LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GRECO Antonio – Presidente –
Dott. CONDELLO Pasqualina A. Piera – rel. Consigliere –
Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –
Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –
Dott. DELL’ORFANO Antonella – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
GROUPAMA SOCIETE’ ANONYME, in persona del legale rappresentante, rappresentata e difesa dall’avv. DE MATTEIS Ferdinando Mattia, con domicilio eletto presso il suo studio in ROMA, VIA DI PORTA PINCIANA, N. 4;
– ricorrente –
contro
AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, ALLA VIA PORTOGHESI, N. 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO che la rappresenta e difende come per legge;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 223/9/10 della Commissione Tributaria regionale dell’Abruzzo depositata il 27 settembre 2010;
Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 26/2/2018 dal Consigliere Dott.ssa CONDELLO Pasqualina Anna Piera;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale, Dott. Visonà Stefano, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
udito il difensore della parte controricorrente, avv. CASELLI Giancarlo.
FATTI DI CAUSA
La società di diritto francesce Groupama Societè Anonime, quale incorporante per fusione la Groupama International S.A., ha proposto ricorso per cassazione, affidandosi a tre motivi, avverso la sentenza della Commissione Tributaria regionale, con la quale è stata confermata la sentenza della Commissione Tributaria provinciale che aveva respinto il ricorso avverso il silenzio rifiuto con il quale la stessa società chiedeva, ai sensi dell’art. 10, p. 4. lett. b), della Convenzione Italia-Francia contro le doppie imposizioni, il rimborso di un credito di imposta sui dividendi a riserva ad essa corrisposti in data 18 dicembre 2003 dalla società controllata italiana Gan Italia Vita s.p.a.
La Commissione Tributaria regionale, in particolare, ha ritenuto che: a) la società di diritto francese aveva dimostrato, mediante documentazione presentata in primo grado ed integrata in sede di appello, di avere effettivamente percepito i dividendi, circostanza peraltro non contestata dall’Ufficio; b) l’Ufficio aveva riconosciuto che la società poteva invocare l’applicazione della predetta Convenzione, in quanto soggetta al pagamento delle imposte in Francia per tali operazioni; ha, quindi, affermato che alla società di diritto francese poteva applicarsi il D.L. n. 269 del 2003, art. 40, come convertito in L. n. 326 del 2003, posto che nel periodo indicato alle imprese nazionali non era concesso credito di imposta in ogni caso, ma solo in misura limitata, “in ragione delle somme versate a titolo di imposta, e non delle eccedenze”, con la conseguenza che non poteva riconoscersi al contribuente francese un trattamento privilegiato rispetto a quello riservato alla corrispondente impresa italiana.
L’Agenzia delle Entrate resiste mediante controricorso.
La ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 cod. proc. civ..
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo la ricorrente deduce ” falsa applicazione del D.L. n. 269 del 2003, art. 40, convertito in L. n. 326 del 2003, violazione e/o falsa applicazione degli artt. 10 e 25 della Convenzione bilaterale tra Italia e Francia, nonchè del paragrafo 14 del Protocollo ad essa annesso, oltre che delle norme (anche di rango costituzionale) e dei principi che stabiliscono il primato delle norme scaturenti da convenzioni internazionali e impongono la disapplicazione della noma interna confliggente, rilevante ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3".
Al riguardo, la Groupama Societè Anonyme ha evidenziato che la normativa convenzionale è improntata su un criterio di reciprocità di trattamento fiscale tra i soggetti residenti nei due Paesi e che, per quanto rileva ai fini della presente decisione, i dividendi sono imponibili anche nello stato di residenza del percettore, anche se l’imposta non può eccedere il 5% dell’ammontare lordo dei dividendi, e che una società residente in Francia che riceve da una società residente in Italia dividendi che darebbero diritto ad un credito di imposta se fossero ricevuti da un residente in Italia ha diritto al pagamento da parte del Tesoro Italiano di un ammontare pari alla metà di detto credito d’imposta diminuito della ritenuta alla fonte, al massimo pari al 5%.
