LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –
Dott. GRAZIOSI Chiara – rel. Consigliere –
Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –
Dott. PORRECA Paolo – Consigliere –
Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 18611-2016 proposto da:
L.E., B.G., considerate domiciliate ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentate e difese dall’avvocato ELENA BARRA giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrenti –
contro
CATTOLICA ASSICURAZIONE SOC COOP, in persona del suo procuratore speciale Dott. B.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DELLA MENDOLA 198, presso lo studio dell’avvocato MARIO MATTICOLI, che la rappresenta e difende giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
e contro
D.F.;
– intimato –
avverso la sentenza n. 160/2016 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 20/01/2016;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 08/06/2018 dal Consigliere Dott. CHIARA GRAZIOSI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CARDINO Alberto, che ha concluso per l’accoglimento del 4 motivo del ricorso;
udito l’Avvocato ALESSANDRO FOSCHIANI per delega;
udito l’Avvocato MARIO MATTICOLI;
FATTI DI CAUSA
1. Con atto di citazione notificato il 27 luglio 2011 L.E., in proprio e quale legale rappresentante delle figlie minori G. e B.S., conveniva dinanzi al Tribunale di Como D.F. e Società Cattolica di Assicurazione coop. a r.l. per ottenerne la condanna a risarcire loro i danni derivati dal decesso del rispettivo marito e padre B.D. in conseguenza di un sinistro stradale del ***** in cui si era scontrato, come ciclista, con una vettura condotta dal D., e precisamente con una Suzuki Grand Vitara trainante un rimorchio per il trasporto dei cavalli. I convenuti si costituivano, resistendo.
Con sentenza del 18 marzo 2013 il Tribunale accoglieva parzialmente la domanda, accertando una responsabilità nella causazione del sinistro del 70% in capo al Dallo e un 30% in capo al deceduto B., e condannando solidalmente i convenuti al risarcimento nella misura di Euro 967.892, oltre interessi, da cui peraltro dedurre l’importo di Euro 767.827,32 già versato come complessivo acconto dalla compagnia assicuratrice.
Avendo proposto appello principale la compagnia e il Dallo e appello incidentale, in proprio e nella sua qualità, L.E., la Corte d’appello di Milano, con sentenza del 20 gennaio 2016, accoglieva l’appello principale relativo solo alla imputazione degli acconti – e rigettava l’appello incidentale.
2. Hanno presentato ricorso L.E., in proprio e quale legale rappresentante della figlia minorenne B.S., e B.G., sulla base di cinque motivi.
Si difende la compagnia assicuratrice con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
3. Il ricorso è parzialmente fondato.
3.1 Il primo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2054 c.c. in ordine all’attribuzione al ciclista di una responsabilità concorsuale e in ordine altresì alla quantificazione di tale corresponsabilità.
Si adduce che la relazione del consulente del pubblico ministero nel relativo procedimento penale, cui formalmente si sarebbe adeguata la corte territoriale, non sarebbe in realtà pervenuta alle conclusioni adottate nella sentenza impugnata. Si argomenta su quanto rilevato in tale consulenza, con particolare riguardo al punto d’urto, e altresì sugli esiti dell’autopsia effettuata dal medico legale nominato, sempre dal pubblico ministero, nel procedimento penale, argomentando pure sulle caratteristiche dell’automobile guidata dal D.: come si è anticipato, una Suzuki Grand Vitara trainante un rimorchio che trasportava un cavallo.
Il motivo, in effetti, non espone una censura in iure, bensì argomenta una diversa ricostruzione del fatto. E anche qualora potesse essere riqualificato come doglianza ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (v., sulla scorta di S.U.24 luglio 2013 n. 17931, in ordine alla riqualificazione dei tassativi vizi indicati dall’art. 360 c.p.c., comma 1, Cass. sez. 2, ord. 7 maggio 2018 n. 10862 e Cass. sez. 1, 31 ottobre 2013 n. 24553; in tema cfr. pure Cass. sez. 5, ord. 6 ottobre 2017 n. 23381, Cass. sez. 3, 29 agosto 2013 n. 19882, Cass. sez. 2, 21 gennaio 2013 n. 1370, Cass. sez. 5, 3 agosto 2012 n. 14026 e Cass. sez. 1, 30 marzo 2007 n. 7981) esso non ne offre la sostanza (quale notoriamente configurata da S.U. 7 aprile 2014 nn. 8053 e 8054), limitandosi a contrapporre – tra l’altro investendo una minima parte della motivazione al riguardo della sentenza impugnata – una valutazione diversa, che peraltro la corte territoriale ha pure vagliato nella sua motivazione complessiva.
Il motivo è pertanto inammissibile.
3.2.1 Il secondo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2727,2729e 2697 c.c. nonchè dell’art. 115 c.p.c., comma 1, in ordine al riconoscimento del danno patrimoniale.
