LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –
Dott. CURCIO Laura – Consigliere –
Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –
Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –
Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 29093-2013 proposto da:
COOP CENTRO ITALIA Soc. coop., in persona del legale rappresentante pro tempore, domiciliata in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato SIRO CENTOFANTI, giusta delega in atti;
– ricorrente –
contro
B.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ANAPO 20, presso lo studio dell’avvocato CARLA RIZZO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato FABRIZIO DOMENICO MASTRANGELI, giusta delega in atti;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 185/2013 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA, depositata il 16/09/2013 R.G.N. 394/2011;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 05/04/2018 dal Consigliere Dott. FEDERICO DE GREGORIO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SANLORENZO Rita, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito l’Avvocato SIRO CENTOFANTI;
udito l’Avvocato FABRIZIO DOMENICO MASTRANGELI.
FATTI di CAUSA
B.A. con ricorso depositato il 23 febbraio 2007 conveniva in giudizio davanti al giudice del lavoro di Perugia la COOP CENTRO ITALIA società cooperativa, chiedendo l’accertamento della dedotta dequalificazione professionale, operata dalla convenuta ai propri danni, con la condanna altresì della medesima società al risarcimento dei nocumenti asseritamente patiti. Il giudice adito mediante sentenza pronunciata all’udienza del 28 luglio 2011, accertata la illegittimità dell’assegnazione dell’attrice a mansioni non equivalenti a quelle svolte in precedenza, condannava la COOP CENTRO ITALIA al risarcimento del danno liquidato in Euro 23.400,00 per lesione alla professionalità ed in Euro 2250,00 per differenze retributive e t.f.r., oltre che al rimborso delle spese di lite.
Tale decisione veniva, quindi, appellata in via principale dalla COOP CENTRO ITALIA, la quale sosteneva che il mutamento di mansioni era stato giustificato dalla riorganizzazione aziendale attuata nell’anno 2004, e che i nuovi compiti assegnati all’attrice erano il più possibile aderenti al suo impegno lavorativo pregresso, di modo che non si era verificata alcuna dequalificazione professionale. Deduceva, peraltro, in ogni caso l’erroneità della liquidazione in ordine al riconosciuto pregiudizio. La sentenza di primo grado veniva altresì impugnata in via incidentale da B.A. limitatamente alla quantificazione dei danni denunciati, ritenuta inferiore a quanto dovutole.
La Corte d’Appello di Perugia con sentenza n. 185 in data 19 giugno – 16 settembre 2013, notificata il successivo primo ottobre, rigettava entrambi i gravami, compensando le relative spese.
Secondo la Corte territoriale, in particolare, per quanto ancora d’interesse in questa sede, alla B. con la riorganizzazione aziendale furono sottratte importanti e qualificate mansioni, che avevano caratterizzato la sua precedente posizione, e la stessa appellante principale non aveva negato in buona sostanza che una deminutio vi fosse stata, però considerata legittima in quanto giustificata dal nuovo assetto organizzativo, giustificazione tuttavia giudicata non aderente al dettato dell’art. 2103 c.c., che vieta di adibire il lavoratore a compiti di livello professionale deteriore. Nel caso di specie parte datoriale, nel modificare la propria organizzazione, aveva attribuito alla lavoratrice un nuovo ruolo, connotato da una professionalità di livello inferiore rispetto a quella in precedenza raggiunta.
Peraltro, non potevano essere interpretate come allegazione della inesistenza di mansioni equivalenti da assegnare all’attrice le circostanze oggetto della richiesta prova testimoniale, volte al più a dimostrare che in seguito alla ristrutturazione aziendale della primavera 2004 i preesistenti due posti di responsabile del settore non alimentare erano stati accorpati in un’unica figura, cosa peraltro del tutto pacifica. Gli stessi capitoli di prova, tuttavia, non erano idonei a dimostrare che nella nuova organizzazione aziendale della società non esistesse alcuna altra posizione di lavoro attribuibile alla B., di livello professionale equivalente a quello che aveva caratterizzato il suo precedente incarico. Inoltre, secondo la Corte territoriale, non era conferente la circostanza secondo cui la B. non aveva indicato quale posizione disponibile equivalente le si sarebbe potuta assegnare, trattandosi di onere di allegazione a carico del lavoratore rilevante unicamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Per contro, nel caso di specie, concernente la dedotta dequalificazione professionale, non era configurabile un simile onere di allegazione alla stregua di quanto previsto dal citato art. 2103, di modo che il lavoratore è tenuto soltanto ad allegare circostanze della asserita dequalificazione, mentre il datore di lavoro deve dimostrare di averlo adibito a mansioni corrispondenti al suo livello professionale in occasione del c.d. jus variandi ai sensi del medesimo art. 2103. Nè risultava dedotto, nè tantomeno dimostrato, un eventuale accordo tra la società e la lavoratrice circa la possibilità di adibirla a compiti di livello professionale inferiore. La giurisprudenza citata dall’appellante non risultava nemmeno pertinente, poichè riguardava in effetti il caso di un lavoratore cui, dopo la soppressione del posto in precedenza occupato, erano state assegnate mansioni ritenute dai giudici “non pregiudizievoli della professionalità pregressa” (Cass. 9 marzo 2004 n. 4790). Pertanto, con l’appellata decisione era stata correttamente accertata una illegittima dequalificazione professionale, ancorchè dipesa da ristrutturazione aziendale.
