LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MANNA Antonio – Presidente –
Dott. BERRINO Umberto – Consigliere –
Dott. RIVERSO Roberto – Consigliere –
Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –
Dott. CALAFIORE Daniela – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 23432/2013 proposto da:
B.A., *****, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DELLE ACACIE 13 C/O CENTRO CAF, presso lo studio dell’avvocato GIANCARLO DI GENIO, rappresentato e difeso dall’avvocato FELICE AMATO;
– ricorrente –
contro
INPS – ISTITUTO NAZIONALE PREVIDENZA SOCIALE, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso lo studio dell’avvocato ANTONIETTA CORETTI, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati VINCENZO TRIOLO e VINCENZO STUMPO;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1125/2012 della CORTE D’APPELLO di SALERNO, depositata l’8/11/2012 R.G.N. 44/2012;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 04/07/2018 dal Consigliere Dott. DANIELA CALAFIORE;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. VISONA’ Stefano, che ha concluso per il parziale accoglimento dei primi tre motivi di ricorso e rigetto del quarto;
udito l’Avvocato VINCENZO STUMPO.
FATTI DI CAUSA
1) Con sentenza n. 1125 del 2012, la Corte d’appello di Salerno, in parziale accoglimento dell’appello proposto da B.A. avverso la sentenza di primo grado – che aveva riconosciuto il diritto della stessa all’iscrizione negli elenchi dei lavoratori agricoli per l’anno 2006 per 102 giornate ed il diritto alla indennità di disoccupazione agricola per tale periodo e negato il diritto all’assegno per il nucleo familiare, compensato per un terzo le spese di lite liquidate in tale misura in Euro 600,00 – ha condannato l’INPS al pagamento dell’assegno per il nucleo familiare per l’anno 2006, mantenuto la compensazione per un terzo delle spese di primo grado e liquidato le stesse spese nella misura di Euro 1.212,00.
2) La Corte territoriale ha rilevato che la prova piena del requisito reddituale relativo alla concessione dell’assegno per il nucleo familiare era stata fornita in appello con la produzione del certificato dell’Agenzia delle Entrate. Inoltre, la compensazione per un terzo delle spese era corretta alla luce della mancata produzione sin dal primo grado della necessaria documentazione. Per quanto riguarda, poi, la quantificazione delle spese, la Corte ha osservato che il giudice nella regolamentazione delle spese giudiziali può applicare d’ufficio tutte le norme che regolano la liquidazione a prescindere dalle richieste delle parti salvo il limite della reformatio in peius, e che, nel caso di specie, il difensore non aveva allegato, durante lo svolgimento del giudizio di primo grado, la nota delle spese.
Il giudice di primo grado, stante l’obbligo di provvedere sulla base degli atti di causa e secondo le tariffe vigenti ratione temporis, aveva fatto corretta applicazione delle tariffe relative al D.M. n. 127 del 2004, con scaglione fino a 25.900 Euro e non per valore indeterminabile come richiesto giacchè il valore doveva trarsi dalle prestazioni previdenziali in concreto richieste e riconducibili all’iscrizione per l’anno 2006.
Pertanto, considerando che non potevano essere accolte le doglianze relative: alle voci separate “disamina sentenza e dispositivo” in quanto coincidenti perchè contestuali, all’esame delle ordinanze che corrispondevano a meri rinvii d’udienza, all’udienza del 23 dicembre 2010 in cui non era comparso nessuno, alla voce “vacazione” non prevista per la partecipazione all’udienza ed alla notifica del ricorso ad altre parti posto che lo stesso era stato notificato solo all’Inps, alla discussione della causa mai avvenuta, alla intimazione dei testi perchè non documentata come la consultazione con il cliente e l’informazione dello stesso, la Corte territoriale, ritenuta la particolare semplicità della causa, ha liquidato nell’intero per il primo grado Euro 1212,00 di cui Euro 782,00 per diritti ed Euro 430,00 per onorario, compensate le spese d’appello in considerazione dell’accoglimento parziale dell’impugnazione.