La quantificazione del danno patrimoniale sarebbe viziata: il giudice d’appello avrebbe ritenuto corretta quella effettuata dal giudice di prime cure, per cui il 50% del reddito del de cuius sarebbe stato destinato alla famiglia, mentre il 50% circa sarebbe stata la quota che egli “destinava alla famiglia per far fronte alle rate del mutuo”. Il giudice d’appello avrebbe effettuato la sua stima con omessa valutazione di fatti decisivi e violato la giurisprudenza per cui il danno patrimoniale subito dai congiunti dovrebbe liquidarsi su una base presuntiva seguendo dati oggettivi come l’età del de cuius, le sue condizioni socioeconomiche, la sua retribuzione all’epoca del decesso e la sua attività svolta per i congiunti: pertanto, oltre alle rate del mutuo che si sarebbero dovute pagare fino all’ottobre 2017, “pacificamente appannaggio della moglie”, il giudice d’appello avrebbe dovuto tenere in conto il numero dei membri della famiglia, l’età e i bisogni delle figlie, il reddito netto annuo del de cuius e soprattutto la condizione non lavorativa della L., circostanza quest’ultima provata ex art. 115 c.p.c. perchè non contestata. E il giudice che non fonda la decisione su un fatto non contestato incorre appunto in violazione dell’art. 115 c.p.c., comma 1.
Se fossero stati poi rispettati dal giudice d’appello i suddetti parametri legislativi e giuridici, la sentenza di secondo grado avrebbe determinato un diverso quantum in ordine al danno patrimoniale subito dalla vedova e dalle figlie. E la corte territoriale avrebbe dovuto tenere conto anche della “potenzialità espansiva della capacità di guadagno” del de cuius, ritenuta invece priva di supporto probatorio, benchè fosse stata prodotta (quale documento n. 20 del fascicolo di primo grado delle ricorrenti) una relazione sul suo reddito professionale. E comunque, pur essendo stato loro chiesto, entrambi i giudici di merito non disposero c.t.u. sul quantum del danno patrimoniale subito dalla moglie e dalle figlie pur essendo proprio la c.t.u. runico mezzo possibile” per accertarlo e quantificarlo.
3.2.2 Anche questo motivo, in realtà, risulta direttamente fattuale – nel senso di ricostruttore di valutazioni alternative sul piano del merito – e comunque privo di autosufficienza con conseguente inammissibilità ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6: nella premessa espositiva del ricorso non sono riportati, traendoli dal motivo d’appello, specifici rilievi come quelli versati ora nel motivo in esame.
Per di più, la denunciata violazione dell’art. 115 c.p.c. non è dedotta in conformità dell’insegnamento nomofilattico (v. Cass. sez. 3, 10 giugno 2016 n. 11892), che, a proposito dell’art. 115 c.p.c., indica che la violazione “può essere dedotta come vizio di legittimità solo denunciando che il giudice ha dichiarato espressamente di non dover osservare la regola contenuta nella norma, ovvero ha giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, e non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, ha attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre”; sulla modalità di deduzione del vizio di violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c. v. pure, in motivazione, S.U. 5 agosto 2016 n.16598; e in tema cfr. altresì Cass. sez. 3, 11 ottobre 2016 n. 20382 e Cass. sez. 1, ord.28 febbraio 2018 n. 4699); e la doglianza relativa alla violazione delle norme sulle presunzioni non viene, a sua volta, presentata nei termini indicati da S.U. 24 gennaio 2018 n. 1785 (che in motivazione identifica la violazione degli artt. 2727 e 2729 c.c. nell’avere il giudice di merito fondato la presunzione “su un fatto storico privo di gravità o di precisione o di concordanza ai fini della inferenza dal fatto noto della conseguenza ignota”, per cui ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, il giudice di legittimità può essere investito “dell’errore in cui il giudice di merito sia incorso se considera grave una presunzione (cioè un’inferenza) che non lo sia o sotto un profilo logico generale o sotto il particolare profilo logico (interno ad una certa disciplina) entro il quale essa si collochi”, e lo stesso vale per il controllo della precisione e della concordanza; ontologicamente diversa è invece – rimarca il giudice nomofilattico – la critica al ragionamento presuntivo del giudice di merito che si concreta appunto nell’addurre che la ricostruzione fattuale poteva essere espletata in altro modo).
3.3 Il terzo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c.quanto alla determinazione del danno patrimoniale.
Con una lettera (prodotta) del 28 aprile 2011 la compagnia assicuratrice aveva effettuato un’offerta reale, riconoscendo un danno patrimoniale di Euro 589.712, somma che la L. aveva accettato come acconto. Costituendosi poi in primo grado, nella comparsa di risposta i convenuti, tra l’altro, avrebbero affermato che tale somma era un quantum congruo per il danno patrimoniale, ciò confermando poi nella comparsa conclusionale. E solo nella comparsa conclusionale del secondo grado la compagnia assicuratrice avrebbe sostenuto che era congruo invece l’importo determinato dal Tribunale. Il giudice d’appello avrebbe quindi violato gli artt. 115 e 116 c.p.c. laddove non ha ritenuto provato il danno patrimoniale come riconosciuto e quantificato dalla compagnia assicuratrice e dal D..
