Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Sentenza n.26663 del 22/10/2018

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Antonio – Presidente –

Dott. CURCIO Laura – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 10400-2014 proposto da:

UNICREDIT S.P.A., in persona dei legali rappresentanti pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 34, presso lo studio dell’avvocato LUCIANO PALLADINO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato GIANLUCA ROSSI, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

B.L., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA BANCO DI S.

SPIRITO 48, presso lo studio dell’avvocato AUGUSTO D’OTTAVI, rappresentata e difesa dall’avvocato RENATO COLA, giusta delega in atti;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 1058/2013 della CORTE D’APPELLO di ANCONA, depositata il 31/01/2014 r.g.n. 358/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 06/06/2018 dal Consigliere Dott. CARLA PONTERIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CORASANITI GIUSEPPE, che ha concluso per l’inammissibilità o in subordine rigetto;

udito l’Avvocato GIANLUCA ROSSI;

udito l’Avvocato RENATO COLA.

FATTI DI CAUSA

1. La Corte d’appello di Ancona, con sentenza n. 1058 depositata il 31.1.14, ha respinto l’impugnazione proposta da Unicredit s.p.a. confermando la sentenza di primo grado che, in accoglimento della domanda della lavoratrice, aveva condannato la società al pagamento del “premio fedeltà”, computando nel periodo di “effettivo servizio” anche dodici mesi di congedo facoltativo ai sensi della L. n. 1204 del 1971, art. 7.

2. La Corte territoriale ha sottolineato l’uso promiscuo nell’accordo aziendale del 18.6.1992 dei termini “anzianità” ed “effettivo servizio”, preclusivo di una interpretazione meramente letterale.

3. Ha ritenuto l’interpretazione adottata dal Tribunale, ove pure non imposta dal criterio di conservazione del contratto di cui all’art. 1367 c.c., comunque conforme agli interessi che le parti erano chiamate a contemperare, in quanto una diversa lettura dell’accordo aziendale avrebbe potuto influenzare le scelte dei dipendenti, frustrando gli scopi della disciplina in materia di congedi parentali.

4. La Corte di merito ha richiamato il principio di non discriminazione e, in particolare, il D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 39,comma 2, sulla equiparazione integrale delle ore di permesso per allattamento alle ore lavorate e l’art. 22, comma 3 del medesimo decreto che equipara i periodi di congedo per maternità alla anzianità di servizio effettiva; ha affermato come il D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 1, comma 2, ponesse un divieto di deroga in peius, ad opera della autonomia privata e della contrattazione collettiva, della disciplina posta a tutela delle lavoratrici madri.

4. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso Unicredit s.p.a., affidato a due motivi, cui ha resistito con controricorso, illustrato da successiva memoria, la lavoratrice.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Col primo motivo di ricorso la Unicredit s.p.a. ha dedotto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e ss. e 1369 c.c..

2. Ha sostenuto come gli accordi aziendali individuassero chiaramente il presupposto della corresponsione del premio nella prestazione di un determinato periodo di effettivo servizio lavorativo; in particolare, l’art. 14 dell’Accordo per la concentrazione tra il Banco di Santo Spirito e il Banco di Roma del 18.6.1992 faceva riferimento al “25 anno di effettivo servizio e…30 anno di affettivo servizio” e l’art. 11 dell’Accordo Generale di armonizzazione dei trattamenti normativi ed economici tra Unicredit s.p.a., le aziende dell’ex Gruppo Capitalia del 31.5.08 e le organizzazioni sindacali, alla “anzianità di effettivo servizio”.

3. Ha definito erronea, in quanto contraria alla lettera degli accordi e alla volontà delle parti, l’interpretazione adottata nella sentenza impugnata che fa leva su una sorta di interscambiabilità dei termini “anzianità” e “effettivo servizio”, omettendo di considerare come il termine “anzianità” non sia mai utilizzato autonomamente ma sempre come “anzianità di effettivo servizio”, ad indicare la effettività della prestazione per il tempo stabilito, indipendentemente dalla denominazione del periodo lavorato come “servizio” oppure “anzianità”.

4. Ha definito contraria alla volontà delle parti la lettura data dalla Corte di merito e argomentata anche in base al fatto che una regola diversa avrebbe potuto influenzare le scelte delle dipendenti nel godimento dell’astensione facoltativa per maternità; ha definito inappropriato il riferimento al premio di produttività (rispetto al quale il servizio effettivo includeva le ore di permesso per allattamento) di cui al contratto integrativo aziendale del 27.9.07, in quanto emolumento non paragonabile al premio di cui si discute.

5. Ha sostenuto come l’erogazione del premio, collegata al parametro certo e determinato dello svolgimento di effettiva attività lavorativa, portasse ad escludere qualsiasi violazione del principio di non discriminazione, anche in ragione del fatto che la sospensione del periodo di servizio effettivo determinasse non la perdita del premio ma unicamente la proroga del termine per la maturazione dello stesso, con conseguente venir meno del pericolo di condizionamento delle scelte delle dipendenti.

