LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE L
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CURZIO Pietro – Presidente –
Dott. DORONZO Adriana – rel. Consigliere –
Dott. GHINOY Paola – Consigliere –
Dott. SPENA Francesca – Consigliere –
Dott. CAVALLARO Luigi – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 10431/2016 proposto da:
IRETI SPA, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DI RIPETTA 22, presso lo studio dell’avvocato GERARDO VESCI, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati RUGGERO PONZONE, GIOVANNA PACCHIANA PARRAVICINI, MARCO GUASCO;
contro
I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, *****, in persona del legale rappresentante pro tempore, in proprio e quale procuratore speciale della SOCIETA’ DI CARTOLARIZZAZIONE DEI CREDITI I.N.P.S. (S.C.C.I.) S.p.A., *****, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso la sede dell’AVVOCATURA dell’Istituto medesimo, rappresentato e difeso dagli avvocati CARLA D’ALOISIO, ANTONINO SGROI, LELIO MARITATO, EMANUELE DE ROSE;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1001/2015 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata il 20/10/2015;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 25/09/2018 dal Consigliere Dott. ADRIANA DORONZO.
RILEVATO
che:
con sentenza pubblicata il 20/10/2015, la Corte d’appello di Bologna ha rigettato l’appello proposto da Iren Emilia S.p.A. contro la sentenza del tribunale che aveva rigettato le opposizioni ad avvisi di addebito notificati alla società appellante ed aventi ad oggetto il pagamento di contributi dovuti all’INPS per CIG, CIGS e mobilità;
la Corte, a fondamento del decisum, ha argomentato sulla base della natura della società, che in quanto a capitale misto, non può usufruire delle esenzioni contributive previste per le imprese industriali degli enti pubblici;
contro la sentenza Ireti S.p.A., già Iren Emilia s.p.a., propone ricorso per cassazione, sostenuto da plurimi motivi;
l’Inps, anche per conto della società di cartolarizzazione dei crediti, resiste con controricorso;
la proposta del relatore ex art. 380 bis c.p.c. è stata comunicata alle parti, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza camerale non partecipata.
CONSIDERATO
che:
1.- Con il primo motivo, la parte ricorrente, denunciando la violazione di un complesso di norme (D.Lgs.C.P.S. 12 agosto 1947, n. 869, art. 3, comma 1; L. n. 1115 del 1968, art. 2; L. n. 464 del 1972, art. 1; L. n. 164 del 1975, art. 1; L. n. 270 del 1988, art. 4; L. n. 142 del 1990, art. 22; D.Lgs. n. 276 del 2000, art. 113; L. n. 448 del 2001, art. 35; D.Lgs. n. 158 del 1995, art. 2, comma 2; D.Lgs. n. 163 del 2006, art. 3, comma 28; D.Lgs. n. 333 del 2003, art. 2; L. n. 133 del 2008, art. 20, comma 2,; artt. 2112 e 2359 c.c.; art. 115 c.p.c.; D.Lgs. n. 148 del 2015, artt. 10,19,20 e 46; L. 28 dicembre 2015, n. 208, art. 1,comma 309), nonchè il vizio di motivazione, censura la sentenza per avere ritenuto dovuti i contributi per CIGS e CIGO.
1.1. Rileva che, in base al disposto della L. n. 448 del 2001, art. 35, gli enti locali, per la gestione di servizi, reti, impianti e beni, sono tenuti ad avvalersi di soggetti costituiti nella forma di società di capitali con la partecipazione maggioritaria degli enti locali, anche associati; sostiene che la partecipazione di soggetti pubblici al capitale sociale comporta che le società medesime debbano essere annoverate nell’ambito delle “imprese industriali degli enti pubblici, anche se municipalizzate”, esonerate, in base al disposto del D.C.P.S. n. 869 del 1947, art. 3, dall’applicazione delle norme sull’integrazione dei guadagni degli operai dell’industria.
