LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CORRENTI Vincenzo – Presidente –
Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –
Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –
Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –
Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 7569/2014 proposto da:
STUDIO ERRE DI L.R. & CO SAS, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEGLI SCIPIONI 110, presso lo studio dell’avvocato ALEXANDRU BUJIN, rappresentata e difesa dall’avvocato MICHELE SAPONARO giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
e contro
GAETA ITTICOLTURA SRL;
– intimata –
avverso la sentenza n. 906/2013 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 14/02/2013;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 03/07/2018 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;
Lette le conclusioni del Sostituto Procuratore Generale, Dott. IGNAZIO PATRONE che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso;
Lette le memorie depositate dalla ricorrente.
RAGIONI IN FATTO ED IN DIRITTO 1. La Gaeta Itticoltura S.r.l., società attiva nel campo della coltivazione e commercializzazione di mitili, concludeva con la Studio Erre di R.L. S.a.s. un contratto di appalto in data 20/6/1992, con successive integrazioni e precisazioni del 9/10/1992 e del 9/2/1993, avente ad oggetto la ristrutturazione del proprio impianto produttivo.
In particolare mentre le prime due pattuizioni disciplinavano il capitolato d’appalto, il terzo contratto precisava che la consegna dell’impianto alla committente sarebbe dovuta avvenire entro la data del 28 febbraio 1993, inteso quale termine essenziale.
Decorso tale termine, la società appaltatrice aveva abbandonato il cantiere, lamentando il mancato pagamento degli ultimi due SAL, invocando la risoluzione del contratto per inadempimento della committente.
Quest’ultima però agiva in giudizio al fine invece di fare accertare la risoluzione del contratto per inadempimento della società appaltatrice, con il diritto altresì al ristoro dei danni subiti.
Nel giudizio, nel quale si innestava anche la richiesta della società appaltatrice di essere reimmessa nel possesso del cantiere, sul presupposto che fosse stata indebitamente estromessa dalla committente, disposti vari accertamenti tecnici d’ufficio, il Tribunale di Latina con la sentenza n. 649/2007 accoglieva parzialmente la domanda della Studio Erre, liquidando in suo favore la somma di Euro 103.301,37, oltre IVA ed interessi legali, nonchè la somma di Euro 50.000,00 a titolo di risarcimento danni liquidati in via equitativa, attesa l’intervenuta risoluzione del contratto, disponendo anche lo svincolo delle somme depositate su di un libretto giudiziale nell’ambito della procedura esecutiva intrapresa dalla società appaltatrice in danno della Gaeta Itticoltura.
A seguito di appello principale della committente e di appello incidentale della società appaltatrice, la Corte d’Appello di Roma con la sentenza n. 906 del 14 febbraio 2013, in accoglimento dell’appello principale revocava lo svincolo delle somme disposto dal Tribunale e condannava la Gaeta Itticoltura al pagamento della somma di Euro 103.301,37 oltre IVA ed interessi al tasso legale a far data dal 15/2/1993 al saldo.
Dopo avere criticato l’andamento e la gestione del processo da parte del giudice di prime cure, attesa anche la condotta processuale dei difensori delle parti, che avevano permesso la protrazione per tempi notevoli della durata del processo, demandando di fatto la decisione della lite ai vari consulenti nominati nel corso del processo, la sentenza di seconde cure riteneva che l’appello principale fosse in parte fondato, dovendosi ritenere che la sentenza di primo grado fosse in realtà priva di motivazione.
In sentenza si dava atto che a seguito di varie intese, le parti avevano concordato per la consegna finale dell’opus la data del 28/2/1993 (giusta pattuizione integrativa del 9/2/1993), prevedendosi la risoluzione del contratto in caso di violazione di tale termine, ma nel solo interesse della società committente.
Alla data del 28 febbraio 1993 i lavori però non erano ancora terminati, sebbene fossero prossimi alla conclusione, dovendosi ritenere che il mancato rispetto del termine de quo fosse imputabile alla società appaltatrice che aveva protratto in maniera ingiustificata i lavori di pavimentazione.
Non poteva poi addursi che occorresse tenere conto del periodo di sospensione per cause di forza maggiore o per l’attesa della consegna degli angolari, in quanto le sospensioni precedenti erano state già prese in considerazione in occasione della proroga accordata in data 9/2/1993, prevedendosi un meccanismo di ulteriore proroga per ogni giorno di ritardo nella consegna degli angolari.
