LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MANNA Felice – Presidente –
Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –
Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –
Dott. SABATO Raffaele – Consigliere –
Dott. SCARPA Antonio – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 25171/2014 proposto da:
R.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE GIULIO CESARE, 14, presso lo studio dell’avvocato EMANUELA ROMANELLI, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati PIER ENZO BARUFFI, RUGGIERO CAFARI PANICO;
– ricorrente –
contro
R.S.P., R.D.M., elettivamente domiciliati in ROMA, LARGO GEN. GONZAGA DEL VODICE 2, presso lo studio dell’avvocato ALESSANDRO PAZZAGLIA, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato MASSIMO NICOLINI;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 1038/2014 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 12/03/2014;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 27/06/2018 dal Consigliere Dott. ANTONIO SCARPA.
FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE
R.A., C.P.R., B.P.E. e R.E. hanno proposto ricorso articolato in quattro motivi avverso la sentenza della Corte di Appello di Milano n. 1038/2014, depositata il 12 marzo 2014.
Resistono con controricorso R.S.P. e R.D.M..
Il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CAPASSO Lucio, ha depositato le sue conclusioni scritte, ai sensi dell’art. 380-bis 1 c.p.c., chiedendo il rigetto del ricorso.
La ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c..
Con citazione dell’8 giugno 1999 R.A.M. convenne davanti al Tribunale di Milano i fratelli R.S. e D., nonchè la madre S.G., esponendo che in data ***** era deceduto il padre R.D., il quale non aveva lasciato alcun testamento, e che, pertanto si era aperta la successione ex lege; che il de cuius era titolare di un’azienda agricola, organizzata per la conduzione del Podere Cascina Erbierine dedita all’allevamento bovino, equino e di pastori maremmani, oltre che alla coltivazione del terreno occorrente; che l’azienda era composta da terreni in parte di proprietà esclusiva del padre, in parte di proprietà al 50% del padre e della madre e in piccola parte di proprietà dei tre fratelli; che nell’azienda lavoravano prevalentemente, insieme a lei, il fratello ed il padre finchè, nel *****, quest’ultimo, a causa di un ictus, non aveva più potuto prestare attività lavorativa, con conseguente immissione in azienda della madre e della sorella Daniela, cui erano state affidate mansioni prevalentemente amministrative; che i fratelli e la madre, anche prima della morte del padre, avevano progressivamente escluso l’attrice dalle decisioni relative alla conduzione aziendale, senza rendere il conto delle operazioni svolte e delle entrate ed uscite dell’azienda, alcune delle quali presumibilmente non regolari per il numero di capi di bestiame e di cuccioli dell’allevamento canino, capi che quindi erano usciti dall’azienda senza che lei potesse in alcun modo beneficiare del ricavato. Pertanto R.A.M. chiese: a) di accertare che l’azienda agricola Podere Cascina Erbierine costituisse, alla morte del padre D., impresa familiare agricola tra quest’ultimo, la moglie S.G. ed i figli S., D. e A.M. in proporzione dei rispettivi apporti di lavoro, determinando tale proporzione; b) di dichiarare caduta in successione di R.D. la quota di comproprietà e partecipazione dell’azienda agricola, determinando le attuali quote di partecipazione dei suoi eredi; c) di ordinare ai convenuti, al momento in possesso dell’azienda, la presentazione dell’inventario, con inclusione di denaro e titoli, e il rendimento dei conti delle gestioni dell’azienda dalla morte del padre sino all’esito della lite; d) di disporre la ripartizione degli utili in proporzione delle quote, comprendendo in detrazione dalla quota di S. ed eventualmente degli altri convenuti le somme da loro prelevate, dando atto che l’attrice non avesse percepito alcun utile; e) di dichiarare che l’attrice, in quanto parte dell’impresa familiare, aveva diritto a partecipare alla gestione ed all’amministrazione dell’azienda. I convenuti eccepirono la sussistenza della competenza del giudice del lavoro e, nel merito, dopo aver presentato il conto di gestione aziendale, chiesero in riconvenzionale lo scioglimento della comunione ereditaria avente ad oggetto i beni mobili ed immobili caduti in successione alla morte di R.D., nonchè l’assegnazione del rustico “*****”, con eventuale pagamento di conguaglio, essendo l’immobile non comodamente divisibile. La causa venne dapprima rimessa al giudice del lavoro del Tribunale di Milano, che pronunciò sulle prime due domande, quindi restituita alla sezione civile per la decisione delle restanti. A seguito della morte di S.G., con conseguente interruzione, il processo venne riassunto da R.A.M., in proprio e quale erede della S., nei confronti dei fratelli, in proprio e quali eredi della madre.
