Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Ordinanza n.26479 del 19/10/2018

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Antonio – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

Dott. BOGHETICH Elena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 18432-2013 proposto da:

C.R., *****, domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato MARCELLO IACA, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

S.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE DELLE MEDAGLIE D’ORO 169, presso lo studio degli avvocati ETTORE DI GIOVANNI, MATILDE DI GIOVANNI, che lo rappresentano e difendono giusta procura speciale notarile in atti;

– resistente con procura –

avverso la sentenza n. 138/2013 della CORTE D’APPELLO di CATANIA, depositata il 18/02/2013 R.G.N. 1288/2007.

LA CORTE, esaminati gli atti e sentito il consigliere relatore, pronuncia la seguente ORDINANZA.

RILEVATO

che C.R. impugna con ricorso per cassazione, notificato il 26 luglio 2013 e affidato ad un solo motivo, la sentenza della Corte d’Appello di Catania n. 138 31 gennaio – 18 febbraio 2013, che aveva respinto il gravame della stessa ricorrente avverso la pronuncia resa dal giudice del lavoro di Siracusa, in data sei giugno 2007, con il parziale accoglimento della domanda dell’attore S.G. in ordine a differenze retributive per lavoro subordinato in attività agricole, liquidate dal primo giudicante sulla scorta di apposita c.t.u. espletata pure in base a contrattazione collettiva acquisita di ufficio;

che S.G. non ha resistito all’impugnazione avversaria con controricorso, ma ha depositato procura speciale, conferita, per notar ***** da *****, agli avv.ti Ettore, Umberto e Matilde Di Giovanni per essere difeso in relazione al suddetto ricorso per cassazione;

che le parti hanno depositato memorie in vista dell’adunanza fissata al 17 aprile 2018.

CONSIDERATO

che con unico motivo la ricorrente ha censurato la decisione impugnata deducendone la nullità ex art. 112 c.p.c. in reazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, avendo la Corte territoriale omesso di esaminare la questione della stessa posta quale appellante in ordine al fatto che il giudice di primo grado aveva, immotivatamente e senza assegnare preventivamente alle parti un termine entro il quale poter dedurre i mezzi di prova necessari in relazione alla prova ammessa di ufficio, nonchè un secondo termine perentorio per disporre memorie di replica, acquisito di ufficio il contratto collettivo di lavoro in manifesta violazione degli artt. 183 e 184 c.p.c.;

che, secondo la ricorrente, allorquando il giudice esercita un potere istruttorio ufficioso è necessario, in base alle succitate disposizioni di legge, nonchè ai sensi degli artt. 111 e 24 Cost., assegnare alle parti un termine perentorio entro il quale le stesse possono dedurre i mezzi di prova, che si rendano necessari in relazione alla prova ammessa di ufficio, nonchè un secondo termine per memorie di replica, a garanzia del contraddittorio, della difesa, della parità di trattamento e della ricerca della verità, sicchè in mancanza delle anzidette formalità, ove il giudicante non provochi il contraddittorio e non consenta lo svolgimento delle opportune difese dando spazio alle consequenziali attività, la sentenza è nulla;

che nella specie la Corte catanese aveva omesso del tutto di statuire riguardo al motivo di impugnazione, peraltro fondato, che avrebbe comportato la nullità della sentenza pronunciata dal giudice di primo grado;

che, invero, dalla sentenza di appello si evince come l’appellante principale, C.R., avesse dedotto la violazione degli artt. 414,420,421 e 437 c.p.c., per aver utilizzato, quali fonti di prova ai fini della decisione della controversia, il contratto collettivo per gli operai agricoli ed il contratto integrativo provinciale, sebbene l’attore non li avesse mai indicati, nè prodotti, nè ne avesse chiesto l’ammissione come mezzo di prova, nonchè per avere assegnato termine al ricorrente entro il quale produrli e, quindi – essendo tale produzione avvenuta oltre il termine assegnato – per averli acquisiti di ufficio, senza motivazione mediante la disposta consulenza tecnica d’ufficio; che in proposito con la sentenza qui impugnata la Corte territoriale ha osservato come i mezzi di prova e i documenti – che a pena decadenza la parte deve indicare nel proprio atto introduttivo e depositare contestualmente – siano quelli aventi ad oggetto i fatti posti a fondamento della domanda o dell’eccezione, cui non sono riconducibili gli accordi collettivi da applicare nella causa, i quali, sebbene non formalmente inseriti tra le norme di diritto, rimangono sul piano dell’acquisizione al processo distinti dai semplici fatti di causa (all’uopo citando in particolare il precedente di questa Corte n. 23745 del 2008). Inoltre, avendo nella specie il ricorrente chiaramente invocato la normativa collettiva per gli operai agricoli, di cui peraltro parte resistente non aveva contestato l’applicabilità (sostenendone anzi l’avvenuto rispetto in concreto), sussisteva per il giudice il potere – dovere ex art. 421 c.p.c. di acquisirla d’ufficio (citando in proposito Cass. n. 4714 del 2000);