Quanto alla condotta della Studio Erre, la sentenza d’appello rilevava che non era stato correttamente esercitato il potere di cui all’art. 1460 c.c., in quanto aveva abbandonato il cantiere già in data 15/2/1993, adducendo la giustificazione del mancato pagamento dei SAL solo in data 24 febbraio 1993, a soli quattro giorni dalla scadenza del termine previsto per la consegna.
Peraltro, il mancato pagamento dei SAL era circostanza già manifestatasi in occasione della proroga del termine sicchè, ove ritenuto essenziale, avrebbe dovuto essere contemplato nelle previsioni con le quali si acconsentiva ad un differimento della data di esecuzione dei lavori.
Per l’effetto, invocare l’inadempimento della committente a soli quattro giorni dalla scadenza prevista, costituiva un comportamento contrario a buona fede.
Analogamente rivelatore di una condotta violativa dell’obbligo di buona fede era il comportamento della società appaltatrice che, dopo avere accreditato la possibilità di una soluzione bonaria della vicenda in data 16/3/1993, allorchè la Gaeta Itticoltura aveva assicurato il pagamento del SAL, il giorno successivo denunciava la committente alla Capitaneria di Porto di ***** per pretesi abusi commessi nell’impianto di itticoltura. Inoltre, non appariva ingiustificato il rifiuto del pagamento dei SAL, in quanto la CTU aveva evidenziato come la vasca di presa a mare fosse stata realizzata ad una quota diversa da quella concordata.
Stante la mala fede della società appaltatrice, era legittima la decisione della committente di avvalersi della clausola risolutiva prevista in contratto, sicchè all’appellata competeva solo il valore delle opere realizzate prima dell’abbandono del cantiere, importo ammontante, come da accertamenti peritali, ad Euro 103.301,37 oltre IVA, e con i soli interessi legali, non essendo sufficientemente determinata la misura degli interessi convenzionali.
Alcun ristoro poteva poi essere riconosciuta alla Gaeta Itticoltura a titolo di danni, in mancanza di prova.
Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la Studio Erre di L.R. & CO. S.a.s. sulla base di cinque motivi.
La società intimata non ha svolto difese in questa fase.
2. Il primo motivo di ricorso denuncia la falsa applicazione dell’art. 1460 c.c., in relazione all’art. 132 c.p.c., ed agli artt. 112 e 118 disp. att. c.p.c..
Deduce parte ricorrente, dopo avere contestato le considerazioni compiute nella premessa espositiva della Corte d’Appello circa le ragioni per le quali il processo aveva avuto un andamento anomalo in primo grado, escludendo che la propria condotta avesse concorso in tale situazione, che nel costituirsi in grado di appello aveva spiegato appello incidentale sia autonomo che condizionato, e che la sentenza gravata si è pronunciata omettendo però di considerare le deduzioni difensive di parte appellata ed i motivi di appello incidentale, con la conseguente nullità della decisione gravata.
Il motivo pecca evidentemente del requisito di specificità, occorrendo a tal fine ricordare che (Cass. S.U. n. 8077/2012) anche laddove sia denunciato un error in procedendo, sostanziandosi nel compimento di un’attività deviante rispetto ad un modello legale rigorosamente prescritto dal legislatore, il giudice di legittimità non deve limitare la propria cognizione all’esame della sufficienza e logicità della motivazione con cui il giudice di merito ha vagliato la questione, ma è investito del potere di esaminare direttamente gli atti ed i documenti sui quali il ricorso si fonda, purchè la censura sia stata proposta dal ricorrente in conformità alle regole fissate al riguardo dal codice di rito (ed oggi quindi, in particolare, in conformità alle prescrizioni dettate dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4).
Il mezzo di gravame non appare minimamente rispettoso dei suddetti requisiti essendo genericamente allegata la deduzione del vizio di omessa pronuncia in relazione a motivi di appello incidentale nemmeno riassunti per sintesi, accompagnando a tale doglianza anche la censura, evidentemente di merito, relativa al mancato apprezzamento delle risultanze istruttorie che a detta di parte ricorrente avrebbero deposto per la fondatezza della propria domanda di risoluzione.
