LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DI IASI Camilla – Presidente –
Dott. CAMPANILE Pietro – rel. Consigliere –
Dott. ZOSO Liana Maria Teresa – Consigliere –
Dott. STALLA Giacomo Maria – Consigliere –
Dott. CARBONE Enrico – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 2840/2014 proposto da:
AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
ABBEY LIFE ASSURANCE COMPANY LIMITED, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA PIAZZA DEL POPOLO 18, presso lo studio dell’avvocato FABRIZIO FABIO AROSSA, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato ENRICO CASTELLANI giusta delega in calce;
– controricorrente –
avverso il provvedimento n. 1/2013 della COMM. TRIB. REG. SEZ. DIST.
di PESCARA, depositata il 10/01/2013;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 21/09/2017 dal Consigliere Dott. PIETRO CAMPANILE;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. ZENO Immacolata, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso;
udito per il ricorrente l’Avvocato DE BONIS che ha chiesto l’accoglimento;
udito per il controricorrente l’Avvocato CASTELLANI che ha chiesto il rigetto.
FATTI DI CAUSA
1. La società Abbey Life Assurance Company Limited, con sede in *****, impugnava il provvedimento con il quale il Centro operativo di ***** aveva rigettato le proprie istanze di rimborso del credito di imposta sui dividendi su titoli azionari emessi da società italiane avanzate ai sensi dell’art. 10, comma 4 della Convenzione per evitare le doppie imposizioni fra Italia e Regno Unito, ratificata con L. 5 novembre 1990, n. 329.
2. Con sentenza n. 257/1/2009 la CTP di Pescara rigettava il ricorso.
Con la decisione indicata in epigrafe la CTR di L’Aquila, sez. dist. di Pescara, ha ritenuto sussistente la legittimazione della società assicuratrice, rilevando che dalla documentazione acquisita risultava che essa era l’effettiva beneficiaria delle azioni italiane, in quanto il Fondo pensioni che ad essa faceva capo costituiva un patrimonio di destinazione privo di soggettività giuridica.
3. Nel merito della questione, ha ritenuto la fondatezza del diritto al rimborso, sia in base all’orientamento di legittimità secondo cui in materia di doppia imposizione rileverebbe il mero assoggettamento del dividendo alla potestà impositiva dell’altro Stato, indipendentemente dall’effettivo pagamento dell’imposta, sia perchè doveva affermarsi la decadenza dell’Ufficio, ritenendosi applicabile il termine all’uopo previsto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43.
4. Per la cassazione di tale decisione propone l’Agenzia delle Entrate propone ricorso, affidato a tre motivi, cui la società resiste con controricorso, illustrato da memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione dell’art. 10 della Convenzione stipulata tra Italia e Regno Unito per evitare doppie imposizioni, approvata e resa esecutiva con L. 5 dicembre 1990, n. 329, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, si sostiene l’inadeguatezza del presupposto ritenuto sussistente nella decisione impugnata ai fini del diritto al rimborso del credito d’imposta, vale a dire la dimostrata soggezione dei dividendi alla tassazione da parte dell’Amministrazione finanziaria britannica (essendosi accertato che i dividendi in questione risultavano inclusi tra i redditi rilevanti ai fini della determinazione delle imposte dirette ivi dovute), senza che assumessero rilevanza eventuali norme agevolative che di fatto limitavano la tassazione nel Regno Unito. Si deduce, al riguardo, che, anche al lume della Comunicazione della Commissione Europea al Parlamento Europeo in data 11 novembre 2011 “non vi è doppia imposizione se non c’è effettivo pagamento di imposte nell’altro Stato”: la ratio della disposizione convenzionale, come affermato da questa Corte (Cass., n. 5943 del 2009 e Cass., n. 4164 del 2013), “esige non solo il pagamento e la conseguente riscossione dei dividendi, ma anche la loro tassazione nel paese beneficiario dei dividendi”.
