LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PETITTI Stefano – Presidente –
Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere –
Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –
Dott. SCALISI Antonino – rel. Consigliere –
Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 18726-2017 proposto da:
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;
– ricorrente –
contro
M.A., + ALTRI OMESSI, nonchè elettivamente domiciliati in ROMA, VIA SARDEGNA 29, presso lo studio dell’avvocato MASSIMO FERRARO, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato ALESSANDRO FERRARA;
– controricorrenti –
avverso il decreto n. 511/2017 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositato il 19/01/2017, RG.n. 58298/2011 VG;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 22/05/2018 dal Consigliere ANTONINO SCALISI.
FATTI DI CAUSA
M.A., + ALTRI OMESSI (deceduto il *****), con ricorso iscritto in data 18/11/2011 esponevano che con sentenza del Tribunale di Napoli – Sezione Fallimentare in data 1/04/1992 era stato dichiarato il fallimento di Snc *****. *****; che tutti i ricorrenti erano stati ammessi al passivo in data 1 luglio 1993, chiedevano in via istruttoria l’acquisizione degli atti del giudizio presupposto e, quindi, nel merito ex L. n. 89 del 2001 la condanna del Ministero della Giustizia alla liquidazione del danni non patrimoniali (e patrimoniali) subiti a causa della non ragionevole durata del processo presupposto, in misura di Euro 22.500,00 ciascuno o, in subordine, nella somma maggiore o minore ritenuta di giustizia, nonchè alla rifusione delle spese processuali.
Si costituiva il Ministero, che eccepiva, in via preliminare, l’inammissibilità e l’infondatezza del ricorso; chiedeva disporsi opportune informative presso la locale sede dell’INPS circa l’eventuale liquidazione di importi in favore delle parti a titolo di mensilità e di TFR, anticipate in corso di procedura, nonchè quanto alla sussistenza, allo stato, di posizioni creditorie in capo ai ricorrenti e di quale entità, posto che alcuni erano intervenuti quali eredi. In via preliminare di rito, eccepiva l’improcedibilità del ricorso per mancata prova di quanto asseritamente dedotto circa lo stato di pendenza della procedura presupposta alla data di inoltro del ricorso per Cassazione; nel merito sulla domanda chiedeva che venisse diversificata la domanda in proprio e la domanda iure hereditatis.
All’udienza camerale il difensore del ricorrente insisteva per l’estensione della domanda di equa riparazione fino all’intervenuto decreto di chiusura del fallimento del 23 settembre 2011.
La Corte di Appello di Roma con decreto n. cronolog. 511 del 2017 condannava il Ministero della Giustizia al pagamento della somma di Euro 5.000,00 pro quota in favore di P.R., E.G. ed E.P.; Euro 1.500,00 pro quota in favore di D.L.C., A.N., A.L., A.N.; Europ5.500 ciascuno a favore degli altri ricorrenti. Condannava altresì il Ministero della Giustizia al pagamento delle spese del procedimento. Secondo la Corte distrettuale, l’indennizzo doveva essere correlato al modesto paterna d’animo che i ricorrenti hanno potuto subire a seguito del ritardo nella definizione del procedimento, tenendo conto dell’oggetto della domanda del giudizio presupposto, della pretesa posta a base della stessa, nonchè del fatto di non avere avuto uno specifico interesse alla definizione rapida del giudizio presupposto, in quanto funzionale al recupero di attivo da ripartire ai ricorrenti, per cui è congrua la liquidazione dell’indennizzo nella misura solitamente riconosciuta per i giudizi amministrativi protrattisi oltre i dieci anni, rapportata su base annua ad Euro 500,00. Le posizioni dei ricorrenti andavano diversificate tenendo conto della richiesta iure proprio o iure hereditatis.
La cassazione di questo decreto è stata chiesta dal Ministero della Giustizia con ricorso affidato a tre motivi. I sigg.ri M.A., + ALTRI OMESSI, hanno resistito con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.= il Ministero della Giustizia lamenta:
a) Con il primo motivo di ricorso motivazione apparente in relazione al parametro costituzionale ex art. 111 Cost., comma 2 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4. Secondo il ricorrente la liquidazione che la Corte distrettuale avrebbe effettuato sulla base di Euro 500 per ogni anno di ritardo sarebbe motivata solo apparentemente avendo fatto ricorso a frasi di stile senza considerare che l’effetto riduttivo è ricollegabile sia all’intervento del fondo di garanzia presso l’INPS sia al piano di riparto parziale intervenuto in corso di procedura.
1.1.= Il motivo è infondato.
La giurisprudenza di questo giudice di legittimità ha più volte affermato che si ha motivazione omessa o apparente quando il giudice di merito omette di indicare, nei contenuti della sentenza, gli elementi da cui ha desunto il proprio convincimento ovvero, pur individuando questi elementi, non procede ad una disamina logico-giuridica, tale da lasciar trasparire il percorso argomentativo seguito (soprattutto Cass. n. 16736/2007).