Avverso la sentenza d’appello ha proposto ricorso per cassazione la società COOP Centro Italia con atto notificato il 5 dicembre 2013, spedito il precedente giorno 2 (lunedì – sessantesimo giorno ex art. 325 c.p.c. sabato 30 novembre 2013, prorogato al primo giorno feriale successivo utile ex art. 155, commi 4 e 5 nella versione ratione temporis applicabile, secondo il regime transitorio di cui alla L. n. 263 del 2005, art. 2, comma 4 e succ. modific. in relazione al ricorso introduttivo del giudizio di febbraio 2007, perciò successivo alla data del primo marzo 2006), affidato a due motivi, cui ha resistito B.A. mediante controricorso del 10 gennaio 2014 (36 giorno) notificato in cancelleria.
Memorie ex art. 378 c.p.c. sono state depositate da entrambe le parti.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo parte ricorrente ha denunciato violazione e falsa applicazione dell’art. 2103 c.c. ed in linea connessa degli artt. 1321, 2094 e 2697 cit. codice, art. 414 c.p.c., artt. 4,35,36 e 41 Cost., tanto in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.
Ha sostenuto che l’affermazione, secondo cui l’onere di allegazione circa il posto disponibile era pertinente soltanto in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, risultava illogica e regressiva sul piano sociale, nonchè contraria ai più specifici insegnamenti della giurisprudenza di legittimità: illogica poichè se nel caso della situazione più grave, ossia quando un soggetto ha perso il posto di lavoro e agisce in giudizio per cercare di riprenderlo gli si fa carico quando il licenziamento sia avvenuto per legittima e definitiva soppressione di quel posto di indicare quale altra concreta possibilità alternativa sarebbe utilizzabile in mansioni equivalenti, è profondamente illogico che un simile principio non si applichi anche nel caso in cui il soggetto, al quale il datore di lavoro ha mantenuto l’occupazione e addirittura anche lo stesso inquadramento normativo ed economico, agisca soltanto per dolersi che i profili lavorativi, cioè i compiti della nuova posizione, non corrispondano al 100% a quelli della posizione precedente. L’insostenibilità concettuale e giuridica, secondo la ricorrente, deriverebbe altresì dall’articolo 41 della Costituzione, per cui sono legittimi gli atti effettivi di riorganizzazione produttiva, ancorchè comportanti la perdita definitiva di un posto di lavoro.
Il ragionamento sviluppato nella sentenza impugnata risultava il prodotto di una elaborazione logicamente socialmente e giuridicamente contorta nella misura in cui veniva, sanzionare un datore di lavoro solo perchè non avrebbe inflitto al dipendente un male peggiore, cioè il licenziamento, nonchè in contrasto con precedenti giurisprudenziali, tra cui la sentenza di questa Corte 7 settembre 1993 n. 9386, nel senso che se vi è una sopravvenienza che non consente la conservazione della precedente posizione lavorativa, nè lo spostamento a mansioni non pregiudizievoli della professionalità pregressa, la tutela accordata dall’art. 2103 c.c. non può trovare applicazione. Infatti, tale tutela presuppone la concreta alternativa della possibilità di non retrocessione della precedente posizione professionale. E’ ovvio che il dipendente licenziabile non può invocare la protezione dell’anteriore posizione professionale, proprio per l’intervento di un’evidenza che la espone a soppressione: l’art. 2103 non si applica perchè manca un essenziale presupposto. In senso analogo, secondo parte ricorrente, si sarebbero pronunciate le sentenze di questa Corte n. 2375 del 7 febbraio 2005, n. 6822 del 4 giugno 1992 e la n. 4790 del 24 marzo 2004. Quindi, andava applicato il principio secondo cui se vi è una sopravvenienza che non consente la conservazione della precedente posizione, nè lo spostamento a mansioni non pregiudizievoli della professionalità pregressa, la tutela di cui all’art. 2103 non può trovare applicazione, principio però travisato dalla Corte di merito nel caso di specie.