che, pertanto, contrariamente alle asserzioni e deduzioni di parte ricorrente – peraltro assai carenti rispetto alle allegazioni richieste invece a pena d’inammissibilità dall’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 6 – nel caso di specie non è ravvisabile alcuna omissione rilevante ai sensi dell’art. 112 c.p.c., avendo come si è visto, la Corte territoriale motivatamente, oltre che correttamente in punto di diritto, esaminato le doglianze espresse dall’appellante C., secondo i principi fissati al riguardo dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass. lav. n. 23745 del 17/09/2008: nel rito del lavoro, i mezzi di prova ed i documenti che, a pena di decadenza, il ricorrente deve, in forza dell’art. 414 c.p.c., comma 1, n. 5 e art. 415 c.p.c., comma 1, indicare nel ricorso e depositare unitamente ad esso sono quelli aventi ad oggetto i fatti posti a fondamento della domanda e, tra questi, non è riconducibile il contratto o l’accordo collettivo qualora esso debba costituire un criterio di giudizio. Infatti, anche prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 40 del 2006 che, nel modificare l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, ha posto sullo stesso piano, tra i motivi di ricorso, la violazione e la falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti o accordi collettivi nazionali di lavoro, onerando il ricorrente per cassazione di depositare il testo di quest’ultimi – ex art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, come modificato dal citato D.Lgs. n. 40 – il codice di rito risolveva il problema della conoscibilità della regola di giudizio affidando al giudice, senza preclusioni, il potere di chiedere alle associazioni sindacali il testo dei contratti o accordi collettivi di lavoro, anche aziendali, da applicare nella causa – art. 425 c.p.c., comma 4 -, i quali, pertanto, seppur non formalmente inseriti fra le norme di diritto, rimanevano, sul piano dell’acquisizione al processo, distinti dai semplici fatti di causa. V. similmente Cass. lav. n. 6932 del 26/05/2000, secondo cui, d’altra parte, la totale omissione della suddetta produzione non può, di per sè, giustificare il rigetto della domanda ove la controparte ne abbia contestato non l’esistenza o il contenuto, ma l’applicabilità al rapporto dedotto in lite. Conforme Cass. n. 13077 del 1991.

Cfr. d’altro canto pure Cass. lav. n. 14696 del 25/06/2007, secondo cui ancorchè l’omessa indicazione, nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado, dei documenti, e l’omesso deposito degli stessi contestualmente a tale atto, determinino la decadenza del diritto alla produzione dei documenti stessi, donde l’irreversibilità della estinzione del diritto di produrre i documenti, dovuta al mancato rispetto di termini perentori e decadenziali, l’ordinamento processuale tuttavia consente un contemperamento – ispirato alla esigenza della ricerca della “verità materiale”, cui è doverosamente funzionalizzato il rito del lavoro, teso a garantire una tutela differenziata in ragione della natura dei diritti che nel giudizio devono trovare riconoscimento – nei poteri d’ufficio del giudice in materia di ammissione di nuovi mezzi di prova, ai sensi del citato art. 437 c.p.c., comma 2, ove essi siano indispensabili ai fini della decisione della causa, poteri, peraltro, da esercitare pur sempre con riferimento a fatti allegati dalle parti ed emersi nel processo a seguito del contraddittorio delle parti stesse. In senso analogo anche Cass. 3 civ. n. 15228 del 05/07/2007 ed altre. V. ancora Cass. lav. n. 9724 del 17/11/1994: il contemperamento del principio dispositivo con quello della ricerca della verità materiale comporta che, quando non siano controversi l’esistenza ed il contenuto di un contratto collettivo, il giudice ha il potere – dovere di provvedere d’ufficio all’acquisizione di esso, ai fini della relativa valutazione ed interpretazione, senza che a ciò siano di ostacolo preclusioni o decadenze in danno delle parti, specie ove non già espressamente dichiarate);

che, dunque, nelle cause soggette al rito del lavoro l’acquisizione del testo dei contratti o accordi collettivi può aver luogo anche in appello, sia attraverso la richiesta di informazioni alle associazioni sindacali, la quale non è soggetta al divieto di cui all’art. 437 c.p.c., comma 2, non costituendo un mezzo di prova, sia attraverso l’esercizio da parte del giudice del potere officioso, riconosciuto dal medesimo art. 437 c.p.c., comma 2, di invitare le parti a produrre il contratto collettivo, ove non ne risulti contestata l’applicabilità al rapporto (Cass. lav. n. 15653 – 01/07/2010. V. altresì Cass. lav. n. 18261 del 12/08/2009, secondo cui nel rito del lavoro, il contratto collettivo di diritto comune – anche anteriormente all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 40 del 2006 – in quanto assumibile quale regola di giudizio, si distingue dai semplici fatti di causa e può essere richiesto, senza preclusione e discrezionalmente, d’ufficio dal giudice alle associazioni sindacali, ai sensi dell’art. 425 c.p.c., comma 4, restando onere della parte che lamenti il mancato esercizio di detto potere indicare, con il ricorso per cassazione, il momento ed il modo con cui ne abbia sollecitato l’esercizio. In senso analogo, Cass. lav. n. 1246 del 20/01/2011.