3. Avverso tale sentenza, B.A. propone ricorso per cassazione fondato su quattro motivi illustrati da memoria con la quale, fra l’altro, chiede l’attribuzione delle spese di tutti i gradi di giudizio all’avvocato Tommaso Amato, difensore costituito in primo grado ed in appello, con ciò modificando le conclusioni del ricorso per cassazione che chiedevano la distrazione delle spese del giudizio di legittimità in favore dell’unico procuratore del relativo giudizio, avvocato Felice Amato.
3) L’Inps ha depositato delega in calce alla copia notificata del ricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1) Con il primo motivo la ricorrente, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, si duole della violazione dell’art. 91 c.p.c., L. n. 1051 del 1957, art. 1, D.M. n. 127 del 2004, sulle tariffe professionali; degli artt. 10,11,12,13,14,15,16,17 c.p.c., anche in combinazione con il D.M. n. 127 del 2004, art. 6. In particolare, si fa riferimento alla natura indeterminabile della controversia in quanto relativa al riconoscimento della sussistenza validità di un rapporto di lavoro contestato dall’Inps con impossibilità di utilizzare uno dei parametri di legge per calcolarne il valore economico.
2) Il secondo motivo di ricorso, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, ha per oggetto la violazione dell’art. 91 Legge Prof., D.M. n. 127 del 2004, con riferimento al mancato riconoscimento delle voci relative alla notifica della sentenza di primo grado incluse quelle di accesso all’ufficio e di esame della relata di notifica della medesima sentenza di primo grado, all’esame anche delle ordinanze di mero rinvio ed alla notifica del ricorso a sedi diverse dell’INPS ed all’assistenza alla prova; inoltre, il medesimo motivo lamenta la violazione dell’art. 2697 c.c., quanto alla richiesta prova dello svolgimento di tali attività; nonchè, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, vizio di motivazione quanto alla omessa considerazione della presunzione semplice relativa all’avvenuta “corrispondenza informativa” ed alla “consultazione con il cliente” e della effettiva partecipazione necessaria a più di due udienze.
3) Il terzo motivo richiama la violazione di plurime disposizioni di legge (artt. 91,415,420,429 c.p.c., L. n. 1501 del 1957, D.M. n. 127 del 2004, art. 2697 c.c.) e vizio di motivazione con riferimento al mancato riconoscimento dei diritti legati alla voce “discussione” data la sua essenzialità nel processo del lavoro e le risultanze dei verbali d’udienza.
4) Il quarto motivo si riferisce alla violazione dell’art. 92 c.p.c., quanto alla compensazione delle spese d’appello che la ricorrente ritiene erronea perchè non sorretta da idonea motivazione ed in contrasto con l’esito del giudizio.
5) I primi tre motivi, da trattare congiuntamente perchè connessi, sono infondati.
6) Al fine di inquadrare correttamente la questione, va ricordato che le Sezioni Unite di questa Corte di cassazione, con la sentenza n. 17405 del 12 ottobre 2012, hanno ricordato che, a norma del D.M. 20 luglio 2012, n. 140, art. 41, che ha dato attuazione alla prescrizione contenuta nel D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, art. 9, comma 2, convertito dalla L. 24 marzo 2012, n. 271, le disposizioni con cui detto decreto ha determinato i parametri ai quali devono esser commisurati i compensi dei professionisti, in luogo delle abrogate tariffe professionali, sono destinate a trovare applicazione quando, come nella specie, la liquidazione sia operata da un organo giurisdizionale in epoca successiva all’entrata in vigore del medesimo decreto.
