Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Ordinanza n.25529 del 12/10/2018

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –

Dott. CURCIO Laura – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 3477-2013 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., C.F. *****, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA VIALE MAZZINI 134, presso lo studio dell’avvocato LUIGI FIORILLO, che la rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

S.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA RENO 21, presso lo studio dell’avvocato ROBERTO RIZZO, che lo rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– controricorrente –

e contro

JUST ON BUSINESS, già INWORK ITALIA S.P.A.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 6372/2011 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 23/01/2012 R.G.N. 80/2009.

LA CORTE, esaminati gli atti e sentito il consigliere relatore:

RILEVATO

che:

con sentenza n. 6372 in data 22 settembre 2011 / 23 gennaio 2012 la Corte di Appello di Roma, in accoglimento dell’impugnazione incidentale proposta da S.M., respinta quella principale di POSTE ITALIANE S.p.a., riformava soltanto in parte la gravata pronuncia n. 20056 del 2008, emessa dal locale giudice del lavoro, con la quale era stata accolta la domanda del S., di cui all’atto introduttivo del giudizio in data 14-06-2006, dichiarando l’esistenza tra l’attore e la convenuta società POSTE ITALIANE l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, con conseguente obbligo di riammissione in servizio di parte istante, poichè non risultava provata dalla società appellante l’effettiva sussistenza delle causali dedotte al fine di giustificare il ricorso all’utilizzazione temporanea del lavoratore (dapprima con mansioni di portalettere ed in seguito di addetto alla sportelleria), di modo che in sede di gravame POSTE ITALIANE veniva altresì condannata al risarcimento del danno in favore del S. in misura pari alle retribuzioni maturate dalla costituzione in mora del 16 febbraio 2005 sino al 31 maggio 2007, oltre accessori e con vittoria delle ulteriori spese di lite, esclusa nella specie la possibilità di applicare l’indennizzo di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32;

andava in parte integrata la motivazione della appellata sentenza in base alle previsioni della L. n. 196 del 1997, nella specie ratione temporis applicabile, tenuto contro inoltre del fatto che il lavoratore aveva specificamente contestato anche l’effettiva sussistenza delle ragioni addotte dalla società POSTE ITALIANE per far ricorso alla fornitura di lavoro temporaneo e per cui il giudice adito aveva conformemente ritenuto che detta società non avesse fornito adeguata dimostrazione in ordine alla sussistenza delle invocate ragioni di carattere produttivo, organizzativo e sostitutivo neppure in base alla documentazione all’uopo prodotta dalla utilizzatrice. Tale onere probatorio non era stato assolto da POSTE ITALIANE, la quale neppure in sede giudiziale aveva chiarito quali fossero state le ragioni che avevano determinato l’utilizzazione dell’appellato mediante contratto di lavoro interinale, nè a maggior ragione aveva provato la loro sussistenza e riconducibilità alle ipotesi in cui il ricorso a tale fattispecie fosse consentito, avuto riguardo innanzitutto alla discrasia tra il contratto di fornitura e quello di prestazione di lavoro temporaneo, visto che mentre il primo indicava come causale “esigenze di carattere temporaneo nei limiti previsti dalla L. n. 196 del 1997, art. 1, comma 2, casi previsti dal c.c.n.l.”, la causale del contratto di prestazione di lavoro temporaneo aveva individuato la stessa nelle “punte di più intensa attività – casi previsti dal c.c.n.l.”. In realtà, a fronte dell’effettiva incolmabile discrasia tra le due motivazioni, sussisteva una impossibilità oggettiva di provare quale fosse la causa dell’assunzione e del contratto di fornitura, con conseguente applicazione del principio dell’onere della prova a carico dell’impresa utilizzatrice per dimostrare che il ricorso alla fornitura di lavoro interinale fosse avvenuto nei casi consentiti. Corretta, quindi, risultava in ogni caso l’esclusione dell’ammissione della prova per testi, richiesta da POSTE ITALIANE;

avverso l’anzidetta pronuncia di appello ha proposto ricorso per cassazione la società POSTE ITALIANE con sette motivi di cui all’atto notificato come da richiesta in data 22 gennaio 2013, al quale ha resistito S.M. mediante controricorso del 28 febbraio – primo marzo 2013.

JUST ON BUSINESS – già Inwork Italia S.p.a. è rimasta intimata;

memorie illustrative sono state depositate per la ricorrente ed il controricorrente, mentre non risulta depositata alcuna requisitoria dal P.M. in sede.