Cfr. ancora, da ultimo, Cass. civ. Sez. 6 – L, ordinanza n. 6610 del 14/03/2017, secondo cui nel rito del lavoro, ove sia stata omessa, o sia errata, l’indicazione del contratto collettivo applicabile, non ricorre la nullità del ricorso introduttivo di cui all’art. 414 c.p.c., in quanto rientra nel potere-dovere del giudice acquisirlo d’ufficio ex art. 421 c.p.c., qualora vi sia solo contestazione circa la sua applicabilità, non comportando tale acquisizione una supplenza ad una carenza probatoria su fatti costitutivi della domanda, ma piuttosto il superamento di una incertezza su un fatto indispensabile ai fini del decidere.

La succitata giurisprudenza è stata ancora ribadita da questa Corte con la sentenza n. 18281 del 18 gennaio / 25 luglio 2017 ricorso avverso altra pronuncia della Corte d’Appello di Catania, in qualche modo analoga a quella qui impugnata);

che, d’altro canto, non è ravvisabile alcuna violazione del principio del contraddittorio ovvero del diritto di difesa (oltre che per difetto del requisito di autosufficienza del ricorso, necessaria invece anche in caso di preteso error in procedendo, laddove la possibilità di accesso diretto agli atti di causa, da questa Corte, è comunque subordinata al rispetto delle regole di allegazione ex art. 366, comma 1 codice di rito), visto che la questione, concernente la possibilità di acquisire o meno di ufficio la contrattazione collettiva, era stata posta a suo tempo dalla C., però respinta mediante corretta ed esauriente argomentazione dalla Corte distrettuale, in senso negativo rispetto alle tesi dell’appellante, principale, dovendosi inoltre rilevare come anche la c.t.u. non costituisca un mezzo di prova in senso tecnico, la cui ammissione è quindi demandata alle valutazioni di pertinenza e di opportunità dell’adito giudice di merito, quale vi provvede appunto d’ufficio e non è quindi nemmeno tenuto a sentire, preventivamente, le parti, nè tanto meno ad assegnare loro in proposito appositi termini (d’altro canto, soltanto con il novellato art. 195 c.p.c. è stato disciplinato ex novo il procedimento soltanto del deposito della relazione del c.t.u., consentendo alle parti di interloquire prima delle conclusioni finali a cura dello stesso ausiliare);

che, inoltre, con riferimento alla c.t.u. non risultano nemmeno allegate specifiche e tempestive contestazioni al riguardo, in seguito al deposito del relativo elaborato, laddove tuttavia vale il principio, secondo cui tutte le ipotesi di nullità della consulenza tecnica – ivi ricompresa quella dovuta all’eventuale allargamento dell’indagine tecnica oltre i limiti delineati dal giudice o consentiti dai poteri che la legge conferisce al consulente – hanno carattere relativo e devono essere fatte valere nella prima udienza successiva al deposito della relazione, restando altrimenti sanate (Cass. 2 civ. n. 5422 del 15/04/2002. Conformi Cass. nn. 8659 e 10870 del 1999. In senso analogo v. altresì Cass. 2 civ. n. 12231 del 19/08/2002, secondo cui ogni altro vizio della consulenza tecnica è fonte di nullità relativa soggetta al regime di cui all’art. 157 c.p.c., con la conseguenza che il difetto deve ritenersi sanato se non è fatto valere nella prima istanza o difesa successiva al deposito della relazione peritale. V. parimenti ancora Cass. 2 civ. n. 23504 del 12/11/2007, 3 civ. n. 2251 del 31/01/2013. Più recentemente, cfr. altresì Cass. 1 civ. n. 19427 del 3/8/2017: le contestazioni ad una relazione di consulenza tecnica d’ufficio costituiscono eccezioni rispetto al suo contenuto, sicchè sono soggette al termine di preclusione di cui all’art. 157 c.p.c., comma 2, dovendo, pertanto, dedursi – a pena di decadenza – nella prima istanza o difesa successiva al suo deposito. Conforme Cass. n. 4448 del 2014. V. pure Cass. 2 civ. n. 22843 del 25/10/2006, secondo cui, in particolare, per udienza successiva al deposito della relazione di c.t.u. deve intendersi anche quella nella quale il giudice abbia rinviato la causa per consentire l’esame della relazione. Conformi Cass. 2 civ. n. 1744 del 24/01/2013 e n. 15133 del 2001);

che, pertanto, il ricorso va respinto, con la condanna della parte rimasta soccombente, in favore dell’intimato, che ha depositato memoria difensiva per l’adunanza camerale, perciò limitatamente a detta attività;

che, infine, stante l’esito del tutto negativo dell’impugnazione, ricorrono i presupposti di legge per il pagamento dell’ulteriore contributo unificato.

P.Q.M.

la Corte dichiara RIGETTA il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese, che liquida a favore dello S. in Euro 2000,00 (duemila/00) per compensi professionali ed in Euro 200,00 (duecento/00) per esborsi, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, il 17 aprile 2018.

Depositato in Cancelleria il 19 ottobre 2018

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