Ha, inoltre, posto in rilievo che il D.L. n. 269 del 2003, art. 40 (convertito nella L. n. 326 del 2003), richiamato nella sentenza impugnata, stabilisce che alle distribuzioni di utili deliberate tra il 30 settembre ed il 31 dicembre 2003 il credito di imposta di cui all’art. 14 del Testo Unico delle Imposte dirette (ratione temporis vigente) compete unicamente secondo le disposizioni dell’art. 11, comma 3-bis e art. 94, comma 1-bis del medesimo t.u.i.r., nel limite del 51,51 per cento; l’art. 11, comma 3-bis, e art. 94, comma 1-bis, del t.u.i.r. dispongono che il credito di imposta di cui all’art. 14, per la parte che trova copertura nelle imposte di cui al richiamato art. 105, comma 1, lett. b) “…è riconosciuto come credito limitato”, perchè destinato ad essere utilizzato prima degli altri crediti di imposta e, quindi, in detrazione fino a concorrenza della quota dell’imposta netta relativa agli utili per i quali è attribuito.
Secondo la prospettazione difensiva di parte ricorrente, la disciplina introdotta dal D.L. n. 269 del 2003, art. 40,convertito in L. n. 326 del 2003, si pone in contrasto con il trattamento fiscale che invece il giudice di appello avrebbe dovuto riconoscere nella fattispecie in esame sulla scorta della Convenzione Italo-Francese e del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 14, nella formulazione antecedente alla riforma introdotta dal D.Lgs. n. 344 del 2003, in quanto, non consentendo al socio estero di maturare un credito di imposta sui dividendi distribuiti, determina una disparità di trattamento rispetto al socio italiano che abbia percepito i medesimi dividendi; il rilevato contrasto tra la disciplina internazionale pattizia e quella successiva di diritto interno dovrebbe, dunque, essere superata ricorrendo al “principio di specialità”, risultando evidente che la sopravvenuta disciplina interna si pone come “lex generalis” e, in quanto tale, ininfluente sulla precedente “lex specialis”.
La ricorrente ha, quindi, sollecitato questa Corte, ove non venisse accolta la tesi difensiva da essa esposta, a sollevare questione di legittimità costituzionale, essendo evidente che la disciplina di cui al D.L. n. 269 del 2003, art. 40, convertito in L. n. 326 del 2003 (unitamente all’art. 11, comma 3 -bis del t.u.i.r.), si pone in contrasto con l’art. 117 Cost..
2. Con il secondo motivo di ricorso si deduce “violazione e/o falsa applicazione degli artt. 56 e 58 TUE (ora artt. 63 e 65 TFUE), nonchè delle norme (anche di rango costituzionale) e dei principi che stabiliscono il primato delle norme comunitarie e impongono la disapplicazione della norma interna confliggente, rilevante ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1 e 7 della Direttiva 90/435/CEE del 23 luglio 1990, pure rilevante ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”.
A sostegno di tale censura la ricorrente ha ribadito che la disciplina di cui al D.L. n. 269 del 2003, art. 40, convertito in L. n. 326 del 2003, comporta una discriminazione in danno del contribuente straniero ed un contrasto con la disciplina di rango comunitario, ed in particolare, con gli artt. 56 e 58 TUE, che sanciscono il principio della c.d. “libera circolazione dei capitali” ed il connesso divieto di procedure che possano determinare una restrizione al libero movimento dei capitali, nonchè con la Direttiva 90/435/CEE del 23 luglio 1990, recepita in Italia con D.Lgs. n. 136 del 1993, concernente il regime fiscale comune applicabile alle società “madri” e “figlie” di Stati membri diversi, come pure modificata dalla Direttiva 2003/123/CE del 22 dicembre 2003.
Tale antinomia, secondo la ricorrente, non può che essere risolta facendo corretta applicazione del principio di “gerarchia delle fonti normative” e, quindi, con la disapplicazione della norma nazionale contrastante con quella comunitaria; ha, comunque, sollecitato questa Corte, in caso di dubbi circa la rilevanza e portata del denunciato contrasto, al rinvio pregiudiziale ex art. 276 TFUE alla Corte di Giustizia Europea.
3. Il primo ed il secondo motivo che, per evidente connessione, possono essere esaminati congiuntamente, sono infondati.
4. La Convenzione Italia-Francia in esame (art. 10, p. 4. lett. b) stabilisce che la società madre residente in Francia “che riceve da una società residente in Italia dividendi che darebbero diritto ad un credito di imposta se fossero ricevuti da un residente dell’Italia, ha diritto al pagamento da parte del Tesoro Italiano di un ammontare pari alla metà di detto credito d’imposta diminuito della ritenuta alla fonte prevista al paragrafo 2”.
Il credito di imposta previsto, in caso di attribuzione domestica dei dividendi, dagli artt. 14 e 92 t.u.i.r. vigenti nell’anno di imposizione in esame, spetta alla duplice condizione che la società madre sia la “beneficiaria effettiva” dei dividendi e che essa sia residente in Francia, nel senso che abbia in tale Stato la propria sede di “direzione effettiva”, come richiesto dall’art. 4 della medesima Convenzione.