Con il secondo motivo è stata denunciata la violazione e falsa applicazione degli artt. 112,115,414 e 416 c.p.c. nonchè art. 2697 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. Alla luce della richiamata giurisprudenza (in part. Cass. n. 4790/04), secondo la ricorrente, erano errati i rilievi contenuti nell’impugnata sentenza, secondo cui la convenuta parte datoriale avrebbe dovuto dimostrare l’inesistenza di altra posizione lavorativa attribuibile alla B., di livello professionale equivalente a quello che aveva caratterizzato il suo precedente incarico, e per cui la stessa convenuta si era limitata a rilevare che la soluzione adottata era stata la più favorevole per lei rispetto ad una risoluzione del rapporto per giustificato motivo oggettivo.
Nel caso di specie il ricorso introduttivo era stato incentrato unicamente sul mancato affidamento di un nuovo posto specifico, senza inoltre dedurre che vi sarebbero stati altri posti disponibili più aderenti alla professionalità maturata rispetto al posto invece in concreto assegnato. Di conseguenza, il dibattito processuale restava limitato su questo tema e su questo oggetto.
Peraltro, la convenuta aveva dedotto che quella adottata era stata la soluzione più favorevole, poichè altrimenti si sarebbe reso necessario un recesso per giustificato motivo oggettivo, sicchè già da queste argomentazioni difensive scaturiva la evidente deduzione della mancanza (cioè della inesistenza) di altri posti più vicini alla professionalità pregressa.
Entrambe le anzidette doglianze vanno disattese in forza delle seguenti considerazioni.
Per ragioni di priorità logico-giuridica va esaminato in primo luogo il secondo motivo di ricorso, al fine di delimitare il tema della decisione per verificare la ritualità della pronuncia qui impugnata, visto che sul punto in effetti la Coop Centro Italia denuncia errores in procedendo, però ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, anzichè ex art. 360 c.p.c., n. 4, comunque senza univocamente lamentare la nullità della sentenza e senza attenersi al requisito della c.d. autosufficienza, ex art. 366, comma 1, nn. 3 e 6 cit. codice, laddove a tal riguardo non sono stati, in particolare, adeguatamente riprodotti il ricorso introduttivo del giudizio del 23 febbraio 2007, nè la conseguente memoria difensiva del 10 febbraio 2009. Ne deriva l’inammissibilità della doglianza così come formulata, non solo per l’omessa univoca censura in termini di nullità ex art. 360, n. 4 cit. (cfr. in part. Cass. sez. un. civ. n. 17931 del 24/07/2013), ma anche perchè la carente allegazione in questa sede di legittimità preclude la possibilità di verificare l’asserita violazione nella specie del combinato disposto di cui agli artt. 112 e 414 c.p.c. nonchè art. 2697 c.c., essendo noto, d’altro canto, che anche per i vizi procedimentali la possibilità di accesso diretto agli atti dalla Corte di legittimità (ove debitamente prodotti ex art. 369 c.p.c.) resta comunque subordinato alla specifica previa indicazione del loro contenuto ai sensi del richiamato art. 366, n. 6 (Cfr. in tal sensi Cass. sez. un. civ. n. 8077 del 22/05/2012. V. altresì Cass. lav. n. 896 del 17/01/2014, secondo cui quando col ricorso per cassazione venga denunciato un vizio che comporti la nullità del procedimento o della sentenza impugnata, il giudice di legittimità non deve limitarsi a vagliare la sufficienza e logicità della motivazione con cui quello di merito ha statuito sul punto, ma ha il potere di esaminare direttamente gli atti e i documenti sui quali il ricorso si fonda, purchè la censura sia stata ritualmente formulata, rispettando, in particolare, il principio di autosufficienza del ricorso, da intendere come un corollario del requisito di specificità dei motivi di impugnazione, in quanto l’esame diretto degli atti e dei documenti è circoscritto a quelli che la parte abbia specificamente indicato ed allegato.