Il motivo è manifestamente infondato, in quanto l’enunciazione in primo grado del contenuto dell’offerta stragiudiziale non equivale, in realtà, ad una non contestazione, giacchè ciò significherebbe una – insostenibile sul piano logico, prima ancora che giuridico – transiatio di (evidenti) tentativi di raggiungere un accordo stragiudiziale (poi non raggiunto, in quanto la somma fu incamerata solo a titolo d’acconto e la causa fu instaurata) nella posizione assunta, una volta avviato il giudizio, da chi li aveva effettuati. Si è di fronte, quindi, ad una mera narrazione di un comportamento preprocessuale, laddove quello processuale era venuto inequivocamente ad inquadrarsi in una posizione di resistenza e quindi a sfociare in una richiesta di rigetto della domanda attorea.
3.4.1 Il quarto motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2043 c.c. per il mancato riconoscimento del danno biologico jure hereditatis, cioè il danno c.d. tanatologico o catastrofale, per avere il giudice d’appello ritenuto che la morte del de cuius fosse avvenuta immediatamente dopo le lesioni da lui subite, conseguentemente applicando il dettato nomofilattico di S.U. 22 luglio 2015 n. 15350. La corte territoriale, facendo riferimento ad una relazione medica, avrebbe omesso di considerare il tempo intercorso tra il sinistro (avvenuto alle ore 8:30 di mattina) e la sua morte (avvenuta verso le ore 11 dello stesso giorno), ponendosi quindi in contrasto con l’insegnamento giurisprudenziale per cui il danno suddetto va ricondotto al danno morale come sofferenza derivante dal morire lucidamente e consapevolmente.
In particolare, nella premessa del ricorso le ricorrenti espongono di avere nell’atto d’appello proposto una censura relativa al mancato riconoscimento di danno biologico jure hereditatis, ivi denominandolo tanatologico (ricorso, pagina 7); e nel motivo in esame, poi, lamentano che la corte territoriale ha escluso il danno tanatologico “o altrimenti detto danno catastrofale”, rigettando appunto la doglianza con riferimento a S.U. 15350/2015 e richiamando a fondamento la relazione (prodotta dalla stessa attuale parte ricorrente) del medico legale nominato dal PM per l’autopsia, tale dottor Scola, per cui “l’exitus avvenne repentinamente, con passaggio brusco” dalla buona salute alla “grave malattia mortale”. Il motivo osserva, appunto, che non si è tenuto conto della distanza temporale fra il sinistro e la morte (ore 8:30 e ore 11 dello stesso giorno, si ripete) e argomenta che l’intervento di S.U. 15350/2015 include, nel danno derivante dalla morte che consegue dopo un lasso di tempo dalle lesioni, sia il danno biologico “terminale”, sia il danno “catastrofale” da intendersi nel senso di un peculiare danno morale; e nel caso in esame sussisterebbe quest’ultimo, in quanto il ciclista “fino a pochi istanti prima del sopraggiungere della morte” sarebbe stato “perfettamente lucido, tanto da riuscire persino a rispondere alle domande postegli dagli operatori sanitari giunti in suo soccorso (cfr. testimonianza dott. B. escusso all’udienza del 07.06.2012 – fascicolo d’ufficio di primo grado)”, a ciò aggiungendo come elemento incrementante l'”attività professionale svolta dalla vittima”, che era medico.
3.4.2 Pur implicito, vi è qui un riferimento inequivoco al passo della motivazione della sentenza impugnata in cui la corte territoriale ha fondato la ricostruzione della dinamica del sinistro anche sulle risposte della vittima al sanitario B. (motivazione, pagina 9: “La cronologia degli urti è del resto confermata dalle dichiarazioni della povera vittima, riferite dal teste B. che lo ebbe a soccorrere in ospedale”): il che rende – non si può non rilevarlo sin d’ora – clamorosamente contraddittorio il ragionamento poi tratto dal breve passo sopra riportato della relazione S., il cui contenuto, ictu oculi, sarebbe piuttosto congruo a un infarto fulminante o a eventi simili, ma non certo alle lesioni subite da un ciclista per l’investimento da parte di una Suzuki Grand Vitara. E la corte territoriale non si è neppure premurata di indicare il lasso di tempo intercorso tra l’insorgenza delle lesioni e la conseguente morte, definendo per di più “grave malattia” le lesioni stesse.
E’ vero che dal ricorso emerge che era stato chiesto il danno biologico jure hereditatis, senza specificazione quanto al profilo “soggettivo” consistente nella consapevole percezione della morte imminente. Peraltro, dalla recente pronuncia delle Sezioni Unite che è stata invocata sia dal giudice d’appello sia dalle ricorrenti viene in sostanza confermata l’unitarietà del danno non patrimoniale anche in riferimento al profilo in esame, nel senso che questo tipo di danno non patrimoniale può essere ricondotto tanto all’aspetto biologico in senso stretto – nel settore psichico – quanto alla correlata sofferenza d’animo.
