LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –
Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –
Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –
Dott. POSITANO Gabriele – rel. Consigliere –
Dott. GORGONI Marilena – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 27623-2016 proposto da:
C.P., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ENNIO QUIRINO VISCONTI 103, presso lo studio dell’avvocato LUISA GOBBI, rappresentata e difesa dall’avvocato CRISTINA COZZI giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
L.P.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE LIEGI 28, presso lo studio dell’avvocato ELIANA SAPORITO, rappresentato e difeso dall’avvocato LUIGI LUCENTE giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 5234/2016 del TRIBUNALE di MILANO, depositata il 27/04/2016;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 17/05/2018 dal Consigliere Dott. GABRIELE POSITANO;
lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. TRONCONE Fulvio, che ha concluso chiedendo l’inammissibilità o comunque il rigetto del ricorso.
RILEVATO
che:
il geometra A.M. titolare della omonima impresa edile ebbe ad eseguire, su commissione dei coniugi L.M. e d.S.C. alcuni lavori edili per i quali i committenti lamentarono difetti, evocando in giudizio A. per il risarcimento dei danni. Quest’ultimo Si costituiva davanti al Tribunale di Milano, Sezione distaccata di Rho con il patrocinio dell’avvocato C.P. ed il Tribunale respingendo la domanda degli attori, li condannava al pagamento delle spese di lite, successivamente determinate in Euro 3129,53 corrisposte da L. presso lo studio dell’avvocato C., che emetteva fattura;
la Corte d’Appello di Milano accoglieva l’impugnazione dei committenti, condannando A. al risarcimento dei danni ed al pagamento delle spese di lite, autonomamente liquidate per il primo e per il secondo grado. La sentenza della Corte territoriale veniva impugnata con ricorso per cassazione da A.;
sulla base di quella statuizione L. richiedeva la restituzione delle spese corrisposte in conseguenza della sentenza del Tribunale di Rho direttamente nei confronti dell’avvocato Paola C., la quale chiedeva con atto di citazione del 21 settembre 2012 al Giudice di Pace di Rho l’accertamento negativo della pretesa vantata da L., rilevando che il pagamento eseguito a suo tempo da quest’ultimo non poteva qualificarsi come indebito, perchè avvenuto in ottemperanza di sentenza e che la restituzione di tale importo non poteva essere richiesta due volte, rispettivamente al cliente, A. e al difensore, C.;
il Giudice di Pace, con sentenza n. 197 del 2013, resa nella contumacia del convenuto, dichiarava la inesistenza del diritto di L. di ripetere dalla C. la somma versata, condannandolo al pagamento delle spese di lite;
con atto di citazione notificato il 24 aprile 2013, L.M. proponeva impugnazione avverso tale decisione davanti al Tribunale di Milano rilevando la nullità della notificazione dell’atto introduttivo di quel giudizio e, comunque, il rigetto della domanda di accertamento negativo del credito;
il Tribunale di Milano, con sentenza del 27 aprile 2016 riteneva infondata la censura relativa alla regolarità della notificazione della citazione e corretto il motivo di merito, con conseguente riforma della sentenza impugnata, rigetto della domanda di accertamento negativo promossa dall’avvocato Paola C. e condanna della stessa al pagamento delle spese di lite del grado;
avverso tale decisione propone ricorso per cassazione C.P. affidandosi a cinque motivi che illustra con memoria. Resiste in giudizio L.M. con controricorso. Il PG conclude per l’inammissibilità o, comunque, per il rigetto del ricorso.
CONSIDERATO
che:
con il primo motivo si rileva che il Tribunale omette di esaminare un fatto decisivo per il giudizio costituito dalla dichiarazione proveniente da L.M. avente ad oggetto il titolo ed il destinatario del pagamento in questione. In particolare, dal contenuto della raccomandata del 6 settembre 2012 indirizzata alla ricorrente emerge che L. provvedeva a rifondere a A.M. le spese del giudizio di primo grado mediante bonifico bancario. Pertanto, l’accipiens era A. e il difensore C., il procuratore delegato all’incasso. Sotto tale profilo alcuna rilevanza assume la circostanza dell’emissione di fattura, poichè il titolo è costituito dalla sentenza che prevedeva il pagamento;
con il secondo motivo si deduce la violazione dell’art. 2033 c.c. in tema di indebito pagamento così come interpretato dalla giurisprudenza di legittimità. In particolare, il Tribunale richiama la giurisprudenza che esclude la legittimazione passiva del rappresentante che riceve le somme oggetto di ripetizione di indebito, ma fonda la decisione sulla circostanza secondo cui la somma sarebbe stata introitata nel patrimonio della C., mentre è irrilevante il significato del documento contabile predisposto successivamente al pagamento;
il terzo motivo deduce la violazione della normativa in tema di legittimazione passiva, atteso che il pagamento, come rilevato in appello, non poteva ritenersi effettuato in favore della C. in proprio, ma soltanto in favore della parte ( A.) assistita dal medesimo avvocato;
con il quarto motivo si deduce la violazione delle norme in materia di legittimazione attiva di L. il quale, al momento del pagamento in favore del professionista, agiva anche in virtù di un debito della moglie, D.S.C.. Pertanto, in sede di ripetizione dell’indebito, avrebbe potuto richiedere solo la propria quota, non potendosi presumere la solidarietà attiva fra più creditori;