Analogamente, secondo Cass. 1 civ. n. 20405 del 20/09/2006, l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato un “error in procedendo”, presuppone comunque l’ammissibilità del motivo di censura, onde il ricorrente non è dispensato dall’onere di specificare – a pena, appunto, di inammissibilità – il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata, indicando anche specificamente i fatti processuali alla base dell’errore denunciato, e tale specificazione deve essere contenuta nello stesso ricorso per cassazione, per il principio di autosufficienza di esso. Pertanto, ove il ricorrente censuri la statuizione di inammissibilità, per difetto di specificità, di un motivo di appello, ha l’onere di specificare, nel ricorso, le ragioni per cui ritiene erronea tale statuizione del giudice di appello e sufficientemente specifico, invece, il motivo di gravame sottoposto a quel giudice, e non può limitarsi a rinviare all’atto di appello, ma deve riportarne il contenuto nella misura necessaria ad evidenziarne la pretesa specificità. Conformi Cass. 3 civ. n. 21621 del 16/10/2007 e 5 civ. n. 22880 del 29/09/2017).
Del resto, è giurisprudenza consolidata di questa Corte che anche la deduzione della violazione di norme del procedimento deve rispettare il principio di autosufficienza (in termini: ex multis, Cass. n. 12239 del 2007; n. 6361 del 2007, a proposito della denuncia dell’omessa pronuncia; n. 9076 del 2006; n. 4840 del 2006; n. 17424 del 2005; n. 6972 del 2005; n. 6225 del 2005 – così in motivazione Cass. 3^ civ. n. 10605 del 5 marzo / 30 aprile 2010). Nè alcuna sanatoria è in proposito ricavabile dalla lettura della sentenza impugnata, ovvero di altri atti processuali (peraltro nella specie qui in esame nemmeno specificamente individuati con apposito analitico indice – v. sul punto Cass. 6^ civ. – 3n. 23452 del 06/10/2017, secondo cui l’adempimento dell’obbligo di specifica indicazione degli atti e dei documenti posti a fondamento del ricorso di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), previsto a pena d’inammissibilità, impone quanto meno che gli stessi risultino da un’elencazione contenuta nell’atto, non essendo a tal fine sufficiente la presenza di un indice nel fascicolo di parte. Cfr. in senso analogo anche Cass. lav. n. 4350 del 04/03/2015, secondo cui, in relazione all’obbligo di depositare integralmente il testo dei contratti o degli accordi collettivi – imposto, a pena di improcedibilità del ricorso, dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, -, non può considerarsi sufficiente il mero richiamo, in calce al ricorso, all’intero fascicolo di parte del giudizio di merito, ove manchi una puntuale indicazione del documento nell’elenco degli atti).
Invero, per soddisfare il requisito imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, il ricorso per cassazione deve contenere l’esposizione chiara ed esauriente, sia pure non analitica o particolareggiata, dei fatti di causa, dalla quale devono risultare le reciproche pretese delle parti, con i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che le giustificano, le eccezioni, le difese e le deduzioni di ciascuna parte in relazione alla posizione avversaria, lo svolgersi della vicenda processuale nelle sue articolazioni, le argomentazioni essenziali, in fatto e in diritto, su cui si fonda la sentenza impugnata e sulle quali si richiede alla Corte di cassazione, nei limiti del giudizio di legittimità, una valutazione giuridica diversa da quella asseritamene erronea, compiuta dal giudice di merito. Il principio di autosufficienza del ricorso impone, dunque, che esso contenga tutti gli elementi necessari a porre il giudice di legittimità in grado di avere la completa cognizione della controversia e del suo oggetto, di cogliere il significato e la portata delle censure rivolte alle specifiche argomentazioni della sentenza impugnata, senza la necessità di accedere ad altre fonti ed atti del processo, ivi compresa la sentenza stessa (Cass. 2^ civ. n. 7825 del 04/04/2006, conformi Cass. nn. 16360 del 2004, 12166 e 19788 del 2005. V. altresì più recentemente in senso analogo Cass. 6^ civ. – 3 n. 1926 del 03/02/2015, 1^ civ. n. 19018 del 31/07/2017, id. n. 12688 del 30/05/2007). Parimenti dicasi per le memorie ex art. 378 c.p.c., che come è noto hanno funzione soltanto illustrativa rispetto a quanto però già in precedenza ritualmente e tempestivamente dedotto.