3.4.3 In particolare, l’arresto delle Sezioni Unite, in motivazione, afferma che l’unica distinzione evincibile dagli orientamenti giurisprudenziali concerne la qualificazione, ai fini della liquidazione, del danno risarcibile, nel senso che un orientamento, con “mera sintesi descrittiva”, lo indica come “danno biologico terminale”, mentre un altro come “danno catastrofale”, “con riferimento alla sofferenza provata dalla vittima nella cosciente attesa della morte seguita dopo apprezzabile lasso di tempo dalle lesioni”; e quando intervennero le Sezioni Unite, alcune sentenze di sezioni semplici avevano attribuito al danno catastrofale “natura di danno morale soggettivo”, e altre natura di “danno biologico psichico”; peraltro le Sezioni Unite hanno rimarcato che “da tali incertezze” (solo formali, quindi) non deriva effettiva diversità nelle liquidazioni.
Invero – chiarisce il supremo giudice nomofilattico – se la morte è immediata o segue alle lesioni “entro brevissimo tempo” non sussiste diritto al risarcimento jure hereditatis alla luce di un orientamento risalente che in questo intervento le Sezioni Unite hanno confermato, osservando altresì che l’attuale impostazione pone “il danno al centro” del sistema della responsabilità civile, sempre più oggettiva; danno che deve identificarsi (come si evince dalla sentenza n. 372/1994 della Consulta) in “perdita cagionata da una lesione di una situazione giuridicamente soggettiva”. Nel caso di morte per atto illecito – rilevano ancora le Sezioni Unite – il conseguente danno è la perdita del bene giuridico “vita”, che è “bene autonomo”, fruibile solo dal titolare e non reintegrabile per equivalente. “La morte, quindi, non rappresenta la massima offesa possibile del diverso bene “salute”… E poichè una perdita, per rappresentare un danno risarcibile, è necessario che sia rapportata a un soggetto che sia legittimato a far valere il credito risarcitorio, nel caso di morte verificatasi immediatamente o dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali, l’irrisarcibilità deriva (non dalla natura personalissima del diritto leso… poichè… ciò di cui si discute è il credito risarcitorio, certamente trasmissibile, ma) dalla assenza di un soggetto al quale, nel momento in cui si verifica, sia collegabile la perdita stessa e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito, ovvero dalla mancanza di utilità di uno spazio di vita brevissimo”. Richiamato il c.d. argomento epicureo come fondante questa soluzione, tra le ulteriori argomentazioni le Sezioni Unite hanno pure inserito l’autonomia del sistema civile da quello penale: tale “progressiva autonomia” della disciplina della responsabilità civile dalla responsabilità penale “ha comportato l’obliterazione della funzione sanzionatoria e di deterrenza… e l’affermarsi della funzione reintegratoria e riparatoria (oltrechè consolatoria), tanto che si è ritenuto non delibabile, per contrarietà all’ordine pubblico interno, la sentenza statunitense di condanna al risarcimento dei danni “punitivi”…i quali si caratterizzano per un’ingiustificata sproporzione tra l’importo liquidato ed il danno effettivamente subito”.
3.4.4 Questo importante intervento delle Sezioni Unite, non si può rilevare perviene ad un chiaro risultato – che naturalmente si riverbera, in genere, nelle successive pronunce delle sezioni semplici, come si vedrà infra attraverso una ricostruzione argomentativo-dogmatica peraltro non scevra da una qualche oscillazione.
