Corte di Cassazione, sez. V Civile, Ordinanza n.26389 del 19/10/2018

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GRECO Antonio – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – rel. Consigliere –

Dott. BERNAZZANI Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso proposto da:

RESTAURO SRL, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avv. CILLO Giovanni Antonio del Foro di Avellino, con domicilio eletto in ROMA, VIA GIUSEPPE GALATI N. 100/C, presso lo studio dell’avv. GIARDIELLO Enzo.

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del direttore pro tempore, rappresentata dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio legale in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI, n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato. – controricorrente avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania, sezione staccata di Salerno, sezione n. 9, n. 4/09/12, pronunciata il 16/11/2011, depositata il 19/01/2012.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 17 gennaio 2018 dal Consigliere Dott. GUIDA Riccardo.

RITENUTO IN FATTO

La Restauro s.r.l., con sede legale in *****, ricorre, articolando due motivi, cui resiste l’Agenzia delle entrate con controricorso, per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania (in seguito: CTR) indicata in epigrafe che – in controversia relativa all’impugnazione di un avviso di accertamento con cui l’Agenzia delle entrate di Avellino ha rettificato il reddito imponibile della società per l’anno 2005, recuperando a tassazione ricavi non dichiarati, con conseguente liquidazione in aumento di IRES (Euro 166.716,81), IRAP (Euro 21.471,92) e IVA (Euro 96.540,91), oltre alle sanzioni e agli accessori – ha rigettato l’appello della contribuente ed ha confermato la sentenza di primo grado, che aveva accolto parzialmente il ricorso della società, riconoscendo costi deducibili (contestati dall’Ufficio) per Euro 31.713,00 e, per il resto, era stata sfavorevole alla contribuente.

I giudici d’appello hanno escluso la nullità dell’avviso di accertamento ritenendo che la motivazione per relationem in esso contenuta, recante un rinvio agli atti istruttori della GdF, fosse sufficiente a soddisfare l’onere di motivazione a carico dell’Ufficio, e, ancora, che le gravi irregolarità contabili della società riscontrate durante la verifica fiscale giustificassero l’accertamento analitico dei redditi ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, lett. d); nel merito, la CTR ha confermato la correttezza e l’esaustività della motivazione della sentenza di primo grado.

La difesa della ricorrente ha depositato una memoria nel quale ha dato atto del fallimento della società.

CONSIDERATO IN DIRITTO

In via pregiudiziale, l’intervenuto fallimento della Restauro Srl, dichiarata dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere con sentenza n. 108/2012, evidenziata dalla difesa della stessa società, nella memoria ex art. 308-bis cod. proc. civ., non ha rilevanza in questo giudizio di legittimità.

In questo grado del processo, infatti, la L. Fall., art. 43, comma 3, secondo cui l’apertura del fallimento determina l’interruzione del processo, non comporta l’interruzione del giudizio in corso, in sede di legittimità, posto che per quest’ultimo – dominato dall’impulso d’ufficio – non trovano applicazione le comuni cause d’interruzione del processo previste dalla legge (cfr., ex multis, Cass. 15/11/2017, n. 27143).

1. Passando adesso all’esame dei motivi del ricorso, il primo di essi censura la violazione e la falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, della L. 27 luglio 2000, n. 212, artt. 6 e 7 e: “In subordine, violazione e falsa applicazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5. Omessa, insufficiente e/o carente motivazione”, in quanto la CTR, da un lato, si è limitata a riportare le anomalie puramente formali delle scritture contabili denunciate dall’Ufficio (mancata sottoscrizione del bilancio da parte del legale rappresentante della società; mancata produzione del prospetto delle opere triennali in corso di esecuzione), “senza però fornire alcuna valida motivazione sulla legittimità del ricorso all’accertamento D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 39” (cfr. pag. 4 del ricorso); d’altro canto, essa ha omesso di motivare sulla dedotta nullità dell’avviso di accertamento, che non ha riprodotto gli atti istruttori compiuti dalla GdF, e li ha solo richiamati in modo generico, con ciò impedendo alla contribuente di approntare un’adeguata difesa.