CONSIDERATO

che:

I motivi del ricorso possono sintetizzarsi nei seguenti termini:

1^ motivo, ex art. 360 c.p.c., n. 4 – violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione alla suddetta discrasia rilevata dalla Corte d’Appello in relazione alla disconosciuta tra la causale apposta al contratto di fornitura e quella invece indicata nei contratti individuali di lavoro temporaneo in questione, questione che risultava totalmente estranea al thema decidendum, ma sulla quale risultava fondata la decisione impugnata, laddove non era stata esaminata la documentazione versata in atti dalla società, la cui disamina era stata anche sollecitata con il primo motivo del gravame interposto dalla società, inerente ad errata valutazione dei prospetti prodotti in giudizio evidenzianti risultanze probatorie opposte a quelle considerate dal giudice di prime cure (soprattutto in relazione al periodo tre novembre 2003 – 31 maggio 2004 dalla prodotta documentazione si evinceva il fatto che presso l’Ufficio di ***** si erano verificate le assenze dei dipendenti nominativamente indicati, ivi in pianta stabile, che avevano reso necessaria l’assunzione del S. con il contratto di lavoro interinale). Per contro, dalle difese della controparte non era dato rinvenire alcun profilo di illegittimità dei contratti de quibus, denunciato dalla difesa avversaria e riconducibile alla pretesa discrasia, invece ipotizzata dal collegio giudicante, con conseguente vizio di ultra petizione, poichè la Corte capitolina si era pronunciata, di ufficio, su di una questione, però non richiesta dalle parti;

2^ motivo ex art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 116, 416 e 420 cit. codice di rito nonchè dell’art. 2697 c.c., poichè dalle argomentazioni svolte dalla Corte d’Appello si evinceva che la decisione adottata non si era basata sulle deduzioni e sulle allegazioni fornite dalla società con la memoria difensiva ex artt. 416 o in sede di appello, ovvero sulle risultanze istruttorie e documentali acquisite, da cui emergevano esigenze sostitutive di personale con diritto alla conservazione del posto, indicate specificamente per ciascuno degli uffici cui il S. era stato assegnato. Alla luce di tali difese il primo giudicante aveva ammesso la richiesta prova testimoniale ed autorizzato altresì il deposito di ulteriore documentazione inerente alle assenze del personale di ruolo, donde la dimostrazione dell’utilizzazione del S. per i periodi contrattuali di riferimento al fine di sostituire personale assente con diritto alla conservazione del posto di lavoro. La Corte d’Appello, quindi, aveva sorvolato sulle evidenze istruttorie sulle quali la Società aveva articolato il primo specifico mezzo d’impugnazione. In definitiva la Corte distrettuale nel respingere l’appello aveva reso una motivazione incoerente rispetto alle allegazioni ed ai documenti acquisiti, quindi inidonea a chiarire le reali ragioni del ritenuto mancato assolvimento dell’onere probatorio da parte datoriale. La mancata ovvero non adeguata valutazione di tutti gli elementi acquisiti al processo aveva dunque portato ad una statuizione viziata, laddove, pur facendosi riferimento agi scritti difensivi ed ai documenti prodotti dalla convenuta, giungeva a conclusioni diametralmente opposte a quelle che avrebbero dovuto essere tratte, in aperta violazione del principio secondo cui il giudice deve decidere iuxta allegata ac probata;

3 motivo – omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio – art. 360 c.p.c., n. 5, avendo omesso di motivare sulla ritenuta opportunità di confermare la statuizione di primo grado circa il mancato raggiungimento della prova in merito alle ragioni che avevano reso necessaria l’utilizzazione del S. da parte di POSTE ITALIANE S.p.a.;

4^ motivo – insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio – art. 360 c.p.c., n. 5, poichè la Corte d’Appello non aveva compiutamente indicato le ragioni del proprio convincimento, rinviando genericamente e per relationem alle motivazioni già rese con la sentenza di primo grado -peraltro affatto coincidenti rispetto a quelle riportate con la pronuncia di secondo grado, ai rilevi critici di controparte ritenuti decisivi, ma neppure genericamente indicati e/o individuati in motivazione, al quadro probatorio acquisito, senza alcuna precisazione al riguardo, nè alcuna disamina logico-giuridica, idonea a far comprendere il reale percorso argomentativo seguito con riferimento alle risultanze istruttorie e all’assolvimento dell’onere probatorio a carico della società;

