LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ORILIA Lorenzo – Presidente –
Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –
Dott. ABETE Luigi – rel. Consigliere –
Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –
Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso n. 18546 – 2014 R.G. proposto da:
***** s.p.a., (già “Flenco” s.p.a.) – p.i.v.a. ***** – in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, alla via F. Confalonieri, n. 2, presso lo studio dell’avvocato Gianfranco Parisi che congiuntamente e disgiuntamente all’avvocato Paola Pivano la rappresenta e difende in virtù di procura speciale a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
GATTI s.r.l., (già “Gatti” s.p.a.) – p.i.v.a. ***** – in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, alla piazza Martiri di Belfiore, n. 2, presso lo studio dell’avvocato Riccardo Chilosi che congiuntamente e disgiuntamente all’avvocato Marco Ascoli la rappresenta e difende in virtù di procura speciale a margine del controricorso.
– controricorrente –
avverso la sentenza della corte d’appello di Milano n. 1621 del 18.3/6.5.2014;
udita la relazione nella camera di consiglio dell’8 maggio 2018 del consigliere dott. Luigi Abete.
MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO Con atto in data 1.9.2004 la “Flenco” s.p.a. citava a comparire dinanzi al tribunale di Varese la “Gatti” s.p.a..
Chiedeva, tra l’altro, determinarsi nell’importo di Euro 130.074,68, in conformità all’accordo economico collettivo del 20.3.2002, l’indennità di fine rapporto dovuta, in qualità di agente di commercio, alla convenuta.
Si costituiva la “Gatti” s.p.a..
Instava per il rigetto dell’avversa domanda; in via riconvenzionale chiedeva, tra l’altro, condannarsi l’attrice al pagamento dell’indennità di fine rapporto, da liquidarsi secondo i criteri di cui all’art. 1751 c.c., nonchè al pagamento delle provvigioni per gli affari, tra gli altri, conclusi successivamente alla cessazione del rapporto grazie all’attività di essa agente.
Con sentenza n. 1071/2011 l’adito tribunale, tra l’altro, condannava l’attrice a pagare alla convenuta la somma di Euro 355.331,93 a titolo di residua indennità ex art. 1751 c.c., oltre interessi.
Proponeva appello la “Gatti” s.r.l. (già “Gatti” s.p.a.).
Resisteva la “*****” s.p.a. (già “Flenco” s.p.a.); esperiva appello incidentale.
Con sentenza n. 1621 dei 18.3/6.5.2014 la corte d’appello di Milano accoglieva parzialmente l’appello principale, rigettava l’appello incidentale e per l’effetto condannava – per quel che qui rileva – la “*****” a pagare alla “Gatti” altresì la somma di Euro 279.881,10 a titolo di provvigioni per l’affare concluso con la “Alstom Power Sweden AB” e la somma di Euro 723.215,26 a titolo di provvigioni per l’affare concluso con la “G.E. Energy Products France”.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso la “*****” s.p.a. (già “Flenco” s.p.a.); ne ha chiesto sulla scorta di tre motivi la cassazione con ogni susseguente statuizione anche in ordine alle spese di lite.
La “Gatti” s.r.l. ha depositato controricorso; ha chiesto dichiararsi inammissibile o rigettarsi l’avverso ricorso con il favore delle spese.
Le parti hanno depositato memoria.
Con il primo motivo la ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione dell’art. 1748 c.c., comma 3.
Deduce che ha errato la corte di merito a reputare che gli affari con la “Alstom Power Sweden AB” e con la “G.E. Energy Products France” fossero stati da essa ricorrente conclusi entro un termine ragionevole dallo scioglimento del rapporto con la “Gatti”, sì che alla “Gatti” anche per tali affari competessero le provvigioni.
Deduce in particolare che i summenzionati affari sono stati siglati allorchè erano decorsi quattordici mesi e più e non già un anno dallo scioglimento del rapporto con l’agente.
Con il secondo motivo la ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione dell’art. 1748 c.c., comma 3.
Deduce che ha errato la corte distrettuale a ritenere che i “Memoranda of Understanding” “contengono già tutti gli elementi essenziali dell’assetto negoziale” (così sentenza d’appello, pag. 7) e quindi a reputare che gli affari che vi si correlano, sono stati conclusi grazie all’attività della “Gatti”, sì che a tal ultima società competano le relative provvigioni.
Deduce in particolare che il “Memorandum of Understanding” datato 16.7.2003 non reca alcuna sottoscrizione e costituisce una semplice bozza.
Con il terzo motivo la ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione dell’art. 1751 c.c..
Deduce che ha errato la corte territoriale, allorchè ha respinto l’appello incidentale ed ha confermato la quantificazione in Euro 355.331,93 dell’indennità di fine rapporto.
Deduce che è fuor di contestazione l’applicazione dell’art. 1751 c.c. e, tuttavia, la corte di Milano non ha tenuto conto che l’anzidetta disposizione codicistica richiede che il pagamento dell’indennità sia equo in relazione a tutte le circostanze del caso concreto.
