, costituisce l’oggetto di un giudizio di fatto rimesso al prudente apprezzamento del giudice di merito ed immune da sindacato di legittimità se adeguatamente motivato (Sez. 5, Sentenza n. 2204 del 01/02/2006; conf. Sez. 5, Sentenza n. 9075 del 06/05/2015). Rientrando, quindi, la valutazione dell’entità dell’avviamento di un’azienda nei generali poteri conferiti al giudice dagli artt. 115 e 116 c.p.c., la relativa pronuncia, rimessa alla sua prudente discrezionalità, è suscettibile di controllo, in sede di legittimità, soltanto sotto il profilo della carenza o inadeguatezza della corrispondente motivazione (Sez. 5, Sentenza n. 11354 del 03/09/2001; Sez. 1, Sentenza n. 9670 del 24/07/2000).
La CTR ha indicato con precisione il criterio seguito, individuandolo nel D.P.R. n. 460 del 1996 riferito all’accertamento con adesione.
Orbene, i due valori estremi presi in considerazione dalla CTR (Lire 470.715.000 e Lire 313.813.000) corrispondono (cfr. pag. 17 del ricorso) ai valori di mercato dell’avviamento di una farmacia sulla base dei parametri offerti dal D.P.R. n. 460 del 1996, applicando, rispettivamente, il moltiplicatore “3” e quello “2” (quest’ultimo tenendo conto dell’età – 72 anni – e delle precarie condizioni di salute della T.).
In quest’ottica, trattandosi, in ogni caso (cioè ad onta dell’abrogazione del D.P.R. citato), di criteri di riferimento idonei, dal punto di vista contabile, ad apprezzare il congruo valore economico di scambio dell’azienda, non trova fondamento la censura sul piano dell’asserita illogicità della motivazione, per quanto stringata, viepiù se si considera che la ricorrente non ha neppure indicato, se non in termini estremamente generici, la differente modalità con la quale si sarebbe, a suo dire, dovuto quantificare il valore in esame (cfr. pag. 33 del ricorso).
Invero, il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione denunciabile con ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, si configura solo quando nel ragionamento del giudice di merito sia riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico – giuridico posto a base della decisione. Questi vizi non possono consistere nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte, spettando solo a detto giudice individuare le fonti del proprio convincimento, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova. L’art. 360, n. 5 non conferisce, infatti, alla Corte di Cassazione il potere di riesaminare e valutare autonomamente il merito della causa, bensì solo quello di controllare, sotto il profilo logico e formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione compiuti dal giudice del merito, cui è riservato l’apprezzamento dei fatti. Ne deriva, pertanto, che alla cassazione della sentenza, per vizi della motivazione, si può giungere solo quando tale vizio emerga dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito, quale risulta dalla sentenza, che si rilevi incompleto, incoerente e illogico, e non già quando il giudice del merito abbia semplicemente attribuito agli elementi valutati un valore e un significato difformi dalle aspettative e dalle deduzioni di parte (Sez. 3, Sentenza n. 2222 del 14/02/2003; Sez. L, Sentenza n. 15489 del 11/07/2007; Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 91 del 07/01/2014).
La valutazione, poi, del giudice di merito di reputare congrua la media tra i predetti valori è incensurabile nella presente sede di legittimità.
3. In definitiva, il ricorso deve essere rigettato.
Le spese della presente fase di giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
Il contributo unificato ha natura tributaria e tale natura conserva anche relativamente al raddoppio previsto dal citato L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 che ha introdotto il comma 1-quater al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13 atteso che la finalità deflattiva e sanzionatoria della nuova norma non vale a modificarne la sostanziale natura di tributo. Relativamente ai giudizi in cui sia soccombente la P.A., è principio generale dell’assetto tributario che lo Stato e le altre amministrazioni parificate non sono tenute a versare imposte o tasse che gravano sul processo per la evidente ragione che lo Stato verrebbe ad essere al tempo stesso debitore e creditore di sè stesso con la conseguenza che l’obbligo non sorge. Di conseguenza, in tale particolare ipotesi, nel provvedimento giurisdizionale non deve darsi atto della sussistenza dei presupposti di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, primo periodo, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, per i casi di impugnazione respinta integralmente o dichiarata inammissibile o improcedibile (Cass. civ., Sez. Un., sentenza 8 maggio 2014 n. 9938; conf. Sez. 6 – L, Ordinanza n. 1778 del 29/01/2016).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso, in favore della resistente, delle spese della presente fase di giudizio, che liquida in complessivi Euro 7.800,00, oltre rimborso del 15% per spese forfettarie ed accessori di legge.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 5^ Sezione civile della Corte suprema di Cassazione, il 22 giugno 2018.
Depositato in Cancelleria il 12 ottobre 2018