Non resta, dunque, che attenersi alle risultanze processuali quali desumibili della sentenza di appello qui impugnata (peraltro espressamente redatta in base all’art. 132 c.p.c., come modificato dalla L. n. 69 del 2009, visto che il giudizio di primo grado era pendente alla data del 4 luglio 2009): domanda di cui al ricorso introduttivo 23-02-2007 inerente al richiesto accertamento della denunciata dequalificazione professionale, con conseguente pretesa risarcitoria, dequalificazione che ancorchè conseguente a riorganizzazione aziendale è stata accertata in sede di merito, anche perchè la stessa società appellante in buona sostanza non l’aveva disconosciuta; mancata deduzione da parte della convenuta in primo grado della inesistenza nella nuova struttura di posizioni organizzative connotate da un livello professionale equivalente a quello dell’attrice, laddove la resistente a pag. 5 – 6 della sua memoria difensiva in data 31 gennaio 2009 si limitò ad osservare che la soluzione adottata era la più favorevole rispetto ad una risoluzione per giustificato motivo oggettivo e a indicare le ragioni che in concreto avevano indotto alla scelta dell’altra lavoratrice per il ruolo unico di responsabile del settore non alimentare; impossibilità di intendere come allegazione dell’inesistenza di mansioni equivalenti da poter assegnare alla B. le circostanze di cui ai capi 2 e 3 della prova testimoniale richiesta dalla resistente, siccome inerenti unicamente al fatto pacifico dell’accorpamento, per effetto della ristrutturazione aziendale, dei precedenti due posti, uno dei quali già occupato dall’attrice, in un’unica figura; inidoneità, dunque, del mezzo istruttorio a dimostrare che nella nuova organizzazione della COOP non esistesse alcuna altra posizione di lavoro attribuibile alla B., di livello equivalente a quello del suo precedente incarico; mancata indicazione da parte attrice di altra posizione equivalente, cui ella poteva essere adibita.
Pertanto, attesa l’inammissibilità del secondo motivo, e ricostruite nei suddetti termini le posizioni delle parti nel corso del giudizio di merito, appaiono anche inconferenti ed infondate le censure mosse con il primo motivo.
Ed invero, già con la sentenza n. 23698 del 19/11/2015 questa Corte ha avuto modo di affermare che l’art. 2103 c.c. si interpreta alla stregua del bilanciamento del diritto del datore di lavoro a perseguire un’organizzazione aziendale produttiva ed efficiente e quello del lavoratore al mantenimento del posto, in coerenza con la “ratio” di numerosi interventi normativi, quali il D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 7, comma 5, la L. n. 68 del 1999, art. 1, comma 7, il D.Lgs. n. 223 del 1991, art. 4, comma 11, anche come da ultimo riformulato dal D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 3, comma 2, sicchè, ove il demansionamento rappresenti l’unica alternativa al recesso datoriale, non sono necessari un patto di demansionamento o una richiesta del lavoratore in tal senso anteriore o contemporanea al licenziamento, ma è onere del datore di lavoro, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, prospettare al dipendente la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori compatibili con il suo bagaglio professionale.
Più recentemente (Cass. lav. n. 24882 del 20/10/2017), inoltre, la giurisprudenza di questa Corte, condivisa dal collegio, è orientata nel senso che ai fini del licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, la L. n. 604 del 1966, art. 3richiede: a) la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto cui era addetto il dipendente, senza che sia necessaria la soppressione di tutte le mansioni in precedenza attribuite allo (stesso; b) la riferibilità della soppressione a progetti o scelte datoriali – insindacabili dal giudice quanto ai profili di congruità e opportunità, purchè effettivi e non simulati – diretti ad incidere sulla struttura e sull’organizzazione dell’impresa, ovvero sui suoi processi produttivi, compresi quelli finalizzati ad una migliore efficienza ovvero ad incremento di redditività; c) l’impossibilità di reimpiego del lavoratore in mansioni diverse, elemento che, inespresso a livello normativo, trova giustificazione sia nella tutela costituzionale del lavoro che nel carattere necessariamente effettivo e non pretestuoso della scelta datoriale, che non può essere condizionata da finalità espulsive legate alla persona del lavoratore. L’onere probatorio in ordine alla sussistenza di questi presupposti è a carico del datore di lavoro, che può assolverlo anche mediante ricorso a presunzioni, restando escluso che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili (in senso conforme Cass. lav. n. 12101 del 13/06/2016: in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il lavoratore ha l’onere di dimostrare il fatto costitutivo dell’esistenza del rapporto di lavoro a tempo indeterminato così risolto, nonchè di allegare l’illegittimo rifiuto del datore di continuare a farlo lavorare in assenza di un giustificato motivo, mentre incombono sul datore di lavoro gli oneri di allegazione e di prova dell’esistenza del giustificato motivo oggettivo, che include anche l’impossibilità del cd. “repechage”, ossia dell’inesistenza di altri posti di lavoro in cui utilmente ricollocare il lavoratore. Parimenti, v. Cass. lav. n. 160 del 05/01/2017.