Ciò non ricorre nel caso in esame, posto che la Corte distrettuale sia pure in maniera sintetica, ha esplicitato le ragioni per le quali ha ritenuto congrua la liquidazione dell’indennizzo richiesto nella misura di Euro 500,00 per ciascun anno di ritardo, oltre la ragionevole durata del giudizio presupposto. Come ha puntualmente affermato la Corte distrettuale: “quanto alla quantificazione ritiene questa Corte che l’indennizzo nel caso di specie debba essere correlato al modesto paterna d’animo che i ricorrenti hanno potuto subire a seguito nel ritardo nella definizione del procedimento, tenendo conto dell’oggetto della domanda del giudizio presupposto, della pretesa posta a base della stessa, nonchè del fatto di non avere avuto uno specifico interesse alla definizione rapida del giudizio presupposto, in quanto funzionale al recupero di attivo da ripartire ai ricorrenti”.
2.= Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta motivazione omessa su un fatto decisivo della controversia che ha formato oggetto di discussione tra le parti in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Il ricorrente si duole del fatto che la Corte distrettuale non abbia parametrato l’indennizzo liquidato all’effettiva consistenza della posta in giuoco, considerate le scarse possibilità di integrale soddisfazione dei crediti insinuati nel passivo fallimentare e per quanto parzialmente soddisfate anche con l’intervento dell’INPS. Piuttosto, la Corte distrettuale avrebbe dovuto valutare che la liquidazione effettuata era esorbitante rispetto a quanto la stessa parte ben sapeva di poter realizzare.
2.1.= Il motivo è inammissibile per genericità. Infatti, il ricorrente non indica le circostanze in base alle quali era prevedibile la scarsa esigibilità dei crediti insinuati nel passivo fallimentare, per altro, di una procedura, come è evidente, chiusa, non per mancanza di attivo, ma, per riparto finale ai sensi del R.D. n. 267 del 1942. Così come, il ricorrente non indica, neppure, l’ammontare dei singoli crediti insinuati nel passivo fallimentare, non consentendo a questa Corte di verificare la consistenza e/o l’effettività della censura.
2.2.= E, comunque, come è stato, già, detto da questa Corte (Cass. n. 16311 del 2014) in tema di equa riparazione da irragionevole durata del processo fallimentare, per il quale il creditore non abbia neppure dimostrato di aver manifestato nei confronti degli organi della procedura uno specifico interesse alla definizione della stessa, è congrua la liquidazione dell’indennizzo nella misura solitamente riconosciuta per i giudizi amministrativi protrattisi oltre dieci anni, rapportata su base annua a circa Euro 500,00, dovendosi riconoscere al giudice, il potere, avuto riguardo alle peculiarità della singola fattispecie, di discostarsi dagli ordinari criteri di liquidazione dei quali deve dar conto in motivazione.
3.= Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta la violazione e/o falsa applicazione L. n. 89 del 2001, ex art. 2 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Secondo il ricorrente, la Corte distrettuale nel pervenire all’addebito di 11 anni non avrebbe tenuto conto della complessità e della peculiarità della procedura e, comunque, non avrebbe tenuto conto dell’aggravio costituito dal decesso del curatore e dalla nomina di altro curatore.
3.1.= Il motivo è infondato.
Va qui osservato che secondo lo standard ricavabile dalle pronunce della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, le procedure fallimentari non dovrebbero superare la durata complessiva di sette anni (Cass. 2010/8047; 2010/22408), in quanto, tenuto conto della peculiarità della procedura fallimentare, il termine di cinque anni, che può ritenersi normale nella procedura di media complessità, è stato ritenuto elevabile fino a sette anni, allorquando – come nella specie – il procedimento si presenti notevolmente complesso (Cass. 2009/ 20549), ipotesi ravvisabile in presenza di un numero elevato di creditori, di una particolare natura o situazione giuridica dei beni da liquidare (partecipazioni societarie, beni indivisi ecc), della proliferazione di giudizi connessi alla procedura, ma autonomi e, quindi, a loro volta di durata condizionata dalla complessità del caso, oppure della pluralità delle procedure concorsuali interdipendenti.
Ora, la Corte distrettuale, ha rispettato pienamente questi principi, tanto è vero che ha avuto modo di affermare: “(…) La procedura fallimentare – giudizio presupposto – per la molteplicità dei creditori e per l’entità degli importi insinuati, nonchè per la sussistenza di un attivo da liquidare, l’esistenza di più procedure fallimentari riunite (ed in particolare, quella della S.N.C. e quelle dei soci illimitatamente responsabili con relativo coinvolgimento del patrimonio personale dei soci), deve essere considerata complessa, come richiesto dall’Amministrazione resistente, e comporta, pertanto, una durata ragionevole pari ad anni sette (Cass. n. 14394 del 2015, Cass. n. 8540 del 2010).
In definitiva, il ricorso va rigettato e il ricorrente condannato a rimborsare alla parte controricorrente le spese del presente giudizio di cassazione che vengono liquidate con il dispositivo con distrazione a favore dell’avv. Alessandro Ferrara, dichiaratosi antistatario.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il Ministero della Giustizia a rimborsare a parte controricorrente le spese del presente giudizio che liquida in Euro. 1.500,00 oltre spese generali pari al 15% del compenso ed accessori come per legge, con distrazione a favore dell’avv. Alessandro Ferrara, dichiaratosi antistatario.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile di questa Corte di Cassazione, il 22 maggio 2018.
Depositato in Cancelleria il 22 ottobre 2018