1.1. Il motivo è inammissibile e infondato.

Esso cumula in sè, in modo confuso, una pluralità di censure collegate, indistintamente, alla violazione di legge e all’omessa e insufficiente motivazione, in tal modo demandando, inammissibilmente, al giudice di legittimità il compito di sostituirsi al ricorrente nell’esatta individuazione del rilievo critico che è rivolto alla decisione impugnata (Cass. 5/04/2017, n. 8787).

Sul piano formale, il mezzo difetta di specificità e autosufficienza.

La ricorrente ha omesso di trascrivere il contenuto o, quanto meno, i passi salienti dell’avviso di accertamento, a suo giudizio affetto da “nullità insanabile”, ai sensi della L. n. 212 del 2000, art. 6, e neppure ha indicato dove e quando lo stesso atto è stato prodotto nel giudizio di merito, onde permettere a questa Corte d’apprezzare adeguatamente la fondatezza della censura (Cass. 13/11/2017, n. 26718).

Inoltre, la sentenza impugnata illustra con chiarezza i presupposti di fatto – ossia le gravi irregolarità contabili – che giustificavano il ricorso all’accertamento analitico del reddito della società, relativo al periodo d’imposta 2005, ai sensi dell’art. 39, comma 1, lett. d), cit..

La CTR ha correttamente disatteso la censura concernente la mancata allegazione, all’atto impositivo, dei verbali della GdF riferiti a “presunti fornitori”, specificamente indicati in sentenza (Laterfer di V.A. e Comelfer di R.O.) reputando sufficiente una motivazione dell’avvio di accertamento per relationem, mediante il richiamo del contenuto degli atti istruttori della GdF.

E’ il caso di rilevare, altresì, che dalla narrativa del ricorso – che, come sopra evidenziato, deve essere “autosufficiente” a pena d’inammissibilità non risulta se la società abbia mai eccepito, prima d’ora, in sede amministrativa o contenziosa, di non avere conosciuto gli atti istruttori che hanno condotto all’emersione di operazioni di compravendita di beni (soggettivamente o oggettivamente) inesistenti.

2. Il secondo motivo denuncia: “violazione e falsa applicazione delle norme di diritto in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 – Violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39 comma 1, lett. d) e norme collegate – Violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7 e norme collegate – Violazione e falsa applicazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3 in relazione all’art. 115 e 116 c.p.c.” in quanto, testualmente: “i giudici di entrambi i gradi di giudizio hanno errato clamorosamente quando hanno espressamente deliberato che, essendo onere del contribuente dimostrare l’effettiva sussistenza delle operazioni contestate, essa società non avrebbe adempiuto a tanto.” (cfr. pagg. 8 e 9 del ricorso).

La ricorrente si duole che la CTR non abbia correttamente esaminato le risultanze probatorie e, in particolare, i documenti che la società ha allegato a dimostrazione dell’effettività di alcuni costi, registrati in bilancio, che l’Agenzia delle entrate aveva ritenuto, erroneamente, non deducibili (spese per operai impegnati in alcuni cantieri aperti in Umbria; spese di assicurazione di un’autovettura Mercedes; costi per l’acquisto di carburante per automezzi aziendali).

Lamenta, altresì, che la CTR ha anche escluso la deducibilità di alcuni costi, riguardanti l’acquisto di beni, e la detraibilità ai fini dell’IVA, per il carattere fittizio delle operazioni, desunto dall’accertata inesistenza o irreperibilità delle società venditrici, senza applicare correttamente le regole probatorie che disciplinano la materia, secondo cui il recupero a tassazione è escluso quando si tratti, come nella specie, di operazioni (solo) soggettivamente inesistenti e quando consti la buona fede dell’acquirente/contribuente.

2.1. Il motivo è inammissibile e infondato.

2.1.1. Dal primo punto di vista (inammissibilità del motivo), sotto l’apparenza della violazione e falsa applicazione di legge – secondo quanto si evince dal tenore letterale della doglianza – la ricorrente, in realtà, deduce un vizio di motivazione della sentenza d’appello.