In particolare, dopo avere evidenziato in modo lineare la differenza tra il bene “salute” e il bene “vita”, per dedurne logicamente la irrisarcibilità della perdita del bene “vita” per l’assenza di un soggetto giuridico che subisca tale perdita (l'”assenza di un soggetto al quale, nel momento in cui si verifica, sia collegabile la perdita stessa e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito”), la pronuncia si pone subito su un altro piano, passando dalla inesistenza del titolare della perdita alla irrilevanza in sè della perdita per mancanza di una sufficiente entità quantitativa che esonda nell’entità sostanziale. E, in effetti, le due ipotesi vengono disegnate come interscambiabili, perchè accanto alla irrisarcibilità della perdita dei bene “vita” come morte immediata (per implicita ma ovvia coincidenza tra morte e perdita di capacità giuridica) viene accolta la irrisarcibilità – già affermata da precedenti delle sezioni semplici – per quando la morte avviene “dopo brevissimo tempo dalle lesioni”, e ciò per “mancanza di utilità di uno spazio di vita brevissimo”. A ben guardare, peraltro, in questo secondo caso non si tratta di lesione al bene “vita”, bensì di lesione al bene “salute”, in quanto la persona che ha subito le lesioni biologiche rimane in vita per un certo tempo, anche se questo è “brevissimo”. “Mettendo da parte”, allora, il bene “salute”, si afferma la irrisarcibilità sulla base di una valutazione di inutilità della vita quando è temporalmente brevissima. Seguendo fino in fondo tale ragionamento, tuttavia, si dovrebbe ritenere che ogni volta in cui vi è una lesione biologica è compromesso anche il bene “vita”, il quale però assume rilevanza giuridica soltanto quando, in ultima analisi, sulla base di un minimum temporale, si converte nel bene “salute”, ovvero acquisisce utilità giuridicamente rilevante. E allora si configura una sorta di esimente della civile responsabilità per carenza di una effettiva offensività al bene coinvolto, sia questo definito bene “vita” sia definito bene “salute”. Una conferma si rinviene nel riferimento ai c.d. danni punitivi, dei quali queste Sezioni Unite, seguendo l’impostazione coeva, affermano l’incompatibilità con l’ordine pubblico, e la motivano attribuendo a tale fattispecie “un’ingiustificata sproporzione tra l’importo liquidato ed il danno effettivamente subito”. Il che significa che, nell’ipotesi di sopravvivenza per tempo brevissimo, il danno è talmente infimo che qualunque risarcimento sarebbe con esso quantitativamente sproporzionato, per cui la lesione, alla fin fine, non è giuridicamente rilevante.
3.4.5 Tra gli arresti massimati, conforme in toto a S.U. 15350/2015 è Cass. sez. 3, 23 marzo 2016 n. 5684 (che tra l’altro segnala un sostanziale parallelismo già rinvenibile in S.U. 11 novembre 2008 nn. 26772 e 26773), e, pur non menzionando un’ingiustificata sproporzione tra l’importo liquidato ed il danno effettivamente subito, prossima alla sua tematica è poi Cass. sez. 3, 19 ottobre 2016 n. 21060, che peraltro effettua una distinzione tra il danno biologico e il danno psicologico-morale propri della fase terminale della vita: discrimen, questo, che non è così netto in S.U. 15350/2015, ove, come si è visto, viene valorizzata in sostanza l’ontologica unitarietà propria del danno non patrimoniale, per negare che dalle “incertezze” della pregressa giurisprudenza delle sezioni semplici (in cui alcune precedenti pronunce avevano considerato il danno terminale come biologico e altre come species del danno morale) possa derivare una diversa liquidazione.
Afferma infatti Cass. 21060/2016 che il diritto al risarcimento del “danno biologico terminale” è configurabile – e quindi trasmissibile jure hereditatis ove intercorra “un apprezzabile lasso di tempo” tra la lesione e la morte, essendo irrilevante che durante tale periodo la vittima abbia mantenuto lucidità, presupposto invece del diverso danno morale terminale, configurabile danno tanatologico come danno morale terminale o da lucida agonia o catastrofale o catastrofico, già rinvenibile, appunto, in S.U. 11 novembre 2008 nn. 26772 e 26773 come consistente nella sofferenza che si prova per la consapevole percezione dell’ineluttabile approssimarsi della morte. E quindi per quest’ultimo danno – secondo la sentenza in esame – rileva il criterio dell’intensità della sofferenza patita “a prescindere dall’apprezzabile intervallo di tempo tra lesioni e decesso”. Invece, se sussiste “l’ipotesi di morte cagionata dalla lesione” è risarcibile il “danno biologico terminale” qualora le lesioni siano separate dalla morte da un “apprezzabile lasso di tempo”, danno questo che la vittima subisce anche se non è cosciente e che è trasmissibile jure hereditatis.
In forza della netta scissione – tendente alla contrapposizione – tra danno biologico terminale e danno morale terminale, questa pronuncia in qualche misura diverge rispetto all’insegnamento “unitarista” di S.U. 15350/2015 in quanto esige, per la risarcibilità del danno biologico terminale appunto come autonomamente configurato, un “apprezzabile lasso di tempo”, laddove le Sezioni Unite pongono come esimente dalla relativa responsabilità risarcitoria – accanto alla immediatezza e quindi logicamente approssimabile a quest’ultima – il decorso di un “brevissimo tempo” (che definisce, chiaramente, un’entità cronologica inferiore).