In ogni caso, va sicuramente esclusa la dedotta violazione dell’art. 342 c.p.c., volta che il giudice di appello ha ritenuto che la sentenza di prime cure fosse nella sostanza del tutto priva di motivazione, il che, stante la regola di simmetria che deve connotare la formulazione dei motivo di appello in ragione del grado di specificità della motivazione del giudice di prime cure, fornisce contezza delle ragioni per le quali anche la mera riproposizione delle domande disattese in prime cure soddisfarebbe l’onere posto dalla norma in esame.
Ancora, quanto alla dedotta novità ex art. 345 c.p.c., della domanda di compensazione tra i danni vantati dalla committente ed il credito della società appaltatrice, in disparte il rilievo che nella fattispecie si verterebbe in un’ipotesi di cd. compensazione impropria, in cui la reciproca relazione di debito-credito nasce da un unico rapporto, nel quale l’accertamento contabile del saldo finale delle contrapposte partite può essere compiuto dal giudice d’ufficio e quindi senza la necessità di un’eccezione di parte (cfr. ex multis Cass. n. 7474/2017), la critica non si confronta con il tenore della sentenza gravata che ha escluso la sussistenza di un danno risarcibile in favore della società intimata, avendo quindi escluso anche la possibile compensazione con la posta creditoria pur riconosciuta alla ricorrente.
Quanto invece ai motivi di appello incidentale, va osservato che quelli espressamente condizionati all’accoglimento dell’appello della Gaeta Itticoltura, investivano la verifica circa l’individuazione della parte inadempiente, ai fini delle domande di risoluzione reciprocamente proposte, con la conseguenza che l’avere riscontrato il prevalente inadempimento della società appaltatrice (per avere ingiustificatamente abbandonato il cantiere non portando a termine i lavori alla scadenza pattuita, e senza che potesse avvalersi della previsione di cui all’art. 1460 c.c.) implica il rigetto, quanto meno in maniera implicita, delle censure volte invece ad addebitare alla committente la responsabilità per la risoluzione del contratto.
Ancora la sentenza impugnata ha dato espressamente conto delle ragioni per le quali il termine del 28 febbraio 1993 doveva reputarsi essenziale nell’economia del sinallagma contrattuale, essendosi specificato come non potesse tenersi conto delle precedenti sospensioni (essendo tutte anteriori all’ultima proroga del termine di esecuzione del contratto), e dell’irrilevanza del ritardo nella consegna degli angolari, trattandosi di evento non provato (cfr. pagg. 6 e 7 della sentenza gravata).
La sentenza d’appello ha altresì motivato sul perchè dovesse essere ritenuta responsabile la società appaltatrice dell’abbandono del cantiere e come tale condotta fosse evidentemente in contrasto con il principio della buona fede in executivis.
In relazione invece ai motivi di appello autonomo che attingevano la quantificazione del credito residuo dell’appaltatrice e la misura degli interessi convenzionali asseritamente dovuti, anche sul punto la lettura della sentenza sconfessa l’assunto di parte ricorrente circa l’omessa pronuncia da parte del giudice di seconde cure, che, in relazione al primo aspetto, ha ritenuto di condividere la quantificazione dell’importo dovuto per le opere eseguite e non ancora saldate, nella cifra indicata in dispositivo, come individuata da parte dei vari ausiliari nominati, mentre in merito al secondo aspetto, ha ritenuto che non potessero essere riconosciuti gli interessi, attesa la indeterminatezza della clausola contrattuale che rimandava ad interessi di scoperto bancario, senza alcun riferimento all’istituto di credito al quale relazionare la misura degli interessi praticati, ovvero ad altri elementi sufficientemente caratterizzanti.
Infine, va evidenziato che la sentenza gravata ha accordato alla ricorrente la somma dovuta a titolo di IVA, conformemente alle richieste formulate nella comparsa di risposta in appello, avendo altrettanto implicitamente disatteso la domanda di risarcimento danni, e ciò in ragione dell’affermazione della responsabilità della stessa appaltatrice in ordine alla risoluzione del contratto, responsabilità che precludeva l’accoglimento di una domanda risarcitoria.
Il primo motivo deve conclusivamente essere disatteso.
3. Il secondo motivo di ricorso denuncia la violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 4, “per omesso travisamento illogico delle risultanze processuali in violazione dell’art. 1460 c.c.”.