7) Le Sezioni Unite hanno rilevato che “per ragioni di ordine sistematico e dovendosi dare al citato art. 41 del D.M. un’interpretazione il più possibile coerente con i principi generali cui è ispirato l’ordinamento, la citata disposizione debba essere letta nel senso che i nuovi parametri siano da applicare ogni qual volta la liquidazione giudiziale intervenga in un momento successivo alla data di entrata in vigore del predetto decreto e si riferisca al compenso spettante ad un professionista che, a quella data, non abbia ancora completato la propria prestazione professionale, ancorchè tale prestazione abbia avuto inizio e si sia in parte svolta in epoca precedente, quando ancora erano in vigore le tariffe professionali abrogate. Vero è che il D.L. n. 1 del 2012, art. 9, comma 3, stabilisce che le abrogate tariffe continuano ad applicarsi, limitatamente alla liquidazione delle spese giudiziali, sino all’entrata in vigore del decreto ministeriale contemplato nel comma precedente; ma da ciò si può trarre argomento per sostenere che sono quelle tariffe – e non i parametri introdotti dal nuovo decreto – a dover trovare ancora applicazione qualora la prestazione professionale di cui si tratta si sia completamente esaurita sotto il vigore delle precedenti tariffe. Non potrebbe invece condividersi l’opinione di chi, con riferimento a prestazioni professionali (iniziatesi prima, ma) ancora in corso quando detto decreto è entrato in vigore ed il giudice deve procedere alla liquidazione del compenso, pretendesse di segmentare le medesime prestazioni nei singoli atti compiuti in causa dal difensore, oppure di distinguere tra loro le diverse fasi di tali prestazioni, per applicare in modo frazionato in parte la precedente ed in parte la nuova regolazione. Osta ad una tale impostazione il rilievo secondo cui come anche nella relazione accompagnatoria del più volte citato decreto ministeriale non si manca di sottolineare – il compenso evoca la nozione di un corrispettivo unitario, che ha riguardo all’opera professionale complessivamente prestata; e di ciò non si è mai in passato dubitato, quando si è trattato di liquidare onorari maturati all’esito di cause durante le quali si erano succedute nel tempo tariffe professionali diverse, giacchè sempre in siffatti casi si è fatto riferimento alla tariffa vigente al momento in cui la prestazione professionale si è esaurita (cfr., ad esempio, Cass. n. 5426 del 2005, e Cass. n. 8160 del 2001). L’attuale unificazione di diritti ed onorari nella nuova accezione omnicomprensiva di “compenso” non può non implicare l’adozione del medesimo principio alla liquidazione di quest’ultimo, tanto più che alcuni degli elementi dei quali l’art. 4 del D.M., impone di tener conto nella liquidazione (complessità delle questioni, pregio dell’opera, risultati conseguiti, ecc.) sarebbero difficilmente apprezzabili ove il compenso dovesse esser riferito a singoli atti o a singole fasi, anzichè alla prestazione professionale nella sua interezza. Nè varrebbe obiettare che detti elementi di valutazione attengono alla liquidazione del compenso dovuto al professionista dal proprio cliente, sembrando inevitabile che essi siano destinati a riflettersi anche sulla liquidazione giudiziale effettuata per determinare il quantum delle spese processuali di cui la parte vittoriosa può pretendere il rimborso nei confronti di quella soccombente”.
8) Ritiene il Collegio che tale principio, del tutto condivisibile e confermato, tra le altre, da Cass. nn. 13628 del 2015 e 10520 del 2018, vada confermato ed applicato alla fattispecie in esame con la conseguenza che anche la Corte d’appello di Salerno, posto che la sentenza ora impugnata è stata pronunciata il 17 ottobre 2012, ed è successiva all’entrata in vigore del D.M. 20 luglio 2012, n. 140, avrebbe dovuto procedere alla liquidazione delle spese di lite oggetto del giudizio secondo tali nuovi parametri.
9) Da tale erronea applicazione della legge processuale, tuttavia, non deriva l’accoglimento dei motivi di ricorso giacchè, alla liquidazione delle spese del primo grado effettuata dalla sentenza impugnata non è applicabile l’invocato D.M. n. 127 del 2004, ma il D.M. n. 140 del 2012, che, a differenza del primo (sul quale v., fra le altre, Cass. n. 1723745), non prevede che le soglie numeriche ivi indicate siano vincolanti e peraltro la Corte d’appello di Salerno ha liquidato le spese mantenendosi all’interno dei limiti minimi previsti del D.M. n. 140 del 2012.