Da ultimo Cass. sez. 3, 27 settembre 2017 n. 22541, non massimata, ha affrontato un caso in cui un incidente stradale era avvenuto di mattina alle ore 9:30 e la persona che ne era rimasta lesa era deceduta alle ore 13 dello stesso giorno. Dall’intervento delle Sezioni Unite del 2015 questa sentenza desume che alla vittima è risarcibile la perdita di bene non patrimoniale “nella misura in cui la stessa sia ancora in vita, presupponendo la vicenda acquisitiva del diritto alla reintegrazione della perdita subita la capacità giuridica riconoscibile soltanto ad un soggetto esistente” ai sensi dell’art. 2 c.c., comma 1; sono pertanto trasmissibili jure hereditatis il danno biologico cosiddetto terminale – nel senso dei postumi invalidanti che hanno caratterizzato il periodo di vita intercorso tra la lesione e l’exitus, periodo che deve costituire un “apprezzabile lasso temporale” (sulla scorta, tra l’altro, di Cass. sez. 3, 31 ottobre 2014 n. 23183, Cass. sez. 3, 28 ottobre 2014 n. 22228 e Cass. sez. 3, 8 luglio 2014 n. 15491) -, e il danno morale cosiddetto soggettivo cioè il danno catastrofale, ovvero lo “stato di sofferenza spirituale od intima (paura o patema d’animo) sopportato dalla vittima nell’assistere al progressivo svolgimento della propria condizione esistenziale verso l’ineluttabile fine vita”: anche in questo caso, trattandosi ovviamente di danno -conseguenza, l’accertamento dell'”an” presuppone la prova della “coerente e lucida percezione dell’ineluttabilità della propria fine” (viene invocata, quale esempio, Cass. sez. 3, 13 giugno 2014 n. 13537). Esclusa è invece la risarcibilità del danno da perdita del bene “vita” qualora il decesso si verifichi immediatamente – venendo meno allora il soggetto cui sia collegabile la perdita del bene e nel cui patrimonio può essere acquisito il relativo credito risarcitorio – o “dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali” – in tal caso sussistendo la mancanza di utilità di uno spazio di vita brevissimo, in base appunto a S.U. 15350/2015 -.
Pur comparendo, nel suo percorso motivazionale, un riferimento ancora ad un “apprezzabile lasso temporale” sulla base di giurisprudenza antecedente a S.U. 15350/2015, questa pronuncia giunge ad una effettiva conformità all’insegnamento delle suddette Sezioni Unite nelle sue conclusioni, ed anzi favorisce il superamento di alcune residue ambiguità.
3.4.6 Se, infatti, è indiscutibile che – non occorrendo in fondo neppure avvalersi di argomenti extragiuridici come il c.d. argomento epicureo, sussistendo il principio della capacità giuridica – qualora cronologicamente coincidano l’evento dannoso e la perdita del bene “vita” non si realizza alcun danno-conseguenza (ovvero alcuna perdita di un bene la quale sia giuridicamente rilevante) perchè la perdita del bene “vita” coincide con la perdita della capacità giuridica, da ciò discende che la perdita della vita non può mai costituire un danno risarcibile alla persona stessa che la perde. E tantomeno, proprio per tale caratteristica del bene “vita” nessun danno in relazione ad esso è risarcibile, rectius trasmissibile, jure hereditatis. Al riguardo, assai significativa è Cass. sez. L, 20 luglio 2016 n. 14940 che, dinanzi alla invocazione – da parte di ricorrenti eredi che chiedevano il risarcimento della praticamente immediata perdita da parte di un loro congiunto del bene “vita” – della normativa sovranazionale, e in particolare dell’art. 2 CEDU (che, rubricato proprio come “Diritto alla vita”, così introduce il comma 1: “Il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge”), ha affermato che il danno non patrimoniale da perdita della vita non è indennizzabile ex se, non potendosi appunto richiamare il “diritto alla vita” dell’art. 2 CEDU, norma che, pur generale e diretta a tutelare ogni possibile componente del bene “vita”, non detta specifiche prescrizioni sull’ambito e sui modi della sua tutela, e nel caso di decesso immediatamente conseguente a lesioni da fatto illecito non impone necessariamente una tutela risarcitoria, il cui riconoscimento effettuato in certe disposizioni normative presenta comunque un carattere di specialità e non modifica il vigente sistema della responsabilità civile, fondato sul concetto di perdita-conseguenza e non sull’evento lesivo in sè.
Altro invece – come già sopra si osservava a proposito del tessuto motivazionale di S.U. 15350/2015 – è il caso in cui una persona subisce delle lesioni mortali che però producono l’effetto esiziale a una distanza di tempo da quando si verificano: e allora, rimanendo durante quel tempo la persona inserita nel sistema giuridico come “capace” di essere titolare di diritti (mantenendo la capacità giuridica, appunto), sussiste criticità nell’escludere che non insorga alcun danno sulla base della durata del tempo che separa lesione – inferita a soggetto titolare di capacità giuridica – da morte – evento che, giuridicamente, sopprime la capacità giuridica; e pertanto, a ben guardare, quel che in S.U. 15350/2015 viene escluso non è il danno in sè, bensì la concreta rilevanza giuridica del danno.
D’altronde – si è già accennato – uno degli argomenti sulla base dei quali fonda la decisione il giudice nomofilattico del 2015 è stato, seppure entro certi limiti, superato da S.U. 5 luglio 2017 n. 16601: ed è proprio quello che più espressamente sorregge il mancato riconoscimento di risarcimento nel caso di un lasso di tempo insignificante – ovvero privo di “utilità”, il che esclude che sia stato “effettivamente subito” un danno – tra le lesioni e la morte.
