Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Sentenza n.26497 del 19/10/2018

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRINO Umberto – Presidente –

Dott. RIVERSO Roberto – rel. Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

Dott. CALAFIORE Daniela – Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 18733-2013 proposto da:

W.T. S.P.A., *****, (conferitaria del ramo d’Azienda della Società T. S.P.A., già W.T. S.P.A. ed ancora prima W.T. SERBATOI S.P.A.) in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA COSSERIA 2, presso lo studio dell’avvocato ALFREDO PLACIDI, rappresentata e difesa dall’avvocato MARCO SPAGNUOLO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

I.N.A.I.L – ISTITUTO NAZIONALE PER L’ASSICURAZIONE CONTRO GLI INFORTUNI SUL LAVORO, C.F. *****, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA IV NOVEMBRE 144, presso lo studio dell’Avvocato ANDREA ROSSI, che lo rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 508/2013 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA, depositata il 26/04/2013 R.G.N. 701/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 03/07/2018 dal Consigliere Dott. ROBERTO RIVERSO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. VISONA’ Stefano, che ha concluso per inammissibilità o in subordine rigetto;

udito l’Avvocato VALENTINA CRESCIA per delega verbale Avvocato MARCO SPAGNUOLO;

udito l’Avvocato ANDREA ROSSI.

FATTI DI CAUSA

La Corte d’Appello di L’Aquila con sentenza n. 508/2013 rigettava l’appello proposto dalla W.T. S.p.A. avverso la sentenza che, in accoglimento dell’azione di regresso D.P.R. n. 1124 del 1965, ex artt. 10 e 11 proposta dall’Inali, aveva condannato l’appellante al pagamento in favore del predetto Istituto della complessiva somma di Euro 36.993,39 oltre accessori, a titolo di prestazioni assicurative erogate in favore del lavoratore D.M.M. in seguito all’infortunio sul lavoro occorsogli in data ***** presso il reparto ***** (lavorazione acciaio inox) all’interno dello stabilimento della società appellante mentre attraversava una zona di pericolo e nello stesso momento in cui venivano movimentati carichi pesanti, di per sè potenzialmente pericolosi.

A fondamento della sentenza la Corte d’Appello rigettava l’eccezione di decadenza triennale sollevata dall’appellante; rigettava inoltre la censura in ordine alla carenza di prova della responsabilità della società appellante ex art. 2087 c.c. e per illegittima inversione dell’onere probatorio, atteso che la società non aveva allegato alcuna concreta circostanza di fatto in ordine all’adozione di misure di sicurezza ed all’avvenuta “segnalazione in modo chiaramente visibile di tali zone”; come aveva confermato il medico funzionario dell’Asl dott. M. che aveva effettuato l’accesso in loco a seguito dell’incidente, il quale – a prescindere dalle generiche ed ininfluenti affermazioni in ordine al mancato riscontro di violazioni della normativa antinfortunistica ed al carattere episodico dell’incidente – aveva pure dichiarato che l’accaduto fosse ascrivibile alla non stretta osservanza del D.P.R. n. 547 del 1955, art. 8, punti 7 e 8; pertanto non avendo il datore di lavoro assolto all’onere probatorio su di lui gravante doveva ritenersi dimostrata la violazione delle norme indicate e sussistente quindi la responsabilità civile D.P.R. n. 1124 del 1965, ex artt. 10 e 11 nei confronti dell’Inail che agiva in regresso.