5 motivo – contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in quanto non solo non sussisteva la discrasia ipotizzata dalla sentenza impugnata, ma anche perchè la motivazione faceva riferimento ad una esclusione del mezzo istruttorio richiesto da parte appellante, ciò che non rispondeva al vero, poichè il Tribunale aveva ammesso la prova per testi e consentito pure il deposito di ulteriore documentazione. La Corte capitolina, inoltre, da un lato aveva ritenuto non specificate le ragioni del ricorso al lavoro interinale, così di fatto avallando l’accertamento già compiuto in prime cure e rigettando implicitamente il primo motivo d’appello, mentre d’altro canto aveva rilevato la suddetta discrasia per l’impossibilità oggettiva di provare quale fosse la vera causa dell’assunzione, donde la correttezza dell’esclusione della prova testimoniale, attesa la duplicità della causale in violazione della L. n. 196 del 1997, art. 1,comma 2. In definitiva, le affermazioni contenute nella sentenza di appello risentivano di un’omessa valutazione degli atti di causa e delle evidenze processuali, tale da inficiare la stessa congruità e logicità della motivazione dell’impugnata pronuncia;

6^ ex art. 360 c.p.c., n. 3 – violazione e/o falsa applicazione della L. n. 196 del 1997, art. 10 e della L. n. 1369 del 1960anche in relazione al D.Lgs. n. 368 del 2001, laddove erroneamente era stato ritenuto di poter applicare la sanzione della trasformazione del rapporto temporaneo de quo in uno a tempo indeterminato con l’impresa utilizzatrice. Richiamato la L. n. 196, art. 1, comma 2, il lavoratore che prestava la sua attività a favore di impresa utilizzatrice poteva considerarsi assunto da quest’ultima, a tempo indeterminato, soltanto nel caso di mancanza di forma scritta del contratto di fornitura di lavoro temporaneo ai sensi dell’art. 1, comma 5 stessa legge, ipotesi non sussistente nella fattispecie, ma neppure dedotta, nè provata da parte attrice. Da tanto derivava l’evidente errore in cui era incorsa la corte territoriale. Peraltro, il D.Lgs. n. 368, art. 10 prevedeva espressamente l’esclusione dal campo di applicazione dello stesso decreto, in quanto già disciplinati da specifiche normative, i contratti di lavoro temporaneo di cui alla L. n. 196 del 1997 e succ. modificazioni, donde l’autosufficienza della disciplina prevista dalla L. n. 196;

7^ motivo – violazione e falsa applicazione della L. n. 183 del 2010, art. 32 la cui operatività era stata invece esclusa erroneamente dalla Corte di merito, mancando di applicare lo jus superveniens. Ulteriori censure sono state formulate dalla ricorrente con riferimento al profilo risarcitorio.

Tanto premesso, il ricorso va soltanto in (minima) parte accolto, limitatamente al settimo e ultimo motivo, dovendo essere disattese le altre censure.