Il Tribunale, con sentenza del 30 marzo 2010, in parziale accoglimento delle domande dell’attrice, dichiarò, tra l’altro, compresa nella successione ereditaria di R.D. l’azienda agricola Podere Cascina Erbierine comprensiva dei beni immobili; ritenne soddisfatta la domanda di rendiconto a seguito della produzione sub 13 dei convenuti; negò che fosse stata data prova di prelievi dai conti bancari intestati al R.D. attribuibili ai convenuti, come anche di vendite di animali appartenenti all’azienda; operò la suddivisione del patrimonio ereditario in relazione agli immobili ed all’azienda, prescindendo dalla percentuale di lavoro prestata dai comproprietari e stimando il valore dell’azienda, sulla base delle risultanze dell’espletata CTU, in Euro 1.461.715,00; determinò in 2/9 dei beni di proprietà esclusiva del de cuius ed in 4/36 dei beni che R.D. aveva in comunione con la coniuge la quota spettante ad R.A. ed ai convenuti, mentre determinò in 3/9 la quota di proprietà di S.G., deceduta in corso di causa; liquidò in favore dell’attrice la quota di Euro 324.825,55, pari a 2/9 del complessivo valore dell’azienda, e la quota di Euro 311.111,11, pari ai 2/9 della comunione ereditaria sui beni immobili; accolse la domanda di assegnazione dell’azienda agricola, dei beni mobili ed immobili ex art. 720 c.c., avanzata da R.S.P. e R.D.M., stante l’indivisibilità del patrimonio ai fini dell’esercizio dell’azienda agricola, e condannò questi ultimi a corrispondere all’attrice la somma di Euro 635.936,66 a titolo di conguaglio. R.A.M. propose appello, mentre R.S. e D. formularono appello incidentale soltanto in ordine alle spese di primo grado, poste a loro carico in misura di 2/3. La Corte di Appello di Milano, con sentenza n. 1038/2014 del 12 marzo 2014, rigettò tanto l’appello principale che quello incidentale. I giudici di secondo grado rilevarono che il Tribunale aveva ritenuto inammissibile (senza che sul punto vi fosse stata impugnazione) la domanda di ripartizione degli utili per il periodo di vigenza dell’impresa familiare, in quanto era stata così modificata l’originaria domanda volta alla “ripartizione degli utili dell’Azienda in proporzione delle quote di ciascuno dei partecipanti… attribuendo all’attrice una somma mensile dalla morte del padre alla data della decisione”, mentre, con il ricorso per la riassunzione della causa interrotta a seguito della morte della S., era stata, appunto, modificata al fine di ottenere la “ripartizione degli utili per il periodo di vigenza dell’impresa familiare” – e che tale inammissibilità non era stata oggetto di impugnazione. Pertanto, la Corte d’Appello ritenne corretta la pronuncia del Tribunale, dovendosi intendere che l’impresa familiare fosse cessata con la morte del titolare R.D. e che non poteva considerarsi caduta in successione la quota di comproprietà e partecipazione all’azienda, dovendo altrimenti l’appellante far valere “il ritenuto diritto di credito nei confronti dell’asse ereditario”. Ancora, la Corte di Milano condivise la statuizione del Tribunale secondo cui R.A. non aveva analiticamente contestato il rendiconto depositato dai convenuti. La sentenza impugnata evidenziò come la CTU avesse calcolato la reddività aziendale sulla base di tutta la documentazione contabile e bancaria prodotta ad integrazione del rendiconto. La Corte d’appello condivise altresì la valutazione di indivisibilità delle proprietà fondiarie operata dal primo giudice, in quanto beni strumentali all’esercizio dell’azienda agricola, che non risultava affatto cessata o in liquidazione. I giudici di secondo grado non accolsero nemmeno le censure sulla valutazione degli immobili, ed in particolare dei fabbricati rurali e dei terreni, i primi destinati ad abitazione ed in cattivo stato di manutenzione ed i secondi vincolati all’attività aziendale agricola.
1. Il primo motivo di ricorso di R.A., C.P.R., B.P.E. e R.E. lamenta la “errata e falsa applicazione di norme di diritto ai fatti controversi ex art. 360, n. 3, per erronea interpretazione della domanda attorea di accertamento e di condanna dei convenuti per il credito derivante dalla partecipazione ad impresa familiare in relazione all’art. 112 c.p.c. e art. 230 bis c.p.c.”. Sostengono i ricorrenti che la domanda di R.A.M. era stata formulata fin dall’origine nei confronti di tutti i soggetti parti in causa quali eredi di R.D. e, a seguito della riassunzione del procedimento, quali eredi di S.G. e che tale domanda, a prescindere dalle espressioni utilizzate, “altro non era che una richiesta di accertamento e di conseguente condanna al pagamento di un credito”.