Contro la sentenza ha proposto ricorso per cassazione la W.T. S.p.A. con un motivo illustrato da memoria, al quale ha resistito l’Inail con controricorso.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.- Con l’unico motivo di ricorso la W.T. S.p.A denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1218 e 2087 c.c. e del D.P.R. n. 547 del 1955, art. 8, punti 7-8; illegittima inversione dell’onere probatorio; insufficienza e/o contraddittorietà e/o illogicità della motivazione in ordine ai risultati dell’istruzione probatoria. Ultra petizione. Ad illustrazione delle censure la ricorrente sosteneva che la Corte territoriale fosse giunta a confermare la sussistenza della responsabilità in capo alla società ricorrente sulla base della asserita violazione degli obblighi di cui al combinato disposto delle norme sopraindicate incorrendo nell’errore di ritenere che il nesso eziologico, la cui prova incombe sul lavoratore, fosse quello tra la prestazione lavorativa e danno, mentre l’onere gravante sul lavoratore è quello di dimostrare, in via prioritaria e logicamente antecedente, il nesso causale tra l’infortunio subito e l’ambiente di lavoro; la Corte aveva inoltre affermato la responsabilità datoriale nella produzione dell’incidente prescindendo completamente dal dato emerso in istruttoria dalla quale si evinceva che l’incidente avesse avuto una causa meramente accidentale, non prevedibile nè altrimenti evitabile; tanto più che sulla base degli stessi elementi istruttori il procedimento penale era stato archiviato. La Corte d’Appello aveva pure inteso in modo parziale e fuorviante il resoconto tecnico del funzionario dell’Asl Dottor M. sull’intera dinamica del sinistro, nonchè sul relativo stato dei luoghi. La valutazione del consulente sulla genesi fortuita dell’incidente era stata infatti relegata a fattore irrilevante e generico, sicchè l’interpretazione adottata nella sentenza finiva per affermare che il datore fosse tenuto ad adottare misure di prevenzione che considerata la natura fortuita dell’evento – non avrebbero comunque potuto evitarne il verificarsi. In definitiva, secondo la ricorrente, i giudici avevano imposto un comportamento professionale di contenuto indefinibile ed approssimativo, in quanto diretto a prevenire un rischio che si era accertato avere avuto una causa del tutto accidentale, finendo per configurare una vera e propria responsabilità oggettiva a carico del datore, violando così la consolidata giurisprudenza secondo cui l’art. 2087 c.c. non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva,non potendosi desumere dalla stessa norma la prescrizione di un obbligo assoluto di rispettare ogni cautela possibile ed innominata diretta ad evitare un qualsiasi danno, con la conseguenza di ritenere automatica la responsabilità del datore di lavoro ogniqualvolta un evento dannoso si sia comunque verificato.

2.- Va anzitutto respinta l’eccezione preliminare di inammissibilità sollevata dall’Inail dato che, al contrario di quanto ritenuto dall’Istituto, le censure sollevate in ricorso possono essere individuate specificamente, ancorchè siano stati allegati alcuni stralci di copia dei provvedimenti di primo e di secondo grado, e l’annullamento della sentenza d’appello sia stato richiesto con un unico motivo comprensivo della violazione di legge, del vizio di motivazione e di quello di ultrapetizione.

3.- Tanto premesso, il ricorso deve essere disatteso nel merito.

E’ noto infatti che, in base all’attuale configurazione dell’ordinamento, ai fini dell’azione di regresso esercitabile dall’INAIL nei confronti del datore di lavoro o degli altri corresponsabili del fatto reato (Cass. n. 12561/2017) in seguito ad infortunio o malattia professionale, come ai fini dell’azione di danno differenziale promossa dal lavoratore – entrambe assoggettate allo stesso regime normativo ai sensi del D.P.R. n. 1124 del 1965, artt. 10 e 11 – occorre che venga dedotta in giudizio l’illiceità penale del fatto, accertabile incidenter tantum anche in sede civile, per un reato perseguibile d’ufficio. E’ necessario quindi, quantomeno, che sia stato allegato che in seguito ad infortunio o a malattia professionale sia sopravvenuto un periodo di inabilità superiore a 40 giorni con violazione dell’art. 2087 c.c. o di altre norme dettate per la prevenzione infortuni e malattie professionali.