Ed invero, la prima doglianza, attinente alla asserita violazione dell’art. 112 c.p.c., appare per un verso inammissibile, non essendo stata dedotta univocamente in termini di nullità, ex art. 360 c.p.c., n. 4, dell’impugnata sentenza (cfr. sul punto tra le altre Cass. sez. un. civ. n. 17931 del 24/07/2013), mentre per altro verso la questione è infondata. A tal riguardo, infatti, una volta rimesso in discussione, con l’appello principale di POSTE ITALIANE, l’intero merito del diritto rivendicato da parte attrice, alla stregua peraltro di tutta la documentazione acquisita nel corso del giudizio di primo grado, bene rientrava nel potere-dovere della Corte territoriale avere una piena cognizione di tutti i fatti e gli atti di causa al fine di verificare la fondatezza o meno delle pretese azionate dal lavoratore con il ricorso introduttivo (peraltro inammissibilmente non esaurientemente riprodotto da parte ricorrente, in violazione di quanto invece prescritto ex art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 6). Del resto, come accennato a pag. 6 del ricorso – circa le ragioni di accoglimento della domanda dal Tribunale con la sentenza n. 20056/08, poi appellata, per la mancata dimostrazione del nesso causale, attesa la genericità delle testimonianze raccolte, mentre la documentazione acquisita non aveva consentito di chiarire quali fossero state le esigenze sostitutive per le quali il S. era stato assunto – indubbiamente la Corte di merito con l’interposto gravame veniva investita di ampi poteri di cognizione su tutta la materia del contendere, perciò non limitati ai soli motivi di impugnazione della società, tanto più che a quest’ultima resisteva l’appellato, spiegando altresì appello incidentale, evidentemente mediante apposta memoria (anche questa non riprodotta, nè altrimenti riassunta ex cit. art. 366, n. 6). Pertanto, non risulta apprezzabile alcun vizio di ultrapetizione da parte della Corte di Appello, che si è pronunciata nei limiti delle domande devolutele (Cfr. Cass. lav. n. 8604 del 03/04/2017, secondo cui il giudizio di appello, pur limitato all’esame delle sole questioni oggetto di specifici motivi di gravame, si estende ai punti della sentenza di primo grado che siano, anche implicitamente, connessi a quelli censurati, sicchè non viola il principio del tantum devolutum quantum appellatum il giudice di secondo grado che fondi la propria decisione su ragioni diverse da quelle svolte dall’appellante nei suoi motivi, ovvero esamini questioni non specificamente da lui proposte o sviluppate, le quali, però, appaiano in rapporto di diretta connessione con quelle espressamente dedotte nei motivi stessi e, come tali, comprese nel thema decidendum del giudizio. In senso pressochè conforme Cass. 3 civ. n. 443 del 11/01/2011, Cass. nn. 397 del 2002, 18095 del 2004, 2973 del 2006, n. 26374 del 16/12/2014 e n. 1377 del 26/01/2016. Cfr. altresì Cass. sez. un. civ. n. 10933 del 07/11/1997: il giudice ha l’obbligo di rilevare d’ufficio l’esistenza di una norma di legge idonea ad escludere, alla stregua delle circostanze di fatto già allegate ed acquisite agli atti di causa, il diritto vantato dalla parte, e ciò anche in grado di appello, senza che su tale obbligo possa esplicare rilievo la circostanza che in primo grado le questioni controverse abbiano investito altri e diversi profili di possibile infondatezza della pretesa in contestazione e che la statuizione conclusiva di detto grado si sia limitata solo a tali diversi profili, atteso che la disciplina legale inerente al fatto giuridico costitutivo del diritto è di per se sottoposta al giudice di grado superiore, senza che vi ostino i limiti dell’effetto devolutivo dell’appello). Per analoghe ragioni va disatteso il secondo motivo, osservandosi in primo luogo come nulla di specifico sia astato dedotto circa la sola asserita violazione dell’art. 2697 c.c., norma che disciplina unicamente l’onere probatorio (nella specie peraltro pacificamente a carico della convenuta società utilizzatrice) e non già il contenuto degli elementi di prova comunque acquisiti al processo.

Parimenti appaiono inconferenti le altre doglianze mosse con il secondo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Infatti, in tema di valutazione delle prove, il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicchè la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme processuali, sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, bensì un errore di fatto, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (cfr. inoltre Cass. 6 civ. – L, ordinanza n. 27000 del 27/12/2016, secondo cui, in tema di ricorso per cassazione, una questione di violazione o di falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma, rispettivamente, solo allorchè si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione. V. anche Cass. 2 civ., sentenza n. 24434 del 30/11/2016: in tema di valutazione delle risultanze probatorie in base al principio del libero convincimento del giudice, la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. è apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei limiti del vizio di motivazione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), e deve emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimità.

Cfr. ancora Cass. 3 civ. n. 12748 del 21/06/2016, secondo cui l’onere di contestazione riguarda le allegazioni delle parti e non i documenti prodotti, nè la loro valenza probatoria la cui valutazione, in relazione ai fatti contestati, è riservata al giudice. In senso conforme Cass. 6 – L n. 6606 del 06/04/2016).

Peraltro, il suddetto motivo (v. in part. pgg. 12 e 13) è stato anche irritualmente formulato (v. ancora art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), laddove si è accennato soltanto vagamente ad una prova testimoniale, che si assume espletata in primo grado e che invece la Corte capitolina avrebbe considerato non ammessa dal primo giudicante, mancando però indispensabili specifici riferimenti al riguardo (non sono state neanche indicate le date delle relative udienze, nè sono stati menzionati nominativamente i testimoni, nè tanto meno sono state riportate le relative dichiarazioni).