Si premette che non riveste valenza, quale causa di interruzione L. Fall., ex art. 43, u.c., la circostanza che la “*****” s.r.l. (già s.p.a.) è stata dichiarata fallita con sentenza del 12.5.2017 del tribunale di Torino.
Invero, in tema di ricorso per cassazione, la dichiarazione di fallimento di una delle parti non integra una causa di interruzione del relativo giudizio, posto che in quest’ultimo opera il principio dell’impulso d’ufficio e non trovano, pertanto, applicazione i comuni eventi interruttivi del processo contemplati in via generale dalla legge (cfr. Cass. 23.3.2017, n. 7477; Cass. (ord.) 15.11.2017, n. 27143).
Il primo ed il terzo motivo di ricorso sono strettamente connessi.
Entrambi i motivi difatti si qualificano in rapporto alla previsione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, u.c..
Occorre tener conto, da un lato, che con i surriferiti mezzi di impugnazione la ricorrente sostanzialmente censura il giudizio “di fatto” cui la corte d’appello ha atteso (“la sentenza dichiara ragionevole un periodo di un anno mentre (…) l’arco temporale poi riconosciuto (…) sarebbe (…) di 14 mesi e mezzo”: così ricorso, pag. 12; in sede di determinazione dell’indennità di fine rapporto occorre considerare le circostanze tutte del caso concreto: cfr. ricorso, pag. 17).
Occorre tener conto, dall’altro, che è propriamente la previsione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 che concerne l’accertamento e la valutazione dei fatti rilevanti ai fini della decisione della controversia (cfr. Cass. sez. un. 25.11.2008, n. 28054; cfr. Cass. 11.8.2004, n. 15499).
Su tale scorta ambedue i mezzi in disamina sono privi di fondamento.
Ovviamente gli asseriti vizi veicolati dai motivi de quibus sono da vagliare in rapporto della novella formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 applicabile alla fattispecie ratione temporis (la sentenza della corte di Milano è stata depositata il 6.5.2014), e nel segno della pronuncia n. 8053 del 7.4.2014 delle sezioni unite di questa Corte.
In quest’ottica si osserva quanto segue.
Per un verso, è da escludere recisamente che taluna delle figure di “anomalia motivazionale” – tra le quali non è annoverabile il semplice difetto di “sufficienza” della motivazione – destinate ad acquisire significato alla stregua della pronuncia delle sezioni unite summenzionata, possa scorgersi in relazione alle motivazioni cui la corte di merito ha ancorato il suo dictum.
In particolare, con riferimento al paradigma della motivazione “apparente” – che ricorre allorquando il giudice di merito non procede ad una approfondita disamina logico – giuridica, tale da lasciar trasparire il percorso argomentativo seguito (cfr. Cass. 21.7.2006, n. 16672) – la corte distrettuale ha compiutamente ed intellegibilmente esplicitato il proprio iter argomentativo (“tra lo scioglimento del rapporto di agenzia e il momento di effettuazione degli ordini da parte dei clienti svedese e francese è trascorso circa un anno. Tale arco temporale appare (…) ragionevole, in ragione dell’importanza degli affari conclusi e della natura del settore commerciale di riferimento e in considerazione, altresì, del fatto che lo stesso c.t.p. della società proponente ha ritenuto congruo valutare la regolazione dei rapporti pregressi fra Flenco s.p.a. e Gatti s.p.a. con riferimento a tutto l’anno 2004”: così sentenza d’appello, pag. 6; “il giudice di prime cure ha correttamente liquidato un’indennità (…) calcolata sulla base degli accurati e condivisibili calcoli svolti dal c. t. u. (…)”: così sentenza d’appello, pagg. 10 – 11).
Per altro verso, la corte territoriale ha sicuramente disaminato i fatti storici dalle parti discussi, a carattere decisivo, connotanti, in partis quibus, la res litigiosa.
Per altro verso ancora, la ricorrente censura l’asserita distorta ed erronea valutazione delle risultanze di causa (“si è provato documentalmente (…) come il principale cliente, la GE, fosse già cliente della Flenco (…) ben prima dell’inizio del rapporto con la Gatti”: così ricorso, pag. 17; “lo sviluppo della Flenco è dipeso soprattutto dal grande sforzo, anche finanziario, sostenuto dalla Flenco”: così ricorso, pag. 18).
E tuttavia il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nè in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4, – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante (cfr. Cass. 10.6.2016, n. 11892).
In ogni caso l’iter motivazionale che sorregge il dictum della corte di Milano risulta in toto ineccepibile sul piano della correttezza giuridica ed assolutamente congruo ed esaustivo.
Si evidenzia in particolare che per nulla è pertinente la deduzione, veicolata dal primo motivo, secondo cui la corte di seconde cure ha di fatto consentito che a determinare il “termine ragionevole” fosse il consulente d’ufficio, in tal guisa delegando all’ausiliario l’esplicazione di attività giurisdizionale (cfr. ricorso, pag. 12).
