LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GRECO Antonio – Presidente –
Dott. CONDELLO Pasqualina A. Piera – rel. Consigliere –
Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –
Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –
Dott. DELL’ORFANO Antonella – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
EDIZIONE PROPERTY S.P.A. (già BENETTON GROUP S.P.A.), in persona del legale rappresentante, rappresentata e difesa, anche disgiuntamente, dagli avv.ti LUPI Raffaello, STEVANATO Dario e LUCISANO Claudio, con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo in ROMA, VIA CRESCENZIO, N. 91;
– ricorrente –
contro
AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, alla VIA PORTOGHESI, N. 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO che la rappresenta e difende come per legge;
– resistente –
avverso la sentenza n. 76/25/10 della Commissione Tributaria regionale del Veneto depositata il 16 dicembre 2010;
Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 26/2/2018 dal Consigliere Dott.ssa CONDELLO Pasqualina Anna Piera;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale, Dott. VISONA’ Stefano, che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso;
udito il difensore della parte ricorrente, avv. LUCISANO Claudio;
udito il difensore della parte controricorrente, Avv. CASELLI Giancarlo.
FATTI DI CAUSA
La Benetton Group s.p.a. proponeva ricorso dinanzi alla Commissione Tributaria provinciale avverso l’avviso di accertamento, emesso ai fini Irpeg ed Irap per l’anno di imposta 2003, con il quale si contestava la indeducibilità: 1) delle provvigioni addebitate alla contribuente da agenti di vendita operanti in Grecia ed in Irlanda tramite società aventi sede nell'*****, paese a fiscalità privilegiata, in violazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 76, commi 7 bis e 7 ter, per la somma di Euro 3.587.710; 2) di costi per sponsorizzazioni sportive eccedenti i limiti di cui alla L. n. 289 del 2002, art. 90,comma 8.
La ricorrente eccepiva, con riguardo al primo rilievo, sia vizi di carattere procedurale, ossia il mancato invio dell’apposito avviso ed il mancato rispetto del termine di 90 giorni prima della emissione dell’avviso di accertamento, sia la infondatezza della pretesa erariale, dato che la documentazione esibita comprovava il rispetto delle condizioni di legge per la deducibilità fiscale dei costi.
L’Ufficio replicava che l’invito era insito nel questionario che era stato inoltrato e che il termine di 90 giorni non era perentorio, sicchè non ledeva il diritto di difesa della controparte.
La Commissione Tributaria provinciale accoglieva parzialmente il ricorso, rilevando la nullità dell’accertamento per la parte riguardante la ripresa a tassazione delle spese di sponsorizzazione e respingendolo per il resto, sul presupposto che la verifica effettuata giustificava la presunzione di indeducibilità dei costi.
La società contribuente proponeva appello avverso la suddetta decisione, ribadendo che l’Ufficio aveva notificato l’avviso di accertamento in data 2.1.09, ossia 71 giorni dopo la notifica del questionario, vanificando in tal modo la possibilità, per il contribuente, di fornire elementi di prova contraria, sicchè l’avviso di accertamento era nullo, ai sensi della L. n. 212 del 2000, art. 7 e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, comma 3; precisava, altresì, che non era contestata la effettività delle prestazioni, anche se erano state rese da agenti esteri, irlandese e greco, i quali avevano scelto di utilizzare soggetti diversi, aventi sede in Paese a fiscalità privilegiata, per fatturare ed incassare le provvigioni.
L’Agenzia delle Entrate ribadiva che il questionario di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32 era del tutto idoneo ad indurre il contribuente ad attivarsi, dato che richiamava nella parte finale l’art. 110 del Testo Unico delle imposte dirette, e che il mancato espletamento del previo contraddittorio con l’Ufficio poteva essere recuperato anche in sede contenziosa; nel merito, rilevava che le fatture erano connotate da falsità soggettiva.
L’Ufficio spiegava anche appello incidentale, dolendosi della errata applicazione della L. n. 289 del 2002, art. 90, comma 8.
La Commissione Tributaria regionale, dopo avere ritenuto infondata la eccezione di nullità dell’atto di accertamento per inosservanza delle regole procedurali previste dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 110, comma 11, respingeva l’appello, motivando che nella fattispecie in esame non vi era coincidenza tra il soggetto che aveva ricevuto il pagamento ed il soggetto che aveva erogato la prestazione, dato che la contribuente aveva dedotto che i costi derivavano dal pagamento, in favore di due società aventi sede nell'*****, di somme dovute a titolo di provvigioni in favore di agenti che avevano però operato in Grecia ed in Irlanda, e che gli accertamenti della Guardia di Finanza avevano consentito di accertare che le due società aventi sede nell'***** erano in realtà dei “gusci vuoti”, prive di qualsiasi contenuto aziendale.