Analogamente, vanno disattesi il terzo, il quarto ed il quinto motivo di ricorso, tutti formulati ex art. 360 c.p.c., n. 5 ed inerenti a circostanze simili, tra loro indubbiamente connesse, perciò esaminabili congiuntamente. Con tali doglianze, in effetti, parte ricorrente contesta il merito di quanto valutato dalla Corte d’Appello, omettendo ad ogni modo di individuare specificamente i fatti rilevanti ai sensi del cit. art. 360, n. 5, ossia le circostanze fattuali e storiche, che sarebbero state pretermesse delle loro valutazioni dai giudici di merito, dovendosi per giunta anche in relazione alle suddette censure evidenziare l’omessa allegazione di ogni elemento utile circa la prova testimoniale, asseritamente espletata in primo grado, della quale non è stata sintetizzato neppure in alcun modo il risultato. Ne deriva che sul punto, atteso l’evidente difetto di autosufficienza, non può essere in alcun modo considerato in questa sede l’anzidetto mezzo istruttorio ai fini della contraddittorietà in proposito opinata da parte ricorrente.

Le doglianze di cui al 3, 4 e 5 motivo, pertanto, non integrano gli estremi del vizio previsto dal succitato art. 360 c.p.c., n. 5, laddove in effetti parte ricorrente pretende inammissibilmente in questa sede di legittimità il riesame di quanto, diversamente, valutato e deciso dalla Corte di merito, previa cognizione di tutte le acquisite risultanze processuali.

Invero, la motivazione omessa o insufficiente è configurabile soltanto qualora dal ragionamento del giudice di merito, come risultante dalla sentenza impugnata, emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione, ovvero quando sia evincibile l’obiettiva carenza, nel complesso della medesima sentenza, del procedimento logico che lo ha indotto, sulla base degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già quando, invece, vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato dal primo attribuiti agli elementi delibati, risolvendosi, altrimenti, il motivo di ricorso in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento di quest’ultimo, tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, certamente estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione (v. tra le altre Cass. sez. un. n. 24148 del 2013). Il motivo di ricorso ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non conferisce alla Corte di legittimità il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, ma solo quello di controllare, sul piano della coerenza logico-formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito, al quale soltanto spetta di individuare le fonti del proprio convincimento, controllarne l’attendibilità e la concludenza nonchè scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti in discussione, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (Cass. sez. un. civ. n. 5802 del 1998, nonchè Cass. n. 1892 del 2002, n. 15355 del 2004, n. 1014 del 2006, n. 18119 del 2008).

Invero, come già in precedenza anticipato, la Corte di merito ha in primo luogo con la sentenza de qua dichiarato di integrare la motivazione della decisione appellata, facendo tra l’altro presente che la domanda veniva accolta perchè non risultavano adeguatamente provate le esigenze di carattere produttivo, organizzativo e sostitutivo, tali da poter giustificare il ricorso alle assunzioni temporanee dell’attore, evidenziando quindi che nemmeno in sede giudiziale la società utilizzatrice aveva chiarito quali fossero le ragioni che avevano determinato l’impiego dell’appellato con contratto di lavoro interinale, all’uopo evidenziando altresì una non corrispondenza tra la causale indicata nel contratto di fornitura e la ragione posta a base del contratto di lavoro temporaneo. Di conseguenza, a fronte della rilevata discrasia, secondo i giudici di appello sussisteva una impossibilità oggettiva di provare quale fosse la vera e reale causa dell’assunzione e del contratto di fornitura, sicchè la mancata dimostrazione della effettiva sussistenza delle condizioni legittimanti il ricorso al lavoro temporaneo comportava la soggezione della fattispecie concreta in esame alla normativa ex L. n. 1369 del 1960, poichè al di fuori della causa tipica ammessa per il contratto di fornitura. Venendo, quindi, meno la causa legale del tipo contrattuale ex L. n. 196 del 1997, ne derivava la nullità delle relative pattuizioni. Alla novazione soggettiva del rapporto, da trilaterale a bilaterale tra lavoratore e impresa utilizzatrice, conseguiva necessariamente anche la novazione oggettiva del contratto da tempo determinato a tempo indeterminato, derivante dalla eccezionalità delle ipotesi di contratto a termine e della indimostrata sussistenza delle temporanee esigenze che, ai sensi del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1 avrebbero potuto consentire il ricorso al tempo determinato, tutto ciò peraltro in consapevole ed ulteriormente motivato dissenso rispetto al diverso principio affermato, all’epoca, da questa Corte con l’arresto di cui alla pronuncia n. 2488 in data primo febbraio 2008.