6. Col secondo motivo la società ricorrente ha censurato la sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 34, per avere considerato equivalente il concetto di effettiva prestazione di attività lavorativa a quello di anzianità di servizio.

7. Ha richiamato precedenti pronunce di questa Suprema Corte che considerano legittima l’esclusione dal computo del servizio effettivo dei periodi di sospensione facoltativa della prestazione, ove un certo emolumento premiale sia collegato, secondo le disposizioni volute dalle parti collettive, alla prestazione di effettivo servizio.

8. Ha sostenuto come l’art. 34 citato prevedesse il computo dei periodi di congedo parentale nell’anzianità di servizio, con la sola esclusione degli effetti relativi alle ferie, alla tredicesima mensilità o alla gratifica natalizia, laddove il premio aziendale in oggetto prescinde dall’anzianità di servizio ed è unicamente collegato all’effettiva prestazione lavorativa; ha ribadito come la mancata erogazione del premio non potesse considerarsi discriminatoria in quanto legata a presupposti certi e determinati.

9. I due motivi, che si esaminano congiuntamente per ragione di connessione logica e giuridica, non possono trovare accoglimento.

10. La questione decisa dalla Corte di merito attiene all’interpretazione della clausola dell’accordo aziendale che riconosce il premio fedeltà ai dipendenti al compimento di un determinato numero di anni di effettivo servizio.

11. La società ricorrente ha negato il premio alla dipendente sul rilievo della insussistenza del requisito dei 30 anni di effettivo servizio, per avere la predetta goduto di due periodi semestrali di astensione facoltativa per maternità, non computabili ai fini del servizio effettivo.

12. Questa Corte ha più volte affermato come l’interpretazione del contratto e degli atti di autonomia privata, tra cui sono compresi i contratti aziendali, costituisce un’attività riservata al giudice di merito, ed è censurabile in sede di legittimità soltanto per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale ovvero per vizi di motivazione. Ai fini della censura di violazione dei canoni ermeneutici, non è peraltro sufficiente l’astratto riferimento alle regole legali di interpretazione, ma è necessaria la specificazione dei canoni in concreto violati, con la precisazione del modo e delle considerazioni attraverso cui il giudice si è discostato dagli stessi (Cass. n. 4178 del 2007; Cass. n. 1754 del 2006).

14. Si è ulteriormente precisato come la censura di violazione dei canoni di ermeneutica contrattuale, al pari di quella per vizio di motivazione, non possa risolversi in una critica del risultato interpretativo raggiunto dal giudice, che si sostanzi nella mera contrapposizione di una differente interpretazione. D’altronde, per sottrarsi al sindacato di legittimità, sotto entrambi i profili, quella data dal giudice al contratto non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili, e plausibili, interpretazioni; sicchè, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni (plausibili), non è consentito – alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito – dolersi in sede di legittimità del fatto che sia stata privilegiata l’altra (Cass. n. 10131 del 2006).

15. Nel caso di specie, la Corte di merito ha ritenuto ambiguo il dato letterale desumibile dagli accordi riportati nella sentenza, succedutisi nel corso degli anni, relativi al premio definito come di fedeltà “in favore del personale con oltre 25 anni di anzianità di effettivo servizio” o di anzianità, di cui all’art. 14 dell’accordo del 18.6.1992, corrisposto “in due distinte erogazioni: al compimento del 25 e del 30 anno di effettivo servizio, nelle percentuali, rispettivamente del 25% e del 13% della retribuzione annua lorda”. Ai sensi dell’art. 14 citato, comma 2 come riportato nella sentenza impugnata, “Per la corresponsione del premio di anzianità saranno conteggiate le anzianità maturate presso la propria Azienda ovvero altre Aziende di credito già assorbite dagli stessi Istituti all’atto della concentrazione”.

16. Alla luce delle previsioni appena richiamate dalla Corte di merito, non può ravvisarsi la dedotta violazione degli artt. 1362 e 1369 c.c. risultando il dato letterale non suscettibile di una piana ed univoca interpretazione in ragione dell’uso indistinto, negli accordi che hanno disciplinato il premio, dei termini “servizio effettivo” ed “anzianità”, quest’ultimo non sempre utilizzato unitamente all’altro.

17. Ciò posto, deve ritenersi come l’interpretazione adottata dalla Corte di merito, nel senso di includere nel servizio effettivo i periodi di congedo facoltativo, non solo non violi i suddetti canoni ermeneutici, ma sia la sola compatibile col principio di non discriminazione e come tale atta ad evitare la nullità delle clausole contrattuali in esame, secondo il disposto di cui all’art. 1367 c.c..