La contribuente ha proposto ricorso per cassazione affidandosi a tre motivi che sono stati ulteriormente illustrati con memoria ex art. 378 cod. proc. civ..
La Agenzia delle Entrate ha depositato atto di costituzione.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo di ricorso si deduce “violazione e/o falsa applicazione dell’art. 76, commi 7 bis e 7 ter del t.u.i.r. (ora art. 110, commi 10 e 11 del t.u.i.r.), in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”.
La ricorrente sostiene che i giudici di appello, pur non contestandole il mancato assolvimento dell’onere probatorio, hanno dato una interpretazione irragionevole della normativa, ritenendo che l’art. 110, commi 10 e 11 t.u.i.r. sarebbero applicabili anche quando le società ubicate in paradisi fiscali sono state interposte dal fornitore estero per una prestazione effettivamente resa ad un prezzo reale; ha inoltre sottolineato che, ai fini della deducibilità del costo, non rileva che il fornitore estero, non appartenente al gruppo dell’impresa italiana, abbia organizzato la propria attività, eventualmente “interponendo” un centro di fatturazione in un paradiso fiscale, perchè la L. n. 448 del 2001, da un lato, ha ripristinato la cd. ” seconda esimente”, ossia la possibilità di fornire la prova dell’effettiva esecuzione dell’operazione e la sua ragionevolezza economica, e, dall’altro, ha eliminato il riferimento all’esercizio dell’attività commerciale nel mercato della sede dell’impresa estera (cd. “prima esimente”), con la conseguenza che, in ragione del carattere alternativo delle due esimenti, è sufficiente la dimostrazione della effettiva esecuzione e della validità economica dell’operazione commerciale da cui è derivato il costo, aspetto che nel caso in esame è pacifico, e non è richiesto che il fornitore svolga effettiva attività nel luogo in cui ha sede, ben potendo avvalersi dell’opera di altri soggetti, come avvenuto nella fattispecie in esame.
Ha aggiunto che, al fine di dimostrare la effettiva esecuzione delle prestazioni, nel corso del giudizio aveva prodotto i contratti di sub-agenzia che legavano le società con sede nell'***** con i materiali esecutori (greco e irlandese) delle prestazioni di agenzia e che la stessa Guardia di Finanza aveva dato atto che le prestazioni erano state rese proprio grazie alle strutture operative aziendali dei soggetti localizzati in Grecia ed in Irlanda, i quali avevano agito quali sub-agenti delle società con sede nell'*****.
2. Con il secondo motivo la ricorrente censura la sentenza per motivazione insufficiente in ordine alla effettiva esecuzione delle prestazioni rese dagli agenti e alla congruità delle provvigioni pagate e pone in rilievo che gli stessi verificatori le avevano rimproverato di non avere tratto alcuna convenienza economica consentendo agli agenti di utilizzare, per la fatturazione delle prestazioni, le loro società aventi sede nell'*****. Lamenta, quindi, che il giudice di appello, non tenendo conto della documentazione da essa prodotta e dei legami esistenti tra il fornitore materiale della prestazione ed il soggetto in favore del quale sono stati effettuati i pagamenti, si è limitato a dare rilevanza alla circostanza che la fatturazione delle prestazioni proveniva da soggetto diverso da quello che le aveva materialmente rese.
3. Con il terzo motivo deduce “violazione e falsa applicazione dell’art. 76, commi 7 bis e 7 ter (ora art. 110, commi 10 e 11) del t.u.i.r., per le negligenze procedurali dell’Ufficio ed il conseguente difetto di motivazione dell’atto di accertamento, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”.
La ricorrente ha ribadito che l’Agenzia delle Entrate ha emesso l’accertamento prima del decorso del termine di 90 giorni previsto dal comma 11 dell’art. 110 t.u.i.r., incorrendo in tal modo in una violazione che comporta illegittimità dell’atto impugnato.
4. Il terzo motivo, che deve essere esaminato preliminarmente, è fondato, con assorbimento degli altri motivi.
Secondo la recente giurisprudenza di legittimità, l’abolizione del previgente regime di indeducibilità dei costi relativi ad operazioni commerciali intercorse con soggetti domiciliati in Paesi a fiscalità privilegiata (c.d. black list), prevista dalla L. n. 296 del 2006, art. 1, commi 301, 302 e 303, ha carattere retroattivo, sicchè la deducibilità risulta subordinata solo alla prova dell’operatività dell’impresa estera contraente e della effettività della transazione commerciale, mentre la separata indicazione di detti costi è degradata ad obbligo di carattere formale, passibile unicamente di sanzione amministrativa (Cass. n. 6205 del 27/3/2015; n. 11933 del 10/6/2016; n. 14076 del 8/7/2016).