Per contro, nella specie, parte ricorrente, lungi dal denunciare una totale obliterazione di un “fatto controverso e decisivo” che, ove valutato, avrebbe condotto, con criterio di certezza e non di mera probabilità, ad una diversa decisione, si è limitata ad assumere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice di merito al proprio diverso convincimento soggettivo, proponendo un preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti; tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, nonchè delle risultanze processuali nel complesso acquisite, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi dell’iter formativo di tale convincimento, rilevanti ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, anche nella versione di testo qui applicabile, sicchè le censure in esame si traducono, in sostanza, nell’invocare la revisione delle valutazioni e dei convincimenti espressi dal giudice di merito, tesa a conseguire una nuova pronuncia sul fatto, ma inammissibile perchè estranea alla natura ed alla finalità del giudizio di legittimità.

Il sesto motivo di ricorso, invece, è infondato alla luce della più recente giurisprudenza formatasi in materia, in parte difforme da quella soprarichiamata (nel senso riduttivo di una mera sostituzione soggettiva dell’originario datore di lavoro con l’impresa utilizzatrice della prestazione), laddove, secondo Cass. lav. n. 1148 del 17/01/2013, in tema di lavoro interinale, la legittimità del contratto di fornitura costituisce il presupposto per la stipulazione di un legittimo contratto per prestazioni di lavoro temporaneo. Ne consegue che l’illegittimità del contratto di fornitura comporta le conseguenze previste dalla legge sul divieto di intermediazione e interposizione nelle prestazioni di lavoro e, quindi, l’instaurazione del rapporto di lavoro con il fruitore della prestazione, cioè con il datore di lavoro effettivo; inoltre, alla conversione soggettiva del rapporto si aggiunge la conversione dello stesso da lavoro a tempo determinato in lavoro a tempo indeterminato, per intrinseca carenza dei requisiti richiesti dal D.Lgs. n. 368 del 2001 ai fini della legittimità del lavoro a tempo determinato tra l’utilizzatore ed il lavoratore (“…L’illegittimità del contratto di fornitura comporta le conseguenze previste dalla legge sul divieto di intermediazione e interposizione nelle prestazioni di lavoro, e quindi l’instaurazione del rapporto di lavoro con il fruitore della prestazione, cioè con il datore di lavoro effettivo. Infatti, l’art. 10, comma 1, collega alle violazioni delle disposizioni di cui all’art. 1, commi 2, 3, 4 e 5 – cioè violazioni di legge concernenti proprio il contratto commerciale di fornitura -, le conseguenze previste dalla L. n. 1369 del 1960, consistenti nel fatto che “i prestatori di lavoro sono considerati, a tutti gli effetti, alle dipendenze dell’imprenditore che effettivamente abbia utilizzato le loro prestazioni”.

In tal senso questa Corte si è espressa, in modo univoco e costante, con una pluralità di decisioni, a cominciare da Cass. 23 novembre 2010 n. 23684; Cass. 24 giugno 2011 n. 13960; Cass. 5 luglio 2011 n. 14714 alle cui motivazioni si rinvia per ulteriori approfondimenti.

Le medesime sentenze hanno precisato che alla conversione soggettiva del rapporto si aggiunge la conversione dello stesso da lavoro a tempo determinato in lavoro a tempo indeterminato, per intrinseca carenza dei requisiti richiesti dal D.Lgs. n. 368 del 2001 ai fini della legittimità del lavoro a tempo determinato tra l’utilizzatore ed il lavoratore (sul punto, v. anche: Cass. 8 maggio 2012 n. 6933).

L’effetto finale è la conversione del contratto per prestazioni di lavoro temporaneo in un ordinario contratto di lavoro a tempo indeterminato tra l’utilizzatore della prestazione, datore di lavoro effettivo, e il lavoratore….”.