1.2. Deduce altresì che tale interpretazione e confortata dal D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 148, recante disposizioni per il riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali, il quale, nel disciplinare il campo di applicazione della disciplina delle integrazioni salariali ordinarie e dei relativi contributi, dispone che essa si applichi anche alle “imprese industriali degli enti pubblici, salvo il caso in cui il capitale sia interamente di proprietà pubblica” (art. 10, comma 1 , lett. l); inoltre, il D.Lgs. cit., art. 46, contempla tra le abrogazioni espresse il D.Lgs.C.P.S. 12 agosto 1947, n. 869, (comma 1, lett. b) e dispone altresì l’abrogazione di ogni altra disposizione contraria o incompatibile con il decreto. Assume la parte ricorrente che la norma dell’art. 10 avrebbe, in base ad una scelta discrezionale del legislatore, disposto solo per l’avvenire, nel senso che solo a far tempo dalla sua entrata in vigore (24 settembre 2015) può dirsi sorto l’obbligo contributivo per la cassa integrazione ordinaria per le imprese industriali degli enti pubblici il cui capitale non sia interamente di proprietà pubblica.
1.3. Quanto al vizio di motivazione, esso andrebbe ravvisato nell’omesso esame di quelle situazioni di fatto inerenti alle caratteristiche delle società, che in ragione del peculiare oggetto, della presenza di capitale pubblico, della “assoluta dominanza” dell’ente pubblico, dell’assoggettamento al regime di concessione pubblica ed al controllo della Corte dei Conti, non si prestano ad essere inquadrate, come invece avvenuto nella decisione impugnata, nell’ambito della normale società per azioni di diritto comune.
2. Con il secondo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione della L. n. 223 del 1991, art. 16, commi 1 e 2, nonchè vizio di motivazione, censura la decisione per avere affermato la sussistenza dell’obbligo al pagamento del contributo di mobilità richiamando le stesse considerazioni già svolte nel primo motivo, considerata la natura della contribuzione per mobilità, al cui pagamento sono tenute soltanto le aziende obbligate al versamento della contribuzione CIGO-CIGS.
3. Con il terzo motivo, la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., art. 116 c.p.c., comma 8, lett. a) e L. n. 388 del 2000, art. 15, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè il vizio di motivazione, per insufficienza ed illogicità, e censura la sentenza nella parte in cui, a fronte di una espressa contestazione del quantum delle pretese dell’Inps sia nel ricorso di primo grado che in quello di appello, la corte territoriale non si sarebbe pronunciata sull’ esatta entità delle somme dovute e, in particolare, sulle sanzioni e somme aggiuntive, così violando l’art. 112 c.p.c. e comunque rendendo una motivazione del tutto insufficiente; aggiunge che in ogni caso le somme dovute a tali titoli dovevano essere rideterminate in applicazione dell’art. 116 cit., comma 15, in ragione delle oggettive incertezze connesse a contrastanti orientamenti giurisprudenziali, nonchè in considerazione dell’avvenuto pagamento della contribuzione, sia pure con riserva di ripetizione.
4. Con il quarto motivo, la ricorrente si duole della condanna alle spese, che invece avrebbero dovuto essere compensate in ragione del contrasto interpretativo già illustrato del motivo precedente.
5. I primi due motivi sono manifestamente infondati.
E’ pacifico che la Ireti S.p.A., così nuovamente denominata Iren Emilia s.p.a., è società partecipata per una quota da soci pubblici, in particolare Comuni di Parma, Piacenza e Reggio Emilia e altri comuni confinanti. Si tratta pertanto di società a capitale misto.