Nel caso in esame la Corte d’Appello, premesso correttamente che la fattispecie configurasse un caso di responsabilità contrattuale e che la ripartizione dell’onere della prova fosse regolato secondo il regime degli artt. 1218 e 2087 c.c., ha affermato anzitutto, in fatto, che l’infortunio fosse avvenuto mentre il lavoratore attraversava una zona di pericolo ovvero nello stesso momento in cui venivano movimentati carichi pesanti, potenzialmente pericolosi; e che, in diritto, la responsabilità datoriale discendesse dalla violazione degli obblighi di prevenzione posti a carico del datore dagli artt. 2087 c.c. e dal D.P.R. n. 547 del 1955, art. 8, punti 7 e 8 dal momento che la società non aveva allegato alcuna concreta circostanza di fatto in ordine all’adozione di misure di sicurezza ed all’avvenuta “segnalazione in modo chiaramente visibile di tali zone”. Era rimasto anzi positivamente acclarato che la stessa zona non fosse protetta e segnalata come avrebbe dovuto essere a norma di legge per evitare il pericolo per i lavoratori che vi transitavano di subire incidenti per la caduta di corpi dall’alto.

4.- Essendo state quindi commesse violazioni di natura prevenzionale, da porsi in relazione causale con l’infortunio subito dal lavoratore T.W., tutti i presupposti previsti dall’ordinamento per affermare la responsabilità civile del datore di lavoro nei confronti dell’Inail risultano integrati; e non può certo parlarsi di natura fortuita del fatto.

Pertanto la censura relativa alla violazione dell’onere della prova dell’Inail, o in ipotesi del lavoratore, sui quali in realtà – ferma l’allegazione dell’illiceità penale del fatto – incombe soltanto la prova del nesso causale tra infortunio e fatto, secondo lo schema della responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c., è priva di fondamento essendo pure pacificamente accertato che nella fattispecie l’infortunio fosse avvenuto nel corso del lavoro e nell’ambiente di lavoro.

5.- Va poi chiarito che in proposito i giudici di merito non hanno affatto preteso che il datore dovesse adottare misure di sicurezza innominate, avendo bensì accertato il mancato rispetto di precise norme di sicurezza, puntualmente previste dalla legge ovvero la mancata adozione delle tipiche cautele dettate nei richiamati D.P.R. n. 547 del 1955, art. 8, punti 7 e 8 i quali prevedono appunto che il datore di lavoro obbligato debba prendere “misure appropriate per proteggere i lavoratori autorizzati ad accedere alle zone di pericolo” ed inoltre che “le zone di pericolo devono essere segnalate in modo chiaramente visibile”.

6.- Ovviamente, essendo venuta meno qualsiasi ipotesi di pregiudizialità penale, nessuna efficacia può avere in sede civile il fatto che in quella penale si fosse proceduto all’archiviazione del fatto, dovendo il giudice civile procedere ad una autonoma valutazione dell’esistenza del fatto reato e di tutti gli altri presupposti dell’azione civile esercitata dal lavoratore per il danno differenziale o dall’INAIL ai fini del regresso.

Nessuna inversione dell’onere della prova è stata dunque operata dai giudici di merito, così come nessun vizio di ultrapetizione risulta commesso. Del pari non risulta avvenuta alcuna violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, posto che le critiche sollevate in proposito, sotto il profilo motivazionale, nel ricorso sono del tutto generiche ed investono il fatto e l’accertamento spettante su di esso ai giudici deputati alla valutazione del merito. Nessuna omissione di un fatto decisivo rilevante è stata neppure prospettata, posto che, al contrario, anche la testimonianza del dott. M. dell’ASL è stata presa in considerazione in toto, valutata e valorizzata dalla Corte d’Appello in funzione probatoria secondo il proprio insindacabile giudizio, che risulta pure scevro da qualsiasi vizio di natura logica o giuridica.

7. In conclusione, per le esposte ragioni la sentenza impugnata si sottrae alle censure sollevate con il ricorso che va dunque rigettato. Le spese seguono la soccombenza come in dispositivo. Deve darsi atto inoltre che sussistono le condizioni richieste dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater per il raddoppio del contributo unificato a carico del ricorrente.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali liquidate in Euro 4200,00, di cui Euro 4000,00 per compensi professionali, oltre al 15% per spese generali ed oneri accessori. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 3 luglio 2018.

Depositato in Cancelleria il 19 ottobre 2018

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