Cfr. peraltro anche Cass. lav. n. 21837 del 05/12/2012, secondo cui la violazione delle disposizioni della L. n. 196 del 1997, ed in particolare dell’art. 1, comma 2, lett. a), comporta la sostituzione della parte datoriale e, salvo che non ricorrono specifiche ragioni che consentano l’apposizione di un termine, l’instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con l’utilizzatore interponente, senza che assuma rilievo che il rapporto con l’interposto fosse a termine, atteso che la medesima sanzione è prevista per la meno grave violazione dell’obbligo di stipulare il contratto con forma scritta e che, sul piano sistematico, una diversa conclusione, porterebbe alla inammissibile situazione per cui la violazione del divieto di interposizione di manodopera consentirebbe all’interponente di beneficiare di una prestazione a termine altrimenti preclusa. V. poi anche Cass. lav. n. 232 del 12/01/2012, secondo cui in materia di rapporto di lavoro interinale, la mancanza o la generica previsione, nel contratto intercorrente tra l’impresa fornitrice e il singolo lavoratore, dei casi in cui – e dunque delle esigenze per le quali – è possibile ricorrere a prestazioni di lavoro temporaneo, in base ai contratti collettivi dell’impresa utilizzatrice, ovvero l’insussistenza in concreto delle suddette ipotesi, spezza l’unitarietà della fattispecie complessa voluta dal legislatore per favorire la flessibilità dell’offerta di lavoro nella salvaguardia dei diritti del lavoratore, e fa venir meno la presunzione di legittimità del contratto interinale stesso. Ne consegue che, per escludere che il contratto di lavoro con il fornitore interposto si consideri instaurato con l’utilizzatore interponente a tempo indeterminato, non è sufficiente arrestarsi alla verifica del dato formale del rispetto della contrattazione collettiva quanto al numero delle proroghe consentite, senza verificare l’effettiva persistenza delle esigenze di carattere temporaneo, in modo tanto più penetrante quanto più durevole e ripetuto sia il ricorso a tale fattispecie contrattuale. V. altresì, più recentemente, Cass. Sez. 6 – L, n. 10486 del 27/04/2017, secondo cui la L. n. 196 del 1997, art. 1, comma 2, consente il contratto di fornitura di lavoro temporaneo solo per le corrispondenti esigenze rientranti nelle categorie specificate dalla norma, esigenze che il contratto di fornitura non può, quindi, omettere di indicare, nè può rappresentare in maniera generica e non esplicativa, limitandosi a riprodurre il contenuto della previsione normativa; ne consegue che, ove la clausola sia indicata in termini generici, inidonei ad essere ricondotti ad una delle causali previste dal legislatore, il contratto è illegittimo, e, in applicazione del disposto di cui alla L. n. 196 del 1997, art. 10 il rapporto si considera a tutti gli effetti instaurato con l’utilizzatore interponente).

E’, invece, fondato il settimo e ultimo motivo di ricorso in relazione alla disciplina dettata dalla L. n. 183 del 2010, art. 32 mentre risultano superate le altre problematiche, concernenti l’aliunde perceptum, in base all’indennizzo forfettario comunque dovuto a norma del citato art. 32, secondo quanto di seguito precisato. Ed invero, questa Corte ormai ha da tempo affermato che in tema di lavoro interinale l’indennità prevista dal citato art. 32, nel significato chiarito dalla L. 28 giugno 2012, n. 92, art. 1, comma 13 trova applicazione con riferimento a qualsiasi ipotesi di ricostituzione del rapporto di lavoro avente in origine termine illegittimo e si applica anche nel caso di condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore a causa dell’illegittimità di un contratto per prestazioni di lavoro temporaneo a tempo determinato, ai sensi della L. 24 giugno 1997, n. 196, convertito in contratto a tempo indeterminato tra lavoratore e utilizzatore della prestazione (v. Cass. n. 1148/13 cit.); che, inoltre, in tema di lavoro interinale l’indennità prevista dall’art. 32 trova applicazione in ogni caso in cui vi sia un contratto di lavoro a tempo determinato per il quale operi la conversione in contratto a tempo indeterminato, e dunque anche nel caso di condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore a causa dell’illegittimità di un contratto per prestazioni di lavoro temporaneo a tempo determinato, convertito in contratto a tempo indeterminato tra lavoratore e utilizzatore della prestazione, atteso che anche tale contratto è riconducibile alla categoria del contratto di lavoro a tempo determinato (come si desume anche dalla Direttiva 1999/70/CE, di recepimento dell’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, che, proprio per tale astratta riconducibilità, lo ha escluso espressamente dal suo campo di applicazione – cfr. Cass. 29.5.2013 n. 13404 e 23.4.2015 n. 8286, nonchè n. 10317 del 26/04/2017).