Il secondo motivo ricorso censura l'”omessa, falsa, contraddittoria interpretazione e valutazione della volontà della parte istante ex art. 360 c.p.c., n. 5, per il mancato esame della domanda in relazione alla impugnazione del capo della sentenza riguardante l’inammissibilità della modifica della domanda attorea in primo grado”. La Corte di Appello sarebbe incorsa in un vizio di errata interpretazione della domanda giudiziale – “error in procedendo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5” -, per aver omesso di pronunciarsi sul motivo di impugnazione ritraibile a pagina 9 e 10 dell’atto di gravame (relativo alla “omessa valutazione ed efficacia delle decisione del giudice del lavoro”) ed a pagina 25 dello stesso.
Il terzo motivo di ricorso è rubricato “omessa, falsa, contraddittoria interpretazione e valutazione della volontà della parte instante ex art. 360 c.p.c., n. 5, per l’erronea qualificazione degli atti processuali e della domanda attorea in primo grado relativa alla asserita mancata contestazione del rendiconto offerto dai convenuti”. Si prospetta come fosse evidente la volontà dell’attrice di non accettare il “rendiconto” avversario, tenuto conto della relativa contestazione contenuta nella memoria autorizzata depositata in data 29 febbraio 2000 e della richiesta di presentazione del rendiconto ribadita nelle conclusioni precisate durante il procedimento di primo grado.
Il quarto motivo di ricorso lamenta l'”omessa, falsa, contraddittoria interpretazione e valutazione della volontà della parte istante ex art. 360 c.p.c., n. 5, per l’erronea interpretazione degli atti processuali e della domanda attorea relativamente all’intervenuta cessazione di ogni attività dell’azienda caduta in successione e della sua conseguente divisibilità”. La Corte di Appello avrebbe integralmente omesso di prendere in considerazione le dichiarazioni dei convenuti, contenute nella memoria di replica del giudizio di appello, con le quali gli stessi avevano riconosciuto che l’attività aziendale era ormai cessata per la parte relativa all’allevamento delle vacche da latte e che fosse in via di liquidazione definitiva per la restante parte. Di conseguenza, il complesso aziendale non sarebbe più esistente e l’indivisibilità accertata dal c.t.u. di primo grado, in funzione della conservazione dell’attività aziendale, sarebbe da ritenere irrilevante per la mutata situazione di fatto.
2. La connessione sussistente tra i quattro motivi rende opportuna la loro trattazione unitaria.
Il secondo, il terzo ed il quarto motivo, accomunati dall’invocazione del parametro di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, rivelano diffusi profili di inammissibilità. Come si è visto, viene con essi censurata l'”omessa, falsa, contraddittoria interpretazione e valutazione della volontà della parte istante” quanto ad un motivo d’appello (inerente al capo della sentenza del Tribunale sulla inammissibilità della modifica della domanda originaria), all’avvenuta contestazione del rendiconto prodotto dai convenuti ed alla intervenuta cessazione di ogni attività dell’azienda caduta in successione, cessazione che ne avrebbe, quindi, giustificato l’attuale divisibilità.