Si evidenzia che l’eccezione di inadempimento, che era stata sollevata da parte della ricorrente, è stata immotivatamente disattesa dal giudice di appello che ha trascurato il rilevante importo dei SAL ancora dovuti, il cui mancato versamento aveva quindi legittimato la sospensione dei lavori, peraltro in fase di avanzato completamento.
Il motivo, dietro l’apparente denuncia di una violazione di legge, si risolve in una non consentita critica alla ricostruzione delle vicende fattuali, così come operata con logica ed argomentata motivazione da parte del giudice di appello.
La sentenza impugnata ha appunto messo a confronto le condotte delle parti del contratto, rilevando come rivestisse maggiore gravità proprio la condotta della società appaltatrice che, dopo avere concordato una proroga per l’esecuzione dei lavori, a pochi giorni dalla scadenza, sospendeva immotivatamente l’esecuzione del contratto, adducendo il mancato pagamento dei SAL, circostanza questa che già era presente alle parti nel momento in cui avevano concordalo la proroga, ritenendo evidentemente che il mancato versamento delle somme a tale titolo dovute non precludesse il completamento dell’opus appaltato.
La valutazione circa l’individuazione del comportamento munito di maggiore incidenza causale ai fini della risoluzione del contratto nonchè il riscontro dell’avere agito in buona fede o meno da parte della ricorrente costituiscono evidentemente apprezzamenti di fatto, la cui valutazione si sollecita, in maniera non consentita al giudice di legittimità.
Il motivo deve pertanto essere disatteso.
4. Il terzo motivo di ricorso denuncia l’omessa e falsa applicazione degli artt. 1372,1671 e 1223 c.c., in relazione all’art. 1460 c.c..
Assume la ricorrente che l’art. 1671 c.c., costituisce un’evidente deroga al principio di efficacia vincolante del contratto tra le parti ex art. 1372 c.c., con la conseguenza che laddove il committente intenda avvalersi di tale previsione è tenuto al versamento di un’indennità all’appaltatore che lo ristori delle conseguenze negative scaturenti dall’anticipato recesso della controparte.
Pertanto ha errato il giudice di appello a negare il diritto ad un ulteriore ristoro in favore della ricorrente, in aggiunta a quanto già riconosciuto a titolo di compenso per le opere già eseguite al momento del recesso.
Il motivo è inammissibile in quanto non si confronta affatto con la ratio sottesa alla decisione del giudice di appello, il quale ha ritenuto che fosse intervenuta la risoluzione del contratto per essersi la parte committente avvalsa di una clausola risolutiva espressa, ricollegata alla mancata conclusione dell’opus nel termine fissato a seguito delle varie proroghe, mancata conclusione addebitabile al grave inadempimento della società appaltatrice.
E’ quindi evidente che in alcun modo si è giustificato il venir meno del rapporto contrattuale in base alla previsione di cui all’art. 1671 c.c., essendosi piuttosto fatto riferimento alla diversa ipotesi di risoluzione di diritto di cui all’art. 1456 c.c., senza che quindi ci si possa in alcun modo dolere del mancato riconoscimento dell’indennità per il mancato guadagno prevista dall’art. 1671 c.c..
5. Il quarto motivo di ricorso lamenta la violazione di legge e l’omessa motivazione in relazione agli artt. 1372,1223 e 1224 c.c., in quanto non si sarebbe tenuto conto delle specifiche pattuizioni intervenute tra le parti quanto agli interessi da riconoscere sulle somme dovute in favore della ricorrente.
Si deduce che con i vari contratti le parti avevano concordato che alla società appaltatrice fossero dovuti in aggiunta al capitale anche gli interessi nella misura del tasso di massimo scoperto applicato dalle banche sulla piazza di *****, così che l’avere limitato gli interessi dovuti sulla sorta capitale spettante alla ricorrente, al solo tasso legale, ha evidentemente violato gli accordi negoziali.
Il motivo è infondato.
La sentenza gravata lungi dal negare la rilevanza contrattuale dell’accordo volto a determinare il tasso degli interessi di mora dovuti in favore della società appaltatrice, ha però ritenuto che la pattuizione fosse affetta da nullità per indeterminabilità del tasso di interessi dovuto, in contrasto con quanto prescritto dall’art. 1284 c.c., comma 3.