Trova applicazione il principio affermato dalla giurisprudenza ormai costante di questa Corte secondo cui, in tema di contribuzione previdenziale, le società a capitale misto, ed in particolare le società per azioni a prevalente capitale pubblico, aventi ad oggetto l’esercizio di attività industriali, sono tenute al pagamento dei contributi previdenziali previsti per la cassa integrazione guadagni e la mobilità, non potendo trovare applicazione l’esenzione stabilita per le imprese industriali degli enti pubblici, trattandosi di società di natura essenzialmente privata, finalizzate all’erogazione di servizi al pubblico in regime di concorrenza, nelle quali l’amministrazione pubblica esercita il controllo esclusivamente attraverso gli strumenti di diritto privato, e restando irrilevante, in mancanza di una disciplina derogatoria rispetto a quella propria dello schema societario, la mera partecipazione – pur maggioritaria, ma non totalitaria – da parte dell’ente pubblico (cfr., ex aliis, Cass. 20 aprile 2016, n. 7981; Cass. 2 ottobre 2015, n. 19761; Cass. 29 agosto 2014, n. 18455; Cass. 30 ottobre 2013, n. 24524; Cass. 10 dicembre 2013, n. 27513; Cass. 11 settembre 2013, n. 20818; Cass. 10 marzo 2010, n. 5816; da ultimo, Cass. 15 gennaio 2016, n. 600, Cass. 4 aprile 2017, n. 8704, e Cass. 25 settembre 2018, n. 22730).
Le argomentazioni delle odierni ricorrenti ripropongono questioni già esaminate e disattese dai precedenti giurisprudenziali richiamati ai quali, pertanto, va data continuità.
5.1. L’orientamento non può dirsi contraddetto dal D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 148, recante disposizioni per il riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali che aveva abrogato il D.L.C.P.S. 12 agosto 1947, n. 869, art. 3, alla luce dei precedenti di questa Corte (v. Cass. ord. 12 maggio 2016, n. 9816; Cass. 31 dicembre 2015, n. 26202; Cass., 29 dicembre 2015, n. 26016, e numerose altre, tra cui Cass. n. 22730/2018, cit.): con tali decisioni si è sostenuto che dall’art. 10, su cit., e dal D.Lgs. cit., art. 20, non può affatto desumersi che, in precedenza, le società a capitale misto fossero esonerate dalla contribuzione per cassa integrazione ordinaria e straordinaria, avendo la norma natura ricognitiva e di sistemazione della materia, non già un valore innovativo. A ciò deve aggiungersi che con la L. 28 dicembre 2015, n. 208, il legislatore, intervenendo proprio sull’art. 46, ha previsto che: l’abrogazione (già disposta alla lett. b) non opera con riguardo al D.Lgs.C.P.S. n. 869 del 1947, art. 3, con ciò ripristinando la norma menzionata (in tal senso Cass. n. 8704/2017).
Ne discende che dagli interventi legislativi del 2015 non possono trarsi elementi che inducano ad un ripensamento della consolidata giurisprudenza di questa Corte in tema di obbligo contributivo per cassa integrazione guadagli ordinaria e straordinaria delle società il cui capitale sia parzialmente detenuto da un soggetto pubblico (cfr. Cass. n. 22730/2018, cit.).
6. Il terzo motivo è inammissibile.
L’omessa pronuncia su alcuni dei motivi di appello, e, in genere, su una domanda, eccezione o istanza ritualmente introdotta in giudizio, integra una violazione dell’art. 112 c.p.c., che deve essere fatta valere esclusivamente ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, che consente alla parte di chiedere – e al giudice di legittimità di effettuare – l’esame degli atti del giudizio di merito, nonchè, specificamente, dell’atto di appello, mentre è inammissibile ove il vizio sia dedotto come violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, (Cass. 27/10/2014, n. 22759; Cass. 16/03/2017, n. 6835).