In definitiva, mentre vanno disattesi i primi sei motivi di ricorso, deve essere accolto il settimo, con conseguenti cassazione della sentenza impugnata sul punto e rinvio, ai sensi degli artt. 384 e 385 c.p.c., della causa alla Corte di merito ai fini della determinazione dell’indennità dovuta al lavoratore L. n. 183 del 2010, ex art. 32 oltre che per la regolamentazione delle spese, ivi comprese quelle del presente giudizio di legittimità, restando peraltro assorbita ogni altra questione, in quanto l’aliunde perceptum o percipiendum è chiaramente incompatibile con il riconoscimento del diritto all’indennizzo ex art. 32 cit. (che copre il danno derivante dalla illegittimità del contratto de quo, dal momento dello spirare del termine finale, all’epoca invalidamente fissato, sino alla pronuncia di accoglimento della domanda, per cui da tale pronuncia sono dovuti anche gli accessori di legge. V. infatti Cass. lav. n. 151 del 09/01/2015: nei casi di conversione del contratto di lavoro a tempo determinato, l’indennità di cui alla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32,commi 5 e 7, come disciplinata dalla L. 28 giugno 2012, n. 92, art. 1, comma 13, con norma di interpretazione autentica, ha carattere “forfetizzato” ed “onnicomprensivo” e pertanto ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore per i danni causati dalla nullità del termine nel periodo cosiddetto “intermedio”, che decorre dalla scadenza del termine sino alla sentenza di conversione e non sino al deposito del ricorso introduttivo del giudizio. In senso analogo, v. anche Cass. lav. n. 19295 del 12/09/2014. Come già puntualizzato da Cass. lav. n. 3056 del 29/02/2012, lo “ius superveniens” L. n. 183 del 2010, ex art. 32, commi 5, 6 e 7, configura, alla luce dell’interpretazione adeguatrice offerta dalla Corte costituzionale con sentenza n. 303 del 2011, una sorta di penale “ex lege” a carico del datore di lavoro che ha apposto il termine nullo; pertanto, l’importo dell’indennità è liquidato dal giudice, nei limiti e con i criteri fissati dalla novella, a prescindere dall’intervenuta costituzione in mora del datore di lavoro e dalla prova di un danno effettivamente subito dal lavoratore -senza riguardo, quindi, per l’eventuale “aliunde perceptum”, trattandosi di indennità “forfetizzata” e “onnicomprensiva” per i danni causati dalla nullità del termine nel periodo cosiddetto “intermedio”, dalla scadenza del termine alla sentenza di conversione. Conformi id. n. 9023 del 05/06/2012 e n. 19098 del 09/08/2013. Cfr. ancora Cass. Sez. 6 – L, n. 5344 del 17/03/2016, secondo cui l’art. 429 c.p.c., comma 3, in tema di rivalutazione monetaria dei crediti di lavoro trova applicazione anche nel caso dell’indennità di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32 in quanto si riferisce a tutti i crediti connessi al rapporto e non soltanto a quelli aventi natura strettamente retributiva, fermo restando che alla natura di liquidazione forfettaria e onnicomprensiva dell’indennità consegue la decorrenza, della rivalutazione monetaria e degli interessi legali, dalla data della sentenza che dispone la conversione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato.

Inoltre, v. anche Cass. lav. n. 16545 del 05/08/2016, secondo cui la disciplina di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5, come autenticamente interpretata dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 13, non contrasta con la giurisprudenza della Corte EDU, in quanto giustificata da ragioni di “pubblica utilità”, suscettibili di legittimare limitazioni al diritto di proprietà, la cui valutazione compete, prioritariamente, alle autorità nazionali, che vantano una posizione migliore rispetto alle autorità giurisdizionali internazionali, tanto più che, riguardando non un diritto già attuale ed esigibile, ma soltanto una “legittima speranza” di ottenere il pagamento delle somme controverse, assolve, in linea con quanto affermato da Corte cost. n. 303 del 2011, una finalità perequativa di semplificazione e certezza applicativa di interesse generale).

Per effetto dell’accoglimento, sebbene parziale, dell’impugnazione de qua, non sussistono i presupposti di legge (D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater) per il versamento dell’ulteriore contributo unificato da parte ricorrente.

P.Q.M.

La Corte accoglie il settimo e ultimo motivo di ricorso, concernente la L. n. 183 del 2010, art. 32 disattesi gli altri. Cassa, per l’effetto, l’impugnata sentenza in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte di Appello di Roma in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 13 dicembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 12 ottobre 2018

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