La disciplina convenzionale deve essere esaminata alla luce della Direttiva cd. “madre-figlia” n. 90/435/CEE Consiglio (artt. 4, 5 e 7) e della normativa interna (D.P.R. n. 600 del 1973, art. 27 bis, innovato con D.Lgs. 6 marzo 1993, n. 136), che ha dato ad essa attuazione.
Come chiarito da questa Corte, la Direttiva richiamata, che può trovare applicazione in ragione del controllo esercitato dalla società di diritto francese su quella italiana che ha distribuito i dividendi, “mira ad eliminare, instaurando un regime fiscale comune, qualsiasi penalizzazione della cooperazione tra società di Stati membri diversi rispetto alla cooperazione tra società di uno stesso Stato membro, ed a facilitare così il raggruppamento di società su scala comunitaria” (Cass. 19180 del 23/9/2004, con richiamo a Corte Giustizia UE 25 settembre 2003, in causa C-58/01).
Con la sentenza di questa Corte n. 25585 del 27/10/2017 è stato precisato che, “ancorchè adottata successivamente alla ratifica della menzionata Convenzione italo-francese, essa non comporta- contrariamente a quanto richiederebbe l’ordinaria regola dell’effetto abrogativo prodotto dalla legge posteriore su quella previgente (lex posterior derogat priori) – il superamento della Convenzione bilaterale; operando invece nel senso di determinare, con quest’ultima, una disciplina complementare e multilivello di contrasto della doppia imposizione, secondo un regime opzionale di alternatività. Pur perseguendo (in parte) lo stesso obiettivo, la Convenzione e la Direttiva non sono sovrapponibili, atteso che esse muovono da presupposti soggettivi e soglie rilevanti di partecipazione diversi e prevedono diverse modalità e strumenti di eliminazione, o quantomeno di attenuazione, della doppia imposizione in senso sia “giuridico” sia “economico”.
Nel primo caso (doppia imposizione giuridica, o internazionale) si vuol evitare che “uno stesso soggetto” subisca – in diversi Stati – più prelievi fiscali in relazione al medesimo presupposto impositivo, e con riguardo (v. art. 2 della Convenzione) sia alle imposte sul reddito sia a quelle sul patrimonio; mentre nel secondo caso (doppia imposizione economica: v. art. 2, lett. c) Dir., relativo alla sola imposizione del reddito delle persone giuridiche), si vuoi evitare che uno “stesso reddito” venga assoggettato a doppia imposizione in Stati UE diversi, anche quando il trasferimento di ricchezza passi da un soggetto all’altro in maniera soltanto formale, cioè in assenza di un reale incremento imponibile (come appunto si verifica nell’imposizione dei dividendi infragruppo)….. La permanente efficacia degli accordi bilaterali, d’altra parte, è resa esplicita dalla stessa Direttiva che, nell’art. 7, comma 2, lascia “impregiudicata l’applicazione di disposizioni nazionali o convenzionali intese a sopprimere o ad attenuare la doppia imposizione economica dei dividendi, in particolare delle disposizioni relative al pagamento di crediti di imposta ai beneficiari dei dividendi”. E’ quest’ultima previsione che non intende superare la “competizione” di efficacia normativa tra diverse fonti dell’ordinamento secondo il criterio generale di gerarchia; e che, soprattutto, esclude – in linea di principio, e fatta ovviamente salva la valutazione caso per caso – che la sola compresenza nell’ordinamento di Direttiva e di Convenzione bilaterale implichi l’automatica espunzione dell’una a favore dell’altra”.
5. Premesso, dunque, che lo stesso obiettivo può essere perseguito facendo ricorso alternativo agli strumenti previsti sia dalla Direttiva sia dalla Convenzione bilaterale, va rilevato che è, tuttavia, necessario che la eliminazione o attenuazione della doppia imposizione non determini l’effetto contrario rappresentato da una duplice non-imposizione, conseguenza che può essere evitata proprio in forza della scelta effettuata dalla contribuente tra le modalità alternative previste dalla Convenzione bilaterale (riconoscimento del credito di imposta) e dalla Direttiva (esenzione dalla ritenuta), non potendo in alcun caso essere riconosciuta alla società-madre sia l’esenzione dalla ritenuta sull’utile distribuito, sia il credito di imposta.