Richiamando infatti l’esclusione dei danni punitivi, nella sentenza n. 15350/2015 le Sezioni Unite ravvisano contrarietà all’ordine pubblico interno del loro riconoscimento in quanto “si caratterizzano per un’ingiustificata sproporzione tra l’importo liquidato ed il danno effettivamente subito”: argomento che si correla, logicamente, all’asserto della “mancanza di utilità di uno spazio di vita brevissima” che ne giustifica il mancato risarcimento. Tra le righe, quindi, si annida il concetto che l’ordinaria tipologia di risarcimento deve sempre essere equivalente al danno risarcito, e non può pertanto includere alcun surplus nè in termini di punizione del danneggiante nè in termini di arricchimento del danneggiato. Il ricorso a questo concetto, peraltro, affermando che la brevità della vita la rende insignificante, è da inquadrarsi, evidentemente, in una impostazione pragmatica al punto di prescindere dal dato che la capacità giuridica non è stata persa in coincidenza con l’evento dannoso, id est che l’evento dannoso non è stato immediatamente mortale. Questa pretermissione rimane, comunque, problematica, dal momento che l’intervento nomofilattico non fornisce una completa individuazione del parametro che rende concretamente irrilevante il pur esistente danno-conseguenza, ovvero quel che significa “spazio di vita brevissima”; parametro adottato, peraltro, dalle Sezioni Unite in evidente restrizione correttiva di quello, ancor più ampio, id est ambiguo e dunque maggiormente esposto a criticità, del c.d. “apprezzabile lasso temporale”.
3.4.7 Invero, quel che sempre ricorre nel periodo di tempo interposto tra la lesione mortale e la morte è il danno biologico stricto sensu (ovvero danno al bene “salute”), come rileva Cass. 22541/2017, già citata; e a questo, peraltro, nell’unitarietà del genus del danno non patrimoniale, può aggiungersi un danno morale peculiare improntato alla fattispecie, ovvero il danno da percezione, concretizzabile sia nella sofferenza fisica derivante dalle lesioni, sia nella sofferenza psicologica – questa condizione è infatti, con evidente significatività etimologica, definita agonia – derivante dall’avvertita imminenza dell’exitus. Se, infatti, nel tempo che si dispiega tra la lesione e il decesso la persona non è in grado di percepire la sua situazione e in particolare la imminenza della morte, il danno non patrimoniale sussistente è riconducibile soltanto alla species biologica; se, per di più, la persona si trova in una condizione di lucidità agonica, si aggiunge, sostanzialmente quale ineludibile accessorio della devastazione biologica stricto sensu, un peculiare danno morale che ben può definirsi danno morale terminale (l’espressione semanticamente più chiara e quindi più congrua tra le varie che, come si è visto più sopra, sono state utilizzate).
La decisione delle Sezioni Unite del 2015, peraltro, come già si accennava non è del tutto risolutiva nell’individuare il significato di quella sorta di esimente dall’obbligo risarcitorio che estrae dalla misura della durata temporale intercorrente in base ad una assoluta mancanza di utilità del bene leso, che non è, ovviamente, se si segue il tradizionale inquadramento dogmatico, il bene della vita bensì il “classico” bene non patrimoniale nelle due species biologica e lato sensu morale. E non appare agevole non riconoscere che l’introduzione del canone della mancanza di utilità di un risarcimento di un danno però esistente per eliderne la debenza (a monte, una specie di “inoffensività” traslata all’illecito civile proprio da quel settore penale di cui le Sezioni Unite del 2015 hanno ribadito l’autonomia) potrebbe dare adito, in generale, a certe criticità, perchè – tanto più in difetto di una piena specificazione del suo presupposto, nel caso in esame un presupposto temporale – ben può generare il rischio di una valutazione soggettiva, affidata al giudice di merito, del caso concreto ai fini dell’esistenza o meno del diritto risarcitorio.
Queste criticità strutturali sono, tuttavia, agevolmente superabili nella fattispecie in cui la persona sia rimasta manifestamente lucida nello spatium temporis tra la lesione e la morte, dal momento che, se la sua lucidità viene manifestata, non si vede sulla base di quale fondamento possa negarsi, senza violare pure il diritto alla dignità della persona umana (art. 2 Cost.), la risarcibilità del danno non patrimoniale, che sussiste allora ineludibilmente sia sotto il profilo stricto sensu biologico sia sotto il profilo psicologico “morale”. Non è infatti giammai sostenibile che la sofferenza umana possa essere un elemento giuridicamente irrilevante, vale a dire che l’assenza di sofferenza umana sia un elemento privo di utilità.