Nella specie, mancando il presupposto di una effettiva doppia imposizione, in virtù del regime di esenzione fiscale di cui usufruiscono nel Regno Unito i redditi relativi al ramo pensionistico, la domanda non avrebbe potuto essere accolta.
2. Con il secondo mezzo si deduce la violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, in ogni caso non applicabile nell’ipotesi di istanza di rimborso del credito di imposta prevista dalla convenzioni internazionali.
3. La terza censura attiene al richiamato del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, nonchè agli artt. 2033 e 2936 c.c., ricorrendo nella specie un’ipotesi di indebito oggettivo, soggetto all’ordinario termine di prescrizione decennale.
4. Il primo motivo è infondato.
La questione non può essere risolta con esclusivo riferimento alla disciplina pattizia, dovendosi tener conto della portata della sentenza della Corte di Giustizia CE del 19 novembre 2009 (causa C-540/07 relativa a giudizio proposto dalla Commissione CE nei confronti della Repubblica Italiana).
Tale decisione riguarda la compatibilità con le disposizioni comunitarie del regime nazionale di ritenuta alla fonte sui dividendi in uscita, in quanto (all’epoca) prevedente, per i dividendi distribuiti a società stabilite negli altri Stati membri e negli Stati aderenti all’Accordo SEE, un regime di imposizione diretta più oneroso rispetto a quello applicato ai dividendi domestici.
Va infatti considerato che dal 1 gennaio 2004 (data di entrata in vigore del decreto legislativo 344/03 istitutivo dell’IRES) il regime di tassazione dei dividendi domestici ha abbandonato il previgente criterio della tassazione provvisoria con attribuzione di un credito d’imposta alla società percipiente, a favore del criterio di tassazione definitiva del 5% del dividendo, con esclusione dal reddito imponibile del restante 95% (art. 89 T.U.I.R.: c.d. “participation exemption”). Là dove i dividendi su estero erano assoggettati – sulla base del combinato disposto di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 27,comma 3, ed alle varie convenzioni bilaterali in materia, quale quella stipulata con la Francia – a tassazione integrale mediante ritenuta alla fonte del 15%. Soltanto a far data dal 1 gennaio 2008, con l’introduzione all’art. 27 cit., comma 3 ter, il regime di tassazione dei dividendi corrisposti alle società UE e SEE si è allineato al regime interno, mediante applicazione di una ritenuta ridotta con aliquota dell’1,375% (pari al 5% dell’aliquota Ires vigente).
5. La Corte di giustizia ha rilevato (p.p. 35-40) l’infondatezza dell’eccezione della Repubblica Italiana secondo cui i dividendi distribuiti a società stabilite in altri Stati membri non sarebbero in realtà trattati diversamente dai dividendi distribuiti a società residenti, in quanto le convenzioni contro la doppia imposizione permetterebbero di detrarre l’imposta trattenuta alla fonte in Italia da quella dovuta nell’altro Stato membro: In proposito si è osservato che, pur avendo la giurisprudenza della CG, in effetti, ammesso la possibilità che uno Stato membro garantisse il rispetto del Trattato stipulando una convenzione contro la doppia imposizione con un altro Stato membro (sentenze Test Claimants in Class IV of the ACT Group Litigation, punto 71, e Amurta, punto 79), tanto deve avvenire a condizione “che l’applicazione della convenzione contro la doppia imposizione permetta di compensare gli effetti della differenza di trattamento derivante dalla normativa nazionale”; giacchè “solo nell’ipotesi in cui l’imposta trattenuta alla fonte, in applicazione della normativa nazionale, possa essere detratta dall’imposta, dovuta nell’altro Stato membro, per un ammontare pari alla differenza di trattamento derivante dalla normativa nazionale, la differenza di trattamento tra i dividendi distribuiti a società stabilite in altri Stati membri e i dividendi distribuiti alle società residenti scompare totalmente”… “l’imputazione presuppone segnatamente che i dividendi provenienti dall’Italia siano sufficientemente tassati nell’altro Stato membro”, posto che “se tali dividendi non sono tassati o se non lo sono