18. Occorre infatti considerare che la Direttiva n. 2006/54 riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego (rifusione) ha statuito nei Considerando che “La parità fra uomini e donne è un principio fondamentale del diritto comunitario, ai sensi dell’art. 2 e dell’art. 3, paragrafo 2, del trattato, nonchè ai sensi della giurisprudenza della Corte di giustizia. Le suddette disposizioni del trattato sanciscono la parità fra uomini e donne quale “compito” e “obiettivo” della Comunità e impongono alla stessa l’obbligo concreto della sua promozione in tutte le sue attività”, (Considerando n. 2). “Dalla giurisprudenza della Corte di giustizia risulta chiaramente che qualsiasi trattamento sfavorevole nei confronti della donna in relazione alla gravidanza o alla maternità costituisce una discriminazione diretta fondata sul sesso. Pertanto, occorre includere esplicitamente tale trattamento nella presente direttiva”. (Considerando n. 23). “Per chiarezza, è altresì opportuno prevedere esplicitamente la tutela dei diritti delle lavoratrici in congedo di maternità, in particolare per quanto riguarda il loro diritto a riprendere lo stesso lavoro o un lavoro equivalente e a non subire un deterioramento delle condizioni di lavoro per aver usufruito del congedo di maternità nonchè a beneficiare di qualsiasi miglioramento delle condizioni lavorative cui dovessero aver avuto diritto durante la loro assenza”, (Considerando n. 25).

19. L’art. 9, lett. g) del Direttiva citata considera discriminazione “interrompere il mantenimento o l’acquisizione dei diritti durante i periodi di congedo di maternità o di congedo per motivi familiari prescritti in via legale o convenzionale e retribuiti dal datore di lavoro”.

20. Il D.Lgs. n. 198 del 2006, come modificato dal D.Lgs. n. 5 del 2010, di attuazione della citata Direttiva, impone di assicurare “la parità di trattamento e di opportunità tra donne e uomini… in tutti i campi, compresi quelli dell’occupazione, del lavoro e della retribuzione”.

21. Il divieto di discriminazione per ragioni connesse al sesso, sancito già dalla L. n. 300 del 1970, art. 15, come modificato dal D.Lgs. n. 216 del 2003, è ribadito dal D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 3 e dal D.Lgs. n. 198 del 2006, art. 25,comma 2 bis entrambi come modificati dal D.Lgs. n. 5 del 2010, che hanno esteso il divieto di atti e comportamenti discriminatori anche alla genitorialità, con particolare riguardo a “ogni trattamento meno favorevole in ragione dello stato di gravidanza, nonchè di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità o dell’esercizio dei relativi diritti”.

22. In relazione al caso di specie, occorre peraltro considerare che la controricorrente usufruì dei periodi di astensione facoltativa dal lavoro per due semestri, negli anni 1991 e 1993, (cfr. ricorso per cassazione, pag. 5).

23. La disciplina in vigore all’epoca dell’astensione facoltativa era quella dettata dalla L. n. 2104 del 1971 che all’art. 7 stabiliva: “La lavoratrice ha diritto di assentarsi dal lavoro, trascorso il periodo di astensione obbligatoria di cui all’art. 4, lett. c) della presente legge, per un periodo, entro il primo anno di vita del bambino, di sei mesi, durante il quale le sarà conservato il posto.

La lavoratrice ha diritto, altresì, ad assentarsi dal lavoro durante le malattie del bambino di età inferiore a tre anni, dietro presentazione di certificato medico.

I periodi di assenza di cui ai precedenti commi sono computati nell’anzianità di servizio, esclusi gli effetti relativi alle ferie e alla tredicesima mensilità o alla gratifica natalizia”.

24. In virtù di tale disciplina, solo la lavoratrice madre poteva godere dell’astensione facoltativa dal lavoro per sei mesi, trascorso il periodo di astensione obbligatoria, (cfr. ora D.Lgs n. 151 del 2001, art. 32, sul congedo parentale).

25. Se si interpretasse la disciplina contrattuale nel senso preteso da parte datoriale, cioè come tale da escludere dal computo dell’effettivo servizio necessario ai fini del premio i periodi di astensione facoltativa dal lavoro, si farebbe derivare dalle disposizioni in esame un effetto di discriminazione indiretta di genere.

26. Ai sensi del D.Lgs. n. 198 del 2006, art. 25, comma 2, si ha discriminazione indiretta “quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell’altro sesso, salvo che riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa, purchè l’obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari”.

27. Difatti, in base alla disciplina di cui alla L. n. 1204 del 1971 che consentiva solo alle lavoratrici madri di poter godere dell’astensione facoltativa dal lavoro, la correlazione del premio alla prestazione di effettivo servizio per un certo numero di anni, con esclusione dal computo dei periodi di astensione facoltativa dal lavoro, metterebbe le lavoratrici donne in una condizione sfavorevole e penalizzante rispetto ai colleghi uomini.

28. Tanto basta a far ritenere corretta, ai sensi dell’art. 1367 c.c., l’interpretazione data dalla Corte di merito, in quanto la sola idonea ad evitare la nullità della clausola in parola per violazione della L. n. 300 del 1970, art. 15, comma 3, D.Lgs. n. 198 del 2006, artt. 1 e 25 bis, del D.Lgs n. 151 del 2001, art. 3, come modificati dal D.Lgs. n. 5 del 2010.

29. Per le ragioni esposte, il ricorso deve essere respinto, con condanna della società ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo.

30. Si dà atto della sussistenza dei presupposti di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 2.700,00 per compensi professionali, in Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del medesimo art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 6 giugno 2018.

Depositato in Cancelleria il 22 ottobre 2018

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