3.4.8 Nel caso in esame, la lucidità di Dario B. si è manifestata inequivocamente: anche a prescindere, quindi, dal fatto che lo spatium temporis emerge essere stato tutt’altro che il “brevissimo tempo” cui non può disconoscersi che, pur ancora con una certa rapida cripticità, si riferiscono le Sezioni Unite nell’intervento del 2015 per escluderne il rilievo ai fini risarcitori, trattandosi qui di ore, deve constatarsi che essa è stata intrinsecamente asseverata dalla stessa sentenza impugnata, laddove – come già visto più sopra -, a pagina 9 della motivazione, nell’ambito della ricostruzione della dinamica del sinistro così si esprime: “La cronologia degli urti è del resto confermata dalle dichiarazioni della povera vittima, riferita dal teste B. che lo ebbe a soccorrere in ospedale”. Ora, è evidente che, se si trovava al pronto soccorso in ospedale, il B. era in una situazione biologica di lesioni causatagli dal sinistro, il che già di per sè è incompatibile con la repentinità del decesso (si veda la sentenza impugnata a pagina 11 della motivazione, quanto al già richiamato riferimento alla relazione S.); e se egli rispondeva ai sanitari ricostruendo con “dichiarazioni” (e quindi neppure con meri segni corporei di assenso o di diniego) la “cronologia degli urti”, è evidente che era lucido, e quindi percepiva la sua tremenda situazione, tale da non poter non indurre quantomeno il forte timore della morte imminente e lo strazio per l’abbandono dei congiunti (si ricordi che il B. era sposato e aveva due figlie bambine). E tutto ciò, poi, anche qualora si potesse – il che è ictu culi impossibile – prescindere dal fatto che, essendo egli medico, la sua consapevolezza della morte imminente non poteva non essere particolarmente intensa. Elementi, questi – non può non rilevarsi -, che dovranno essere tutti specificamente tenuti in conto nella determinazione del quantum risarcitorio.
La corte territoriale, dunque, ha realmente violato – come denuncia il motivo in esame – l’art. 2043 c.c. nell’escludere il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale rappresentato dall’agonia del B. – sia sotto il profilo strettamente biologico sia sotto il profilo psicologico-morale – come diritto insorto in capo a quest’ultimo quando era dotato di capacità giuridica, e pertanto trasmesso jure hereditatis alla moglie e alle figlie.
Il motivo, pertanto, risulta manifestamente fondato.
3.5 Il quinto motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1224,1226 e 2056 c.c. per mancato riconoscimento della rivalutazione.
La corte territoriale afferma che, applicando i criteri di liquidazione delle tabelle del Tribunale di Milano del 2013, vigenti all’epoca, il giudice di prime cure avrebbe considerato voci già annualmente attualizzate, e quindi da rivalutare solo dopo la data della pronuncia. Secondo le ricorrenti, se il giudice avesse reputato la somma già includente la rivalutazione, avrebbe dovuto indicare i calcoli effettuati per consentirne il controllo. Avrebbe poi errato la corte territoriale nel ritenere che siano state applicate le tabelle milanesi del 2013, in quanto sarebbero state applicate, invece, quelle del 2011, aggiornate solo al gennaio 2011 e non quindi all’epoca della sentenza del Tribunale emessa il 18 marzo 2013. Il giudice di prime cure non avrebbe ritenuto i valori aggiornati al costo della vita del gennaio 2011, visti i criteri di determinazione dei danni non patrimoniali e patrimoniali in riferimento ai coefficienti riguardanti l’età del de cuius al momento del sinistro. L’obbligazione risarcitoria, anche extracontrattuale, ha per oggetto comunque un debito di valore, pur se liquidato equitativamente, per cui occorre tenere in conto interessi e rivalutazione, onde la somma riconosciuta non avrebbe dovuto essere devalutata e non si sarebbero dovuti determinare gli interessi seguendo S.U. 17 febbraio 1995 n.1712, celebre arresto invocato dal giudice d’appello.
Questo motivo non gode di autosufficienza in ossequio dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, nulla essendo stato indicato nel ricorso, nè nella premessa (ove si riporta solo il dispositivo della sentenza di primo grado), nè in modo specifico nell’illustrazione del motivo in esame, in ordine all’applicazione delle tabelle da parte del Tribunale, cui ora si imputa – sulla base pertanto solo di un generico asserto – l’applicazione delle tabelle del Tribunale di Milano del 2011 anzichè delle tabelle del Tribunale di Milano del 2013.
Il motivo risulta dunque inammissibile.
In conclusione, il ricorso deve essere accolto limitatamente al quarto motivo, disattesi gli altri, con conseguente cassazione in relazione della sentenza impugnata e rinvio ad altra sezione della corte territoriale, anche per le spese processuali.
P.Q.M.
Cassa la sentenza impugnata limitatamente al quarto motivo di ricorso con rinvio anche per le spese processuali ad altra sezione della Corte d’appello di Milano.
Così deciso in Roma, il 8 giugno 2018.
Depositato in Cancelleria il 23 ottobre 2018