a sufficienza, la somma ritenuta alla fonte in Italia o una frazione di essa non può essere detratta. In tal caso la differenza di trattamento derivante dall’applicazione della normativa nazionale non può essere compensata dall’applicazione delle previsioni della convenzione contro la doppia imposizione”. Inoltre, “la scelta di tassare nell’altro Stato membro i redditi provenienti dall’Italia o il livello a cui sono tassati non dipende dalla Repubblica Italiana, ma dalle modalità di imposizione definite dall’altro Stato membro”: priva di fondamento era dunque la tesi difensiva della Repubblica Italiana, volta a sostenere “che l’imputazione dell’imposta ritenuta alla fonte in Italia sull’imposta dovuta nell’altro Stato membro, in applicazione delle previsioni delle convenzioni contro la doppia imposizione, consenta in ogni caso di compensare la differenza di trattamento derivante dall’applicazione della normativa nazionale”. Ne conseguiva che la stipulazione di una convenzione contro la doppia imposizione non era di per sè tale, in mancanza delle condizioni di effettiva compensabilità, da evitare che “i dividendi distribuiti a società stabilite in altri Stati membri non siano, in definitiva, trattati diversamente dai dividendi distribuiti alle società residenti”.
6. Tale decisione ha dunque evidenziato come l’eliminazione della “disparità di trattamento” tra società percipienti in ambito UE o SEE rispetto alle percipienti italiane si ponga su un piano diverso rispetto al problema della “doppia imposizione”; tanto che la stipulazione, da parte dello Stato membro, di una convenzione finalizzata ad elidere, o quantomeno limitare, quest’ultimo fenomeno potrebbe lasciare integra la disparità di trattamento, allorquando la società percipiente in altro Stato membro non abbia modo di compensare in tale Stato l’imposta pagata in Italia (a mezzo di ritenuta); e ciò in quanto colà non tassata, ovvero non tassata a sufficienza, nei dividendi provenienti dall’Italia.
7. Tanto premesso, deve ribadirsi la necessità di applicare quanto stabilito dalla sentenza CG 2009 citata, costituente vera e propria fonte normativa di origine comunitaria e, come tale, suscettibile di applicazione diretta pur in difetto di richiamo ad opera della parte interessata, e ciò anche in sede di disapplicazione di quella disciplina interna (D.P.R. n. 600 del 1973 cit., art. 27, comma 3) che risultasse in contrasto, per i suoi effetti discriminatori, con i principi UE da essa individuati (sull’efficacia vincolante retroattiva erga omnes delle sentenze CG UE, si rinvia a Cass. 2468/16 ord., con ulteriori richiami).
Mette conto di precisare che la portata sostanziale della domanda aveva ad oggetto proprio il ripristino di un trattamento paritario nella tassazione dei dividendi transfrontalieri rispetto al regime interno; trattamento paritario che era stato dedotto in giudizio sotto il profilo della eliminazione della doppia imposizione, ma che ben poteva (doveva) rilevare anche sul piano della diretta applicazione del diritto comunitario, ove finalizzato all’eliminazione della lamentata disparità. Sicchè, l’avere la società contribuente richiesto il riconoscimento del “credito inesistente” non ostava – nè sul piano sostanziale della rimozione della discriminazione denunciata, nè su quello processuale della immutazione della domanda – a che tale credito le venisse riconosciuto (in presenza, ben inteso, di tutti gli altri requisiti) nei limiti del rimborso della ritenuta sopportata in eccesso. Il che, del resto, era quanto la stessa amministrazione finanziaria andava in altri casi disponendo in forza della su menzionata circolare, come anche rilevato dalla successivamente mutata giurisprudenza di merito della CTR Pescara (competente sulle istanze di rimborso al COP).
Si verificava, in definitiva, proprio quella stessa situazione evidenziata dalla sentenza CG C-540/07, nella quale la “non tassazione” (ovvero la “insufficiente tassazione”) nel Regno Unito preclude l’effetto compensativo e di riequilibrio della doppia imposizione economica subita in Italia; effetto compensativo invece perseguito dal credito d’imposta richiesto.