L’interpretazione di questa Corte ha però chiarito come l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, abbia introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Pertanto, l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. Sez. U, 07/04/2014, n. 8053). Costituisce, pertanto, un “fatto”, agli effetti dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non una “questione” o un “punto”, ma un vero e proprio “fatto”, in senso storico e normativo, un preciso accadimento ovvero una precisa circostanza naturalistica, un dato materiale, un episodio fenomenico rilevante (Cass. Sez. 1, 04/04/2014, n. 7983; Cass. Sez. 1, 08/09/2016, n. 17761; Cass. Sez. 5, 13/12/2017, n. 29883; Cass. Sez. 5, 08/10/2014, n. 21152; Cass. Sez. U., 23/03/2015, n. 5745; Cass. Sez. 1, 05/03/2014, n. 5133). Non costituiscono, viceversa, “fatti”, il cui omesso esame possa cagionare il vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5: le argomentazioni o deduzioni difensive (Cass. Sez. 2, 14/06/2017, n. 14802: Cass. Sez. 5, 08/10/2014, n. 21152); gli elementi istruttori; una moltitudine di fatti e circostanze, o il “vario insieme dei materiali di causa” (Cass. Sez. L, 21/10/2015, n. 21439); le domande o le eccezioni formulate nella causa di merito, ovvero i motivi di appello, giacchè essi rappresentano, piuttosto, i fatti costitutivi della “domanda” in sede di gravame, la cui mancata considerazione perciò integra la violazione dell’art. 112 c.p.c., rendendo piuttosto ravvisabile la fattispecie di cui dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 e quindi imponendo un univoco riferimento del ricorrente alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione, con la conseguenza che va dichiarato inammissibile il gravame allorchè sostenga che la motivazione al riguardo sia mancante o insufficiente o si limiti ad argomentare sulla violazione di legge (Cass. Sez. 2, 22/01/2018, n. 1539; Cass. Sez. 6-3, 08/10/2014, n. 21257; Cass. Sez. 3, 29/09/2017, n. 22799; Cass. Sez. 6-3, 16/03/2017, n. 6835). Altrettanto inammissibile è l’invocazione del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, per sostenere che il rendiconto presentato dai convenuti, che la sentenza impugnata ha definito non “analiticamente contestato”, fosse stato invece contestato nella memoria difensiva del 29 febbraio 2000. Il fatto, di cui sia stato omesso l’esame, ai fini dell’art. 360 c.p.c., n. 5, deve essere stato altresì “oggetto di discussione fra le parti”, sicchè deve trattarsi necessariamente di un fatto “controverso”, e cioè contestato, non dato per pacifico tra le parti. Se il giudice afferma in sentenza, viceversa, che un fatto è esistente o provato, perchè pacifico o non contestato, e quindi non “discusso”, il fatto è stato così comunque oggetto di esame nella sentenza impugnata, e, se vuole censurarsi tale punto della decisione, si rimane sempre al di fuori del vizio ex art. 360 c.p.c., n. 5, potendosi configurare o una violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, o una violazione dell’art. 115, comma 1 (ove applicabile ratione temporis), art. 167 c.p.c., comma 1, art. 183, c.p.c. e art. 2697 c.c.. Ed ancora, se il giudice di merito abbia ritenuto operante la disciplina dettata dall’art. 720 c.c., per gli immobili non comodamente divisibili, nella specie con riguardo ad un’azienda, considerando, sulla scorta di una CTU espletata, il pregiudizio al valore economico delle porzioni rispetto all’intero che la divisione comporterebbe, non è altrettanto prospettabile un omesso esame di fatto ex art. 360 c.p.c., n. 5, con riferimento alla deduzione difensiva di un’attività “in via di cessazione” ed in parte già cessata, che si assume compiuta dagli appellati addirittura nella memoria di replica del giudizio di secondo grado, atto che per sua natura consente solo di replicare alle deduzioni avversarie ed illustrare ulteriormente le tesi difensive già enunciate nelle comparse conclusionali e non anche di esporre fatti nuovi o formulare nuove questioni, sui quali, pertanto, il giudice non può e non deve affatto pronunciarsi.
Quanto poi alla qualificazione della domanda proposta da R.A. ed ai profili devoluti in sede di appello, la Corte di Milano ha ben evidenziato: come l’originaria domanda fosse volta alla “ripartizione degli utili dell’Azienda in proporzione delle quote di ciascuno dei partecipanti… attribuendo all’attrice una somma mensile dalla morte del padre alla data della decisione”; che in corso di causa tale domanda era poi stata inammissibilmente modificata nel senso di ottenere una ripartizione degli utili per il periodo di vigenza dell’impresa familiare; che, infine, la declaratoria di inammissibilità correlata a siffatta mutatio libelli non era stata oggetto di specifico motivo di appello. Non è in ciò ravvisabile alcuna violazione dell’art. 112 c.p.c., nè di norma sostanziale (art. 230 bis c.c.), come dedotto nel primo motivo, avendo il giudice di merito così proceduto, sulla base di accertamento di fatto al medesimo riservato, all’indagine diretta all’individuazione del contenuto e della portata delle domande sottoposte alla sua cognizione, con riguardo al contenuto sostanziale della pretesa fatta valere. Per i ricorrenti la domanda di “accertamento delle quote e di ripartizione degli