con il quinto motivo si lamenta la violazione degli artt. 282 e 336 c.p.c. e della normativa in materia di ne bis in idem rilevando che i committenti L. e D.S. chiesero in sede di appello la condanna di A. alla restituzione di quanto dagli stessi pagato a titolo di spese legali di primo grado; pertanto la medesima domanda era stata già proposta nell’ambito di quel giudizio, anche se la circostanza è stata ritenuta non rilevante dal giudice di appello;
preliminarmente va rilevato che i motivi sono irritualmente formulati, poichè per tutti e cinque non è indicato il vizio dedotto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., per il primo, terzo e quarto, non è indicata la norma violata, ma si fa generico riferimento ai principi (con riferimento al terzo e quarto motivo, mentre il primo motivo potrebbe essere ricondotto all’art. 360 c.p.c., n. 5 per quanto meglio si dirà più avanti);
quanto al primo motivo è vero che il Tribunale richiama la giurisprudenza di legittimità costante e favorevole alla tesi dell’avvocato C., che afferma il difetto di legittimazione passiva di quest’ultima in qualità di rappresentante di A.; ma, nello stesso modo, è vero che il nucleo centrale della decisione risiede nel fatto che, secondo il Tribunale, non è allegato che l’avvocato C. abbia speso il nome di A., mentre emergono elementi di senso contrario dalla circostanza che il professionista abbia emesso direttamente fattura. Ma il motivo è dedotto in maniera inammissibile, perchè l’omesso esame riguarderebbe un elemento documentale, cioè una prova e, comunque, la lettera raccomandata del 6 settembre 2012 che non è ritualmente allegata ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 6 perchè a pagina 12 del ricorso la ricorrente si limita a esporre che la predetta raccomandata era presente nel fascicolo di primo grado, documento n. 9, ma nulla precisa sulla sua collocazione e soprattutto se sia stata ritualmente depositata nei termini. Non migliore sorte tuo ha il riferimento alla procura alle liti che individuerebbe la C. come delegata all’incasso;
in ogni caso la censura non coglie la ratio decidendi della sentenza gravata che si fonda sulla constatazione che il professionista, nel ricevere il pagamento effettuato da L., non ha speso il nome di A. (pagina 8 della sentenza). In definitiva, non supera la motivazione del Tribunale che rileva la mancanza di prova del rapporto di rappresentanza, per assenza della splendida del nome (del rappresentato), mentre, al contrario, vi è il dato documentale della fattura emessa dal professionista in proprio, che milita in senso opposto;
il secondo motivo è inammissibile perchè la ricorrente non indica la motivazione censurata non spiegando la denunzia di violazione dell’art. 2033 c.c. limitandosi a svolgere considerazioni in fatto senza indicare in quale fase processuale tali deduzioni sarebbero state svolte (peraltro le indicazioni contenute nel ricorso, nella esposizione del fatto, si riferiscono solo al fascicolo di primo grado). In particolare, la ricorrente non indica rispetto al quale motivazione verrebbero in rilievo. Le censure non sono articolate nel rispetto del paradigma dell’art. 360 c.p.c., n. 5 ove fosse possibile intendere il motivo come tale, alla stregua di Cass. S.U. n. 17931 del 2013;
il terzo motivo è inammissibile per assoluta genericità (Cass. S.U. n. 7074 del 2017). Si connota, come detto in premessa, per l’omessa indicazione delle norme violate e di argomentazioni in iure (quelle presenti sono solo in fatto) e ciò non consente di chiarire i limiti della impugnazione e di valutare l’ambito della richiamata omissione (Cass. n. 25044 del 2013);
il quarto motivo è inammissibile poichè introduce una questione nuova. Va rammentato che per giurisprudenza consolidata (Cass. n. 11130 del 2016) qualora una determinata questione non risulti trattata nella sentenza impugnata, il ricorrente deve, in sede di legittimità, allegare l’avvenuta deduzione della questione davanti al giudice di merito e indicare, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 6, in quale atto del precedente giudizio ha sollevato la questione (Cass. S.U. n. 2399 del 2014). Entrambi i profili difettano nel caso di specie;
il significato del quinto motivo rimane oscuro con riferimento alle norme indicate e la ricorrente non chiarisce per quale ragione, rispetto alla domanda di accertamento negativo svolta, dovrebbe avere rilievo la domanda restitutoria proposta dalle parti della causa principale nei confronti della controparte e ciò, attesa anche l’alterità soggettiva dei due giudizi (pagg. 18 e seguenti del ricorso);
ne consegue che il ricorso deve essere dichiarato inammissibile; le spese del presente giudizio di cassazione – liquidate nella misura indicata in dispositivo – seguono la soccombenza. Infine, va dato atto – mancando ogni discrezionalità al riguardo (tra le prime: Cass. 14/03/2014, n. 5955; tra molte altre: Cass. Sez. U. 27/11/2015, n. 24245) – della sussistenza dei presupposti per l’applicazione del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, in tema di contributo unificato per i gradi o i giudizi di impugnazione e per il caso di reiezione integrale, in rito o nel merito.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese in favore del controricorrente, liquidandole in Euro 800,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, nella camera di Consiglio della Sezione Terza della Corte Suprema di Cassazione, il 17 maggio 2018.
Depositato in Cancelleria il 23 ottobre 2018
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