Al giudice di legittimità, però, non può essere demandato il compito di sostituirsi al ricorrente nell’esatta individuazione del rilievo critico che è rivolto alla decisione impugnata (Cass. 5/04/2017, n. 8787).

A ciò si aggiunga che, come più volte ha stabilito questa Corte, il vizio di motivazione (inammissibilmente dedotto sotto le sembianze della violazione di legge), postula un giudizio critico sulla ricostruzione dei fatti giuridicamente rilevanti e l’allegazione di lacune e incoerenze, nel percorso argomentativo della sentenza di merito, talmente consistenti da impedire l’individuazione della ratio decidendi, aspetto, quest’ultimo, che non è stato nemmeno sommariamente adombrato in ricorso (Cass. 26/03/2014, n. 7040).

La censura è esposta in termini vaghi, che non oltrepassano la soglia della genericità; non vengono dedotti, in modo puntuale e circostanziato, fatti contrastanti con la struttura logico-giuridica della sentenza della CTR e neppure è allegata l’esistenza di elementi, concreti e obiettivi, assertivamente trascurati dal giudice di merito, attestanti l’effettività di certi acquisti, l’adombrata buona fede dell’acquirente e, ancora, il carattere solo soggettivamente inesistente delle compravendite oggetto dell’attività ispettiva della GdF.

La ricorrente si limita a criticare il valore e il significato che, in sentenza, è stato attribuito a certe circostanze di fatto, quali l’inesistenza o l’irreperibilità dei “presunti fornitori siti nella provincia di Avellino.” (cfr. pag. 13 del ricorso).

Il rilievo, teso a sollecitare, contra ius e in violazione dei limiti del sindacato di legittimità, una nuova valutazione dei fatti (succintamente richiamati), è in contrasto con il principio, più volte espresso da questa Corte, secondo cui il giudizio di legittimità non è un giudizio di merito di terzo grado, nel quale possono essere dedotti elementi di fatto già valutati dai giudici di merito, al fine di pervenire a un loro diverso apprezzamento (Cass. 14/03/2006, n. 5443).

In altre parole, quello per cassazione non è un terzo grado di giudizio nel quale è consentito fare valere l’ingiustizia della sentenza gravata; esso si configura, piuttosto, come un rimedio impugnatorio a critica vincolata e a cognizione determinata dalla natura dei vizi dedotti.

2.1.2. Dal secondo punto di vista (infondatezza del motivo), è il caso di richiamare il costante e condivisibile indirizzo di questa Corte in base al quale, qualora l’amministrazione finanziaria contesti al contribuente l’indebita detrazione di fatture ai fini IVA e di imposte dirette, in quanto relative ad operazioni inesistenti, spetta all’Ufficio fornire la prova, anche mediante presunzioni, che l’operazione commerciale non è mai stata posta in essere o non è stata posta in essere tra i soggetti indicati nella fattura, indicando gli elementi, anche indiziari, sui quali si fonda la conoscibilità della natura fittizia dell’operazione da parte del cessionario/committente che richiede la detrazione, mentre è onere del contribuente dimostrare la fonte legittima della detrazione e del costo altrimenti indeducibile e la sua mancanza di consapevolezza di partecipare ad un’operazione fraudolenta, non essendo sufficiente, a tal fine, la regolarità formale delle scritture o le evidenze contabili dei pagamenti, quali dati e circostanze agevolmente falsificabili (cfr., ex multis, Cass. 4/10/2017, n. 23166).

Nella specie, è dato rilevare che, a fronte dell’inesistenza o irreperibilità del soggetto cedente, accertata dall’Ufficio, quale indice dell’inesistenza dell’operazione commerciale e della conoscibilità del suo carattere fittizio, da parte del cessionario, la ricorrente non ha assolto al suindicato onere di fonte legittima della detrazione e del costo altrimenti indeducibile nonchè la propria buona fede.

3. Ne consegue il rigetto del ricorso.

4. Le spese processuali seguono la soccombenza.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso;

condanna la ricorrente a pagare alla controricorrente le spese processuali che liquida in Euro 5.000,00 a titolo di compenso, oltre alle spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 17 gennaio 2018.

Depositato in Cancelleria il 19 ottobre 2018

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