Id. n. 5592 del 22/03/2016: spetta al datore di lavoro l’allegazione e la prova dell’impossibilità di “repèchage” del dipendente licenziato, in quanto requisito di legittimità del recesso datoriale, senza che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili, essendo contraria agli ordinari principi processuali una divaricazione tra i suddetti oneri).
Lo stesso ragionamento decisorio vale, dunque, anche per quanto concerne la disciplina prevista dall’art. 2103 c.c., così come più recentemente ribadito da questa Corte con la sentenza n. 4211 del 03/03/2016, secondo cui quando il lavoratore allega un demansionamento riconducibile ad un inesatto adempimento dell’obbligo gravante sul datore di lavoro ai sensi dell’art. 2103 c.c., è su quest’ultimo che incombe l’onere di provare l’esatto adempimento del suo obbligo, o attraverso la prova della mancanza in concreto del demansionamento, ovvero attraverso la prova che fosse giustificato dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari oppure, in base all’art. 1218 c.c., a causa di un’impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile (conforme Cass. lav. n. 4766 del 06/03/2006).
Infatti, deve richiamarsi il principio generale, secondo cui in tema di prova dell’inadempimento di una obbligazione, il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento deve soltanto provare la fonte -negoziale o legale – del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento (Cass. sez. un. civ. n. 13533 del 30/10/2001, secondo cui anche nel caso in cui sia dedotto non l’inadempimento dell’obbligazione, ma il suo inesatto adempimento, al creditore istante sarà sufficiente la mera allegazione dell’inesattezza dell’adempimento, gravando ancora una volta sul debitore l’onere di dimostrare l’avvenuto, esatto adempimento – principio di diritto che trova un limite nell’ipotesi di inadempimento delle obbligazioni negative, nel qual caso la prova dell’inadempimento stesso è sempre a carico del creditore, anche nell’ipotesi in cui agisca per l’adempimento e non per la risoluzione o il risarcimento).
Pertanto, alla stregua delle anzidette emergenze e tenuto conto dei principi di diritto vigenti in materia, appare del tutto corretta nella specie l’applicazione dell’art. 2103 c.c. operata dalla Corte di merito, laddove, accertato in fatto l’allegato demansionamento professionale in danno dell’attrice, ancorchè per effetto dell’intervenuta riorganizzazione (per altro verso non sindacabile in sede giudiziale, ove non pretestuosa ed avvenuta in forza di serie e discrezionali scelte imprenditoriali), è stata rilevata la mancanza della prova liberatoria, cui la convenuta parte datoriale era tenuta, non essendo stato dimostrata da quest’ultima, in particolare, l’inesistenza, nell’ambito del proprio compendio aziendale, di altro posto disponibile equiparabile al grado di professionalità precedentemente raggiunto dalla lavoratrice interessata (v. altresì Cass. lav. n. 17624 del…105/08/2014, secondo cui il divieto per il datore di lavoro di variazione in “pejus” ex art. 2103 c.c., opera anche quando al lavoratore, nella formale equivalenza delle precedenti e nuove mansioni, siano assegnate di fatto mansioni sostanzialmente inferiori, dovendo il giudice accertare che le nuove mansioni siano aderenti alla specifica competenza del dipendente, senza fermarsi al mero formale inquadramento dello stesso). Tenuto conto dell’esito negativo dell’impugnazione, la parte rimasta soccombente va condannata al rimborso delle relative spese. Va, quindi, pure dato atto dei presupposti di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.
P.Q.M.
la Corte RIGETTA il ricorso. Condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese, che liquida a favore della controricorrente in Euro 4000,00 (quattromila/00) per compensi professionali ed in Euro 200,00 (duecento/00) per esborsi, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, il 5 aprile 2018.
Depositato in Cancelleria il 19 ottobre 2018
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