Infatti, siccome si è premesso, la corte lombarda ha considerato “ragionevole” il lasso temporale trascorso tra lo scioglimento del rapporto di agenzia e il momento di effettuazione degli ordini da parte della “Alstom Power Sweden AB” e della “G.E. Energy Products France” alla luce, altresì e propriamente, dei rilievi non già del c.t.u. sibbene del consulente tecnico di parte della società preponente (cfr. sentenza d’appello, pag. 6).
Privo di fondamento è pur il secondo motivo.
Evidentemente le censure che il secondo mezzo veicola, danno corpo ad una quaestio ermeneutica.
In tal guisa non possono che esplicar valenza gli insegnamenti di questo Giudice del diritto.
Innanzitutto l’insegnamento secondo cui l’interpretazione del contratto e degli atti di autonomia privata costituisce un’attività riservata al giudice di merito ed è censurabile in sede di legittimità soltanto per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale ovvero per vizi di motivazione, qualora la stessa risulti contraria a logica o incongrua, cioè tale da non consentire il controllo del procedimento logico seguito per giungere alla decisione (cfr. Cass. 22.2.2007, n. 4178; cfr. Cass. 2.5.2006, n. 10131).
Altresì l’insegnamento secondo cui nè la censura ex n. 3 nè la censura ex n. 5 dell’art. 360 c.p.c., comma 1 possono risolversi in una critica del risultato interpretativo raggiunto dal giudice, che si sostanzi nella mera contrapposizione di una differente interpretazione; d’altronde, per sottrarsi al sindacato di legittimità, sotto entrambi i cennati profili, quella data dal giudice al contratto non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili, e plausibili, interpretazioni; sicchè, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni (plausibili), non è consentito – alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito – dolersi in sede di legittimità del fatto che sia stata privilegiata l’altra (cfr. Cass. 22.2.2007, n. 4178; cfr. Cass. 2.5.2006, n. 10131).
Ancora l’insegnamento delle sezioni unite di questa Corte n. 8053 del 7.4.2014, in precedenza menzionato.
Nel solco delle enunciate indicazioni nomofilattiche l’interpretazione patrocinata dalla corte d’appello è in toto ineccepibile sul piano della correttezza giuridica, ovvero non diverge da alcun criterio legale di ermeneutica contrattuale.
Segnatamente la corte di merito ha dato debitamente atto che “gli ordini ricevuti dalla società preponente nel corso del 2004 sono l’esatta attuazione dei nominata memoranda, accordi conclusi grazie all’attività svolta dall’agente Gatti” (così sentenza d’appello, pag. 7). Su tale scorta non riveste precipua valenza la circostanza che “il MOU 16 luglio 2003 (…) non è stato affatto sottoscritto” (così ricorso, pag. 14).
Nel solco delle enunciate indicazioni nomofilattiche l’interpretazione patrocinata dalla corte d’appello è immune inoltre da vizi suscettibili di assumere rilievo in relazione alla previsione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Segnatamente è da escludere, da un canto, che taluna delle figure di “anomalia motivazionale” destinate (giusta, appunto, la statuizione n. 8053/2014 delle sezioni unite) ad acquisire significato in rapporto al novello dettato dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 possa scorgersi in relazione alle motivazioni cui la corte di merito ha ancorato in parte qua il suo dictum.
Propriamente, la corte distrettuale – siccome si è anticipato – ha chiarito che “tali accordi, già di per sè vincolanti tra le parti, contengono già tutti gli elementi essenziali dell’assetto negoziale, salvo non determinare gli specifici quantitativi delle future forniture” (così sentenza d’appello, pag. 7).
Segnatamente è da riconoscere, d’altro canto, che la corte territoriale ha di certo disaminato il fatto storico dalle parti discusso, a carattere decisivo, connotante, in parte qua, la res litigiosa ovvero l’interpretazione dei “Memoranda of Understanding”.
In ogni caso è innegabile che le censure dalla ricorrente addotte col secondo motivo si risolvono nella mera prefigurazione dell’antitetica interpretazione (“i Memoranda of Understanding sono tappe intermedie nel processo di formazione progressiva dei rapporti contrattuali”: così ricorso, pag. 15, ove è riprodotto il riferito passaggio della decisione di prime cure).
In dipendenza del rigetto del ricorso la società ricorrente va condannata a rimborsare alla s.r.l. controricorrente le spese del giudizio di legittimità.
La liquidazione segue come da dispositivo.
Il ricorso è datato 6.6.2014.
Si dà atto della sussistenza dei presupposti perchè, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater (comma 1 quater introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17), la società ricorrente sia tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione a norma dell’art. 13, comma 1 bis medesimo D.P.R..
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente, la “*****” s.p.a. (ora s.r.l.), a rimborsare alla controricorrente, “Gatti” s.r.l., le spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano in Euro 12.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfetario delle spese generali nella misura del 15%, i.v.a. e cassa come per legge; ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sez. seconda civ. della Corte Suprema di Cassazione, il 8 maggio 2018.
Depositato in Cancelleria il 22 ottobre 2018