4.1. Il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 110, commi 10 e 11, nel testo vigente all’epoca dei fatti, così recitava: “10. Non sono ammessi in deduzione le spese e gli altri componenti negativi derivanti da operazioni intercorse tra imprese residenti ed imprese domiciliate fiscalmente in Stati o territori non appartenenti all’Unione europea aventi regimi fiscali privilegiati. Si considerano privilegiati i regimi fiscali di Stati o territori individuati, con decreto del Ministro dell’Economia e delle finanze da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale, in ragione del livello di tassazione sensibilmente inferiore a quello applicato in Italia, ovvero della mancanza di un adeguato scambio di informazioni, ovvero di altri criteri equivalenti. 11. Le disposizioni di cui al comma 10 non si applicano quando le imprese residenti in Italia forniscano la prova che le imprese estere svolgano prevalentemente un’attività commerciale effettiva, ovvero che le operazioni poste in essere rispondono ad un effettivo interesse economico e che le stesse hanno avuto concreta esecuzione. L’Amministrazione, prima di procedere all’emissione dell’avviso di accertamento d’imposta o di maggiore imposta, deve notificare all’interessato un apposito avviso con il quale viene concessa al medesimo la possibilità di fornire, nel termine di novanta giorni, le prove predette. Ove l’Amministrazione non ritenga idonee le prove addotte, dovrà darne specifica motivazione nell’avviso di accertamento. La deduzione delle spese e degli altri componenti negativi di cui al comma 10 è comunque subordinata alla separata indicazione nella dichiarazione dei redditi dei relativi ammontari dedotti”.
4.2. Il giudice di appello, dopo avere affermato che il questionario inviato alla contribuente ha la stessa funzione dell’invito richiamato dall’art. 110, comma 11 del t.u.i.r., perchè contiene tutti gli elementi necessari a consentire al contribuente di determinarsi rispetto alla pretesa tributaria, ossia di comprendere che è in atto nei suoi confronti una procedura di controllo, ha ritenuto che il mancato rispetto del termine di 90 giorni previsto dalla norma citata, non contestato dalla Agenzia delle Entrate, non possa comportare nullità dell’atto di accertamento, in mancanza di una espressa previsione normativa.
4.3. Tanto premesso, il Collegio ritiene di dover confermare il principio già espresso da questa Corte, secondo il quale “in tema di imposte di redditi d’impresa, l’Amministrazione finanziaria, prima di procedere all’emissione di un atto impositivo nei confronti del contribuente che compie operazioni commerciali con imprese aventi sede in Stati a fiscalità privilegiata (c.d. black list), è tenuta, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 110, comma 11, a notificargli un apposito avviso concedendogli la possibilità di fornire, nel termine di novanta giorni, la prova che le operazioni poste in essere rispondono ad un effettivo interesse economico e che le stesse hanno avuto concreta esecuzione, pena l’annullamento, in sede contenziosa, dell’atto emesso “ante tempus” per violazione del contraddittorio procedimentale (Cass. n. 20033 del 7/10/2015; Cass. 21874 del 28/10/2016), trattandosi di principio fondato sulle considerazioni espresse dalle Sezioni Unite di questa Corte nella sentenza n. 18184 del 2013 relativa alle conseguenze dell’inosservanza del termine dilatorio di sessanta giorni previsto dalla L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7.
Nel caso di specie, essendo incontestato che, sebbene sia stato inoltrato alla contribuente un questionario (notificato in data 23/10/08), l’avviso di accertamento è stato emesso prima del decorso del termine di 90 giorni concesso alla contribuente per la trasmissione di documentazione, risulta evidente che l’inosservanza del termine dilatorio non può che determinare l’invalidità dell’avviso di accertamento per effetto del vizio che inficia il procedimento, costituito dal non avere messo a disposizione del contribuente l’intero lasso di tempo previsto dalla legge per garantirgli la facoltà di partecipare al procedimento stesso e di far valere le proprie difese.
4.4. L’accoglimento del terzo motivo comporta l’assorbimento degli altri motivi.
In conclusione, deve essere accolto il terzo motivo e devono essere dichiarati assorbiti i restanti motivi; la sentenza impugnata va cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, con conseguente accoglimento del ricorso originario della parte contribuente.
Considerato che la giurisprudenza sopra richiamata è intervenuta in epoca successiva alla proposizione del ricorso, sussistono giusti motivi per la compensazione tra le parti delle spese di lite di tutte le fasi del giudizio di merito e delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il terzo motivo e dichiara assorbiti i restanti motivi; cassa la sentenza impugnata e, decidendo la causa nel merito, accoglie il ricorso originario della contribuente.
Compensa tra le parti le spese dei gradi di giudizio di merito e le spese del giudizio di legittimità
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 27 marzo 2018.
Depositato in Cancelleria il 19 ottobre 2018