Secondo la citata sentenza CG, come detto, la sola stipulazione della Convenzione bilaterale contro la doppia imposizione non vale, di per sè, a ritenere adempiuti gli obblighi comunitari; potendosi escludere il rimborso solo nell’ipotesi (suscettibile di accertamento fattuale da parte del giudice di merito) in cui lo stesso effetto economico (compensativo) sia stato conseguito dalla società percipiente nel proprio Paese UE di residenza, così da potersi escludere in radice la permanenza degli effetti pregiudizievoli della “doppia imposizione” economica subita in Italia. Va pertanto considerato, che, in virtù del regime di esenzione del quale usufruiscono nel Regno Unito i redditi inerenti al regime pensionistico, deve ritenersi insussistente un prelievo fiscale “compensabile” in detto Stato, con conseguente fondatezza della domanda proposta dalla società resistente.
8. In tal senso si è già espressa questa Corte (Cass. n. 23431/10), la quale, richiamando l’analoga previsione della convenzione bilaterale italo-svizzera contro le doppie imposizioni (recante la previsione di una competenza impositiva dello Stato di pagamento dei dividendi concorrente con quella principale dello Stato di residenza del percipiente con il limite dell’aliquota massima del quindici per cento), ha affermato che “appare più aderente allo spirito ed agli scopi della suddetta Convenzione ritenere, in forza della disposizione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 75, che la disciplina di cui all’art. 27 del medesimo decreto non trovi applicazione in materia, ed interpretare perciò la norma convenzionale in questione nel senso che la minore imposta ivi prevista è applicabile per il solo fatto della soggezione del dividendo alla potestà impositiva principale dell’altro Stato, indipendentemente dall’effettivo pagamento dell’imposta. La sufficienza del solo fattore in sè della esistenza del potere impositivo principale dell’altro Stato, deve ritenersi infatti coerente con le finalità delle convenzioni bilaterali contro le doppie imposizioni, le quali hanno la funzione di eliminare la sovrapposizione dei sistemi fiscali nazionali, onde evitare che i contribuenti subiscano un maggior carico fiscale sui redditi percepiti all’estero ed agevolare l’attività economica e d’investimento internazionale (Cass. 1231/01, 2532/01)”.
Non è dunque corretto subordinare il rimborso della ritenuta alla circostanza che la società percipiente estera abbia effettivamente “sborsato”, nel Paese UE di residenza, l’imposta sul dividendo proveniente dall’Italia; risultando per contro (necessario e) sufficiente che tale dividendo concorra alla formazione del reddito complessivo, ancorchè non sussista effettivo prelievo fiscale.
Questa conclusione si avvalora, del resto, anche sul piano della doppia imposizione in senso economico; dal momento che, ove si escludesse il rimborso della ritenuta non compensabile nello Stato UE di residenza, la stessa ricchezza verrebbe tassata sia in capo alla società erogante che ha prodotto l’utile, sia in capo alla società percipiente il dividendo. E ciò, si è detto, concreta al contempo una discriminazione della percipiente UE rispetto alla percipiente nazionale, fruitrice – già nel periodo di riferimento – di un regime di sostanziale detassazione dei dividendi percepiti.
9. In tali termini, così integrata la motivazione della decisione impugnata, il cui dispositivo è conforme al diritto, il ricorso si rileva infondato, dovendosi per altro constatare come l’infondatezza della censura riguardante la ragione della decisione inerente alla sussistenza del diritto fatto valere dalla società Abbey renda inammissibili gli ulteriori motivi concernenti l’altra ed autonoma ratio fondata sulla decadenza dell’Amministrazione (Cass., 27 luglio 2017, n. 118641; Cass., 1 giugno 2017, n. 15350; Cass. Sez. U, 29 marzo 2013, n. 7931).
10. Le spese del presente giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese relative al presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 4.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre agli accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 21 settembre 2017.
Depositato in Cancelleria il 19 ottobre 2018