10) In particolare, quanto al valore della controversia, deve rilevarsi l’infondatezza del relativo profilo di ricorso. La Corte d’appello di Salerno ha, interpretando la domanda, ritenuto che la controversia fosse passibile di essere determinata nel suo valore economico massimo in considerazione degli importi delle prestazioni previdenziali che la parte aveva concretamente richiesto (indennità di disoccupazione agricola ed assegno per il nucleo familiare per l’anno 2006) a seguito del riconoscimento del diritto all’iscrizione negli elenchi dei lavoratori agricoli ed a tal fine ha indicato lo scaglione corrispondente al valore massimo di Euro 25.900,00.
11) Dunque, la sentenza impugnata ha sostanzialmente recepito l’insegnamento di questa Corte di Cassazione sintetizzato dalla massima secondo cui il valore indeterminabile, ai fini dell’applicazione delle relative tariffe per la liquidazione dell’onorario spettante all’avvocato, si deve intendere in senso obiettivo, ovvero quale conseguenza di un’intrinseca inidoneità della pretesa ad essere tradotta in termini pecuniari e può ravvisarsi laddove gli elementi di valutazione della pretesa difettino di concreti ed attendibili elementi per la stima, precostituiti e disponibili fin dall’introduzione del giudizio (Cass. n. 5901 del 2004; 14586 del 2005; 6414 del 2007).
12) A fronte della esplicita indicazione della sentenza impugnata sopra riferita, che corrisponde a contenuti concretamente apprezzabili dal punto di vista economico, alla luce specifiche tutele previdenziali tipicamente previste in favore dei lavoratori agricoli a tempo determinato, la ricorrente non ha efficacemente criticato le valutazioni formulate dalla sentenza impugnata in ordine ai contenuti del ricorso e si è limitata a prospettare una sorta di automatica connotazione di indeterminabilità della propria domanda in quanto tesa ad ottenere il riconoscimento del diritto all’iscrizione negli elenchi dei lavoratori agricoli per l’anno 2006 per 102 giornate.
12) In definitiva, in applicazione dei principi sopra riferiti, in questa sede occorre provvedere alla correzione in diritto della sentenza impugnata il cui dispositivo è invece conforme al diritto stesso, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c.. Infatti, la somma liquidata dalla Corte d’appello in parziale accoglimento dell’impugnazione della sentenza di primo grado, essendo pari ad Euro 1212,00 è conforme ai parametri, come si è detto peraltro non vincolanti, previsti dal D.L. n. 1 del 2012, art. 9, comma 2 e D.M. n. 140 del 2012, artt. 1-11, per controversie di valore fino a Euro 25.000,00 (Compenso tabellare ex art. 11: Euro 940,00: fase di studio Euro 275,00, fase introduttiva Euro 150,00, fase istruttoria Euro 165,00, fase decisoria Euro 350,00).
13) Il quarto motivo è infondato posto che la Corte d’appello ha fatto piana applicazione dell’art. 92 c.p.c. e, sulla base del solo parziale accoglimento dell’appello, ha doverosamente considerato l’esito globale della lite e compensato interamente le spese di quel grado di giudizio. Infatti, in tema di condanna alle spese processuali, il principio della soccombenza va inteso nel senso che soltanto la parte interamente vittoriosa non può essere condannata, nemmeno per una minima quota, al pagamento delle spese stesse e il suddetto criterio non può essere frazionato secondo l’esito delle varie fasi del giudizio ma va riferito unitariamente all’esito finale della lite, senza che rilevi che in qualche grado o fase del giudizio la parte poi soccombente abbia conseguito un esito a lei favorevole. Con riferimento al regolamento delle spese il sindacato della Corte di cassazione è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte vittoriosa, con la conseguenza che esula da tale sindacato e rientra nel potere discrezionale del giudice di merito la valutazione dell’opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite, e ciò sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca, sia nell’ipotesi di concorso con altri giusti motivi (Cass. n. 406 del 2008; n. 19613 del 2017).
14) Il ricorso va, dunque, rigettato e le spese seguono la soccombenza nella misura liquidata in dispositivo considerato che l’Inps ha limitato la propria attività difensiva alla sola discussione. Sussistono i presupposti per l’applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 400,00 per compensi, oltre ad Euro 200,00 per esborsi, spese generali nella misura del 15 per cento e spese accessorie di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 4 luglio 2018.
Depositato in Cancelleria il 22 ottobre 2018