La sentenza ha ritenuto che la clausola che riconosceva gli “interessi di scoperto bancario” fosse inidonea a garantire la determinabilità, ancorchè per relationem del tasso effettivamente dovuto, stante l’assenza di un più puntuale riferimento all’istituto di credito alle cui condizioni ragguagliare la misura del tasso di interessi, ed in mancanza di altri criteri sufficientemente caratterizzanti.
Il motivo di ricorso, oltre a non riportare precisamente la clausola de qua, assumendo in contrasto con quanto invece riportato in sentenza che vi fosse la specificazione del tasso di massimo scoperto e delle banche operanti sulla piazza di *****, non appare idoneo ad inficiare la correttezza della soluzione alla quale è pervenuto il giudice di appello, tenuto conto che secondo la giurisprudenza di questa Corte, la convenzione relativa agli interessi è validamente stipulata, in ossequio al disposto dell’art. 1284 c.c., comma 3, quando il relativo tasso risulti determinabile e controllabile in base a criteri oggettivamente indicati, sicchè una clausola contenente un generico riferimento alle condizioni usualmente praticate dalle aziende di credito sulla piazza può ritenersi valida ed univoca solo se il riferimento “per relationem” sia coordinato alla esistenza di vincolanti discipline del saggio, fissate su scala nazionale con accordi di cartello e non già ove tali accordi contengano diverse tipologie di tassi o non costituiscano più un parametro centralizzato e vincolante (cfr. ex multis Cass. n. 13823/2002; Cass. n. 14684/2003; Cass. n. 6187/2005, pur richiamata dalla difesa della ricorrente, Cass. n. 25205/2014).
La genericità del dato di riferimento come riportato in sentenza (interessi di massimo scoperto) conforta la correttezza della valutazione in punto di indeterminabilità del tasso di interesse convenzionale, comportando quindi il rigetto anche del motivo in esame.
6. Il quinto motivo denuncia infine la violazione e falsa applicazione degli artt. 91 c.p.c. e segg., laddove il giudice di appello ha ritenuto di compensare interamente le spese di entrambi i gradi, sul presupposto della scarsa condotta collaborativa dei difensori delle parti.
Il motivo va disatteso.
Ed, invero, ribadito che a seguito della parziale riforma della sentenza di primo grado, la Corte d’Appello aveva il dovere di regolamentare le spese del doppio grado, la decisione di compensare le spese rientra nella discrezionalità del giudice di merito, e come tale costituisce esercizio di un potere essenzialmente non sindacabile in sede di legittimità, sia avuto riguardo alla motivazione fondata sulla valutazione della condotta processuale delle parti, sia in ragione del riscontro di una soccombenza reciproca, atteso che pur essendo stata riconosciuta una posta creditoria a favore della società appaltatrice, era stata tuttavia riscontrata la sua inadempienza rispetto agli obblighi scaturenti dal contratto d’appalto (essendosi poi, da un lato, disattesa la domanda di risarcimento danni avanzata dalla Gaeta Itticoltura, e dall’altro, respinta la richiesta di corresponsione degli interessi convenzionali proposta dalla ricorrente).
8. Il ricorso deve pertanto essere rigettato, nulla dovendosi disporre in punto di spese, atteso il mancato svolgimento di attività difensiva da parte dell’intimata.
9. Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater del Testo Unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione principale.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso;
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente, del contributo unificato dovuto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 3 luglio 2018.
Depositato in Cancelleria il 18 ottobre 2018
Codice Civile > Articolo 1223 - Risarcimento del danno | Codice Civile
Codice Civile > Articolo 1224 - Danni nelle obbligazioni pecuniarie | Codice Civile
Codice Civile > Articolo 1284 - Saggio degli interessi | Codice Civile
Codice Civile > Articolo 1372 - Efficacia del contratto | Codice Civile
Codice Civile > Articolo 1456 - Clausola risolutiva espressa | Codice Civile
Codice Civile > Articolo 1460 - Eccezione d'inadempimento | Codice Civile
Codice Civile > Articolo 1671 - Recesso unilaterale dal contratto | Codice Civile
Codice Procedura Civile > Articolo 91 - Condanna alle spese | Codice Procedura Civile
Codice Procedura Civile > Articolo 132 - Contenuto della sentenza | Codice Procedura Civile
Codice Procedura Civile > Articolo 342 - Forma dell'appello | Codice Procedura Civile
Codice Procedura Civile > Articolo 345 - Domande ed eccezioni nuove | Codice Procedura Civile