E’ pur vero che l’erronea intitolazione del motivo di ricorso per cassazione non osta alla sua riqualificazione e sussunzione in altre fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, nè determina l’inammissibilità del ricorso se, dall’articolazione del motivo, sia chiaramente individuabile il tipo di vizio denunciato (Cass. 27/10/2017, n. 25557), ma è pur sempre necessario che la deduzione della violazione dell’art. 112 c.p.c. rechi univoco riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione (Cass., 31/10/2013, n. 24553). Nel caso in esame tale riferimento è del tutto omesso, avendo il ricorrente ricollegato l’omessa pronuncia al vizio di motivazione, sotto il profilo della sua insufficienza.
6.1. Il motivo di ricorso difetta, inoltre, della necessaria specificità.
Affinchè possa utilmente dedursi in sede di legittimità un vizio di omessa pronunzia, ai sensi dell’art. 112 c.p.c., è necessario, da un lato, che al giudice del merito siano state rivolte una domanda od un’eccezione autonomamente apprezzabili, ritualmente ed inequivocabilmente formulate, per le quali quella pronunzia si sia resa necessaria ed includibile, e, dall’altro, che tali istanze siano riportate puntualmente, nei loro esatti termini e non genericamente ovvero per riassunto del loro contenuto, nel ricorso per cassazione, con l’indicazione specifica, altresì, dell’atto difensivo e/o del verbale di udienza nei quali l’una o l’altra erano state proposte, onde consentire al giudice di verificarne, “in primis”, la ritualità e la tempestività ed, in secondo luogo, la decisività delle questioni prospettatevi.
6.2. Nella fattispecie in esame, la parte avrebbe dovuto indicare con esattezza in che sede, con quale atto e in che termini la questione inerente al quantum delle somme pretese, agli eventuali errori di calcolo commessi dall’Inps, all’effettiva entità delle sanzioni o somme aggiuntive, sarebbe stata sottoposta al giudice di primo grado, le ragioni del suo rigetto da parte del tribunale nonchè lo specifico motivo di doglianza sollevato in appello, al fine di consentire a questa Corte di valutare la sussistenza del vizio denunciato.
E invece, l’indicazione riportata nel ricorso è del tutto generica, essendosi la parte limitata a trascrivere un breve stralcio delle conclusioni rassegnate nei ricorsi di primo e secondo grado (“che le pretese contenute negli avvisi di addebito sub docc. 1, 2 e 3 del fascicolo di primo grado, sono erronee, infondate, non provate o come meglio…”, pag. 24), senza che siano state nemmeno prospettate le ragioni degli errori nè in clic cosa essi sarebbero consistiti, risolvendosi pertanto la contestazione in una mera formula di stile. Nè è ammissibile che tale questione si prospettabile per la prima volta in sede di legittimità, involgendo accertamenti di merito non consentiti in questa sede.
7. Il quarto motivo è del pari inammissibile.
La valutazione dell’opportunità della compensazione totale o parziale rientra nei poteri discrezionali del giudice di merito sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca, sia in quella (prospettata dal ricorrente) della sussistenza di giusti motivi, ed il giudice none tenuto a dare ragione con una espressa motivazione del mancato uso di tale sua facoltà, con la conseguenza che la pronuncia di condanna alle spese, anche se adottata senza prendere in esame l’eventualità di una compensazione, non può essere censurata in cassazione, neppure sotto il profilo della mancanza di motivazione (Cass. sez. Un. 15/07/2005, n. 14989; Cass. 31/03/2006, n. 7607).
8. In definitiva, il ricorso deve essere rigettato e la ricorrente deve essere condannata al pagamento in favore dell’Inps controricorrente, anche nella qualità di procuratore speciale della SCCI, delle spese del presente giudizio, che si liquidano come da dispositivo in ragione del valore della controversia.
Poichè il ricorso e stato notificato in data successiva al 30 gennaio 2013, sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 10.000,00 per compensi professionali e Euro 200,00 per esborsi, oltre al 15% di rimborso forfettario delle spese generali e altri accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1, quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 25 settembre 2018.
Depositato in Cancelleria il 22 ottobre 2018