utili” nient’altro era che la domanda di condanna al pagamento di un credito e in ogni caso alcuna inammissibile modifica di domanda doveva ravvisarsi con riferimento alla pretesa di ripartizione degli utili maturati durante l’attività dell’impresa familiare. La Corte di Milano ha invece fatto corretta applicazione dei principi giurisprudenziali, che vanno qui ribaditi, secondo cui l’esercizio di un’impresa familiare è incompatibile con la disciplina societaria, attesa non solo l’assenza nell’art. 230 bis c.c., di ogni previsione in tal senso, ma, soprattutto, l’irriducibilità ad una qualsiasi tipologia societaria della specifica regolamentazione patrimoniale ivi prevista in ordine alla partecipazione del familiare agli utili ed ai beni acquistati con essi, nonchè agli incrementi dell’azienda, che sono determinati in proporzione alla quantità ed alla qualità del lavoro prestato e non alla quota di partecipazione, ponendosi altresì il riconoscimento di diritti corporativi al familiare del socio in conflitto con le regole imperative del sistema societario (Cass. Sez. U, 06/11/2014, n. 23676). A differenza dell’impresa collettiva esercitata per mezzo di società semplice, la quale appartiene per quote, eguali o diverse, a più persone (artt. 2251 c.c. e segg.), l’impresa familiare, di cui all’art. 230 bis c.c., appartiene, dunque, solo al suo titolare, anche nel caso in cui alcuni beni aziendali siano di proprietà di uno dei familiari, mentre i medesimi familiari partecipanti hanno solo diritto ad una quota degli utili; ne consegue che, in caso di morte del titolare, non è applicabile la disciplina dettata dall’art. 2284 c.c., che regola lo scioglimento del rapporto societario limitatamente ad un socio, e quindi la liquidazione della quota del socio uscente di società di persone, ma l’impresa familiare cessa ed i beni di cui è composta passano per intero nell’asse ereditario del de cuius, mentre rispetto a tali beni i componenti dell’impresa familiare possono vantare solo un diritto di credito commisurato ad una quota dei beni o degli utili e degli incrementi e un diritto di prelazione sull’azienda (cfr. Cass. Sez. L, 15/04/2004, n. 7223).
Pertanto, in relazione ad un’azienda compresa in un asse ereditario gestita in forma di impresa familiare, è evidente come, avendosi riguardo a diritti eterodeterminati, rispetto ad un’iniziale domanda rivolta da un coerede nei confronti degli altri coeredi al fine di conseguire una quota dell’azienda e la conseguente ripartizione degli utili (sul presupposto dell’esistenza di quote in base alle quali determinare gli utili da distribuire), dia luogo ad una mutatio libelli, avuto riguardo al fatto costitutivo allegato dalla parte come al bene giuridico preteso, la richiesta diretta a conseguire gli utili ancora dovuti, in rapporto alla quantità e qualità del lavoro prestato, al momento della cessazione del rapporto di collaborazione, segnata dalla morte del titolare dell’impresa.
Quanto, inoltre, al terzo motivo di ricorso, la Corte d’Appello, oltre a far leva sul principio per cui il rendiconto che i condividenti di una divisione ereditaria si devono rendere, a norma dell’art. 723 c.c., deve essere oggetto di specifiche e concrete contestazioni in ordine alle varie partite conteggiate, ha aggiunto, con distinta ed autonoma ratio decidendi, che il rendiconto era stato altresì integrato dai documenti giustificativi acquisiti e valutati dal CTU.
Sul quarto motivo, va infine considerato come, in tema di scioglimento di una comunione ereditaria avente ad oggetto un compendio immobiliare, l’accertamento del requisito della comoda divisibilità del bene, ai sensi dell’art. 720 c.c.(disciplina, come già detto, applicabile, in via di interpretazione estensiva, anche all’azienda, ove il frazionamento determini il vanificarsi dell’avviamento commerciale o la riduzione della produttività dei singoli lotti, atteso che la comoda divisibilità di cui alla norma citata presuppone, fra l’altro, che la divisione non importi un pregiudizio al valore economico delle porzioni rispetto all’intero: in tal senso già Cass. Sez. 2, 26/04/1983, n. 2861; Cass. Sez. 2, 07/05/1987, n. 4233) è riservato all’apprezzamento di fatto del giudice del merito, incensurabile in sede di legittimità, se sorretto, come nel caso in esame, da motivazione congrua, coerente e completa (Cass. Sez. 2, 21/05/2003, n. 7961).
3. Il ricorso va dunque rigettato e, in ragione della soccombenza, i ricorrenti vanno condannati a rimborsare le spese del giudizio di legittimità, liquidate in dispositivo, in favore dei controricorrenti.
Sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, che ha aggiunto il comma 1-quater del Testo Unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 – dell’obbligo di versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione integralmente rigettata.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna in solido i ricorrenti a rimborsare ai controricorrenti le spese sostenute nel giudizio di cassazione, che liquida in complessivi Euro 5.800,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre a spese generali e ad accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 27 giugno 2018.
Depositato in Cancelleria il 18 ottobre 2018
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