In questo senso si è già espressa questa Corte con la sentenza n. 19180 del 2004, con la quale si è osservato che “se occorre evitare che si verifichino fenomeni di doppia imposizione, non è meno importante evitare che si verifichino “sommatorie” di benefici che, al pari delle doppie imposizioni, possono determinare distorsioni nel funzionamento del Mercato Comune, che inficiano le regole della concorrenza e della neutralità delle disposizioni fiscali; ovvero consentono di realizzare frodi od abusi, in relazione ai quali l’applicazione delle norme di contrasto prevale anche sulle disposizioni recate dalla Direttiva 90/435/CEE (art. 1, par. 2)…”.
Con la sentenza n. 8621 del 15/4/2011 questa Corte ha, inoltre, osservato che “in tema di imposte sui dividendi azionari corrisposti da una società figlia residente in Italia ad una società madre residente in Francia, cui sia stato riconosciuto il credito di imposta, va applicata la ritenuta del 5%, in applicazione degli artt. 10 e 24 della Convenzione fra Italia e Francia sulle doppie imposizioni, recepita con L. 7 gennaio 1992, n. 20, in quanto il contenuto di essa non contrasta con la Direttiva del Consiglio CEE, 23 luglio 1990, n. 90/435/CEE, prevalendo tale disciplina, prescelta dal contribuente, sul dettato del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 27-bis, che consente alla società di optare per l’esenzione della ritenuta sui dividendi, ma senza credito di imposta, con la conseguenza che l’opzione della società madre per il riconoscimento del credito di imposta esclude l’applicazione del diverso regime di cui al citato D.P.R. n. 600 del 1973, art. 27, che non prevede e non consente il cumulo dei due benefici”.
6. Nel caso di specie la società madre francese pretende il credito di imposta di fonte convenzionale pur avendo usufruito, in alternativa al regime di cui all’art. 10 della Convenzione italo-francese, della piena esenzione di fonte comunitaria, considerato che la società-figlia italiana non ha praticato alcuna ritenuta sui dividendi attribuiti, come chiaramente emerge dalle circostanze esposte nel ricorso, nel quale si è dato atto che “….gli utili sopra specificati hanno beneficiato ai sensi dell’art. 5 della direttiva 90/453/CEE dell’esonero totale dalla ritenuta in Italia” (si veda pag. 3 del ricorso).
Risulta, pertanto, evidente che la disciplina convenzionale richiamata non consente di riconoscere in favore della società-madre francese il richiesto credito di imposta, in quanto, ove questo venisse riconosciuto, si determinerebbe un “cumulo di benefici”, seppure temperato dalla applicazione della ritenuta di matrice pattizia (Cass. 23790 del 11/10/2017).
La conclusione a cui si è pervenuti, diversamente da quanto sostenuto dalla ricorrente, non comporta alcuna discriminazione, nè la violazione dei principi generali di interpretazione ed applicazione del diritto dei trattati, atteso che essa rivendica un trattamento che non potrebbe essere riconosciuto neppure ad una società-madre residente in Italia.
Peraltro, come sottolineato da questa Corte con la sentenza n. 25585 del 27/10/2017, “neppure tale trattamento potrebbe fondarsi sul principio di non discriminazione di cui all’art. 25 della Convenzione italo-francese, secondo cui “I nazionali di uno Stato, siano essi residenti o non di uno degli Stati, non sono assoggettati nell’altro Stato ad alcuna imposizione od obbligo ad essa relativo, diversi o più onerosi di quelli cui sono o potranno essere assoggettati i nazionali di detto altro Stato che si trovino nella stessa situazione”. Formulazione, quest’ultima, che vincola i singoli Stati contraenti a non applicare al residente estero un trattamento deteriore rispetto a quello riservato, nella medesima fattispecie impositiva, al residente nazionale; che è tuttavia cosa ben diversa dal vincolo (prospettato dalla ricorrente che ha, con ciò, indebitamente sovrapposto il principio di non discrimazione a quello di reciprocità internazionale) di disciplinare la fattispecie impositiva interna conformente alla disciplina dell’altro Stato. Al contrario, sarebbe proprio il positivo riconoscimento del credito d’imposta convenzionale a concretare, nella specie, l’effetto discriminatorio che la società ricorrente vorrebbe scongiurare”.
A quanto detto deve aggiungersi che, dovendo i trattati essere interpretati secondo buona fede e tenendo conto del loro oggetto e del loro scopo, sicuramente tali parametri verrebbero trascurati qualora il trattato venisse utilizzato per attribuire alla contribuente un beneficio non previsto che esula dall’obiettivo convenzionale di evitare la doppia imposizione.
Nel caso in esame, sulla base di quanto evidenziato in ricorso, non risulta che la società sia stata assoggettata ad imposizione sui dividendi di cui si discute in Francia, tanto che la stessa parte ha evidenziato di avere allegato alla istanza di rimborso una attestazione rilasciata dalle Autorità fiscali francesi, le quali si limitano a precisare che le dichiarazioni rese dal legale rappresentante nel modulo sono esatte e che si sarebbe tenuto conto di detti redditi ai fini della imposizione (si vedano pagg. 3 e 4 del ricorso), dal che consegue che non si è verificata la doppia imposizione e che con l’applicazione della direttiva la richiedente ha evitato il rischio della doppia imposizione ed ha al tempo stesso conseguito un trattamento di detassamento dei dividendi esattamente corrispondente a quello riservato ad una società madre residente in Italia.
Peraltro, la Convenzione italo-francese vieta la doppia esenzione bilaterale (art. 15 del Protocollo), in forza di una tipica clausola di assoggettamento (subject to tax clause) e, pertanto, la società con residenza in Francia che ha percepito i dividendi esenti, se ottenesse anche l’avoir fiscal, finirebbe per sommare due benefici tributari, a nulla valendo che il credito di imposta subisce un abbattimento marginale (ritenuta alla fonte del 5%), dato che questo può solo ridurre l’effetto distorsivo della doppia non-imposizione, ma non eliderlo del tutto (Cass. 23790 del 11/10/2017).
7. Il mancato riconoscimento del credito di imposta previsto dalla Convenzione bilaterale deriva, dunque, dalla applicazione alla società ricorrente del regime di esenzione risultante dal diritto comunitario.
La ricorrente ha basato la propria domanda di pagamento del credito d’imposta sulla asserita violazione, da parte della Amministrazione finanziaria, del diritto convenzionale, sostenendo la inapplicabilità al caso di specie della normativa sopravvenuta nel 2003, che ha introdotto una duplice restrizione sul credito di imposta, prevedendo che esso fosse ridotto al 51,51% dei dividendi distribuiti e che fosse “limitato”, nel senso che potesse essere usufruito dal socio soltanto per abbattere l’imposta derivante dai dividendi stessi.
Ne deriva che la motivazione della sentenza impugnata, che nega il diritto al credito di imposta sul presupposto che debba farsi applicazione del D.L. n. 269 del 2003, art. 40, convertito in L. n. 326 del 2003, deve essere corretta, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c., dovendosi affermare che la società madre francese che riceve dalla società figlia italiana dividendi esenti da tassazione per effetto dell’attuazione in Francia della direttiva 90/435/CEE non ha diritto al credito di imposta previsto dall’art. 10, paragrafo 4, lett. b, della Convenzione Italia-Francia del 5 ottobre 1989, ratificata con L. n. 20 del 1992, in quanto la applicazione integrale del regime di esenzione da ritenuta di fonte comunitaria di cui alla Direttiva esclude la doppia imposizione contrastata dal regime bilaterale e garantisce al tempo stesso un trattamento paritario rispetto alle società madri residenti, escludendo sia la sussistenza di una discriminazione, sia una limitazione alla libera circolazione dei capitali.
8. Non derivando il mancato riconoscimento del credito dalla applicazione della D.L. n. 269 del 2003, art. 40, convertito in L. n. 326 del 2003, risulta non rilevante ai fini della decisione la sollevata questione di legittimità costituzionale e non si impone il rinvio pregiudiziale, ex art. 267 TFUE, alla Corte di Giustizia Europea al fine di valutare la compatibilità tra il predetto art. 40 e gli artt. 12, 56 e 58 del Trattato di Maastricht istitutivo dell’Unione Europea.
9. Con il terzo motivo si deduce “violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, comma 2, n. 4 e/o dell’art. 132 c.p.c., n. 4, nonchè delle norme e dei principi che impongono una adeguata motivazione delle decisioni rese dagli organi della Giustizia Tributaria, carenza di motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, rilevanti ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5; violazione e/o falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ. e del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, rilevante ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”.
9.1. Il mancato riconoscimento del credito di imposta, per le ragioni esposte, fa ritenere assorbito il terzo motivo.
In conclusione, il ricorso va rigettato.
Le spese del giudizio di legittimità, in ragione della complessità delle questioni trattate, vanno interamente compensate.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa tra le parti le spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 27 marzo 2018.
Depositato in Cancelleria il 19 ottobre 2018