Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.26740 del 23/10/2018

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. MANZON Enrico – rel. Consigliere –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. LUCIOTTI Lucio – Consigliere –

Dott. CRICENTI Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 17079/2017 proposto da:

F.V., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PRATI FISCALI 221, presso lo studio dell’avvocato PIERLUIGI ALESSANDRINI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato MAURIZIO GRIO;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, *****, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

contro

EQUITALIA SUD SPA;

– intimata –

avverso la sentenza n. 9833/1/2016 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE di ROMA, depositata il 30/12/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 27/09/2018 dal Consigliere Dott. ENRICO MANZON.

RILEVATO

che:

Con sentenza n. 9833/1/16 depositata in data 30 dicembre 2016 la Commissione tributaria regionale del Lazio respingeva l’appello proposto da F.V. avverso la sentenza n. 24311/4/15 della Commissione tributaria provinciale di Roma che ne aveva parzialmente accolto il ricorso contro le intimazioni di pagamento per II.DD. ed IVA 2000/2004. La CTR osservava in particolare che la lite – con riguardo all’annualità fiscale 2002 – non poteva essere risolta, come preteso dal contribuente, sulla sola base della sentenza penale di condanna del suo consulente per la redazione di una falsa dichiarazione per detto periodo di imposta, riaffermando in linea generale il principio dell’autonomia del processo tributario da quello penale, quale consolidato nella giurisprudenza di legittimità; conseguentemente statuiva la legittimità dell’ intimazione di pagamento ad esso relativo.

Avverso la decisione ha proposto ricorso per cassazione il contribuente deducendo due motivi.

Resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.

CONSIDERATO

che:

Con il primo motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, – il ricorrente lamenta la violazione/falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 21, 54 e 55, art. 2697 c.c., poichè la CTR non ha considerato autonomamente il fatto (redazione di una falsa dichiarazione fiscale integrativa per l’annualità 2002) per il quale il suo ex consulente tributario era stato condannato in sede penale, così appunto violando le richiamate disposizioni legislative e particolarmente quella codicistica generale sul riparto dell’onere probatorio.

La censura e fondata.

Va ribadito che “In materia di contenzioso tributario, nessuna automatica autorità di cosa giudicata può attribuirsi alla sentenza penale irrevocabile, di condanna o di assoluzione, emessa in materia di reati fiscali, ancorchè i fatti esaminati in sede penale siano gli stessi che fondano l’accertamento degli Uffici finanziari, dal momento che nel processo tributario vigono i limiti in tema di prova posti dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 4 e trovano ingresso, invece, anche presunzioni semplici, di per sè inidonee a supportare una pronuncia penale di condanna; ne consegue che il giudice tributario non può limitarsi a rilevare l’esistenza di una sentenza penale definitiva in materia di reati fiscali, recependone acriticamente le conclusioni assolutorie, ma, nell’esercizio dei propri poteri di valutazione della condotta delle parti e del materiale probatorio acquisito agli atti (art. 116 c.p.c.), deve procedere ad un suo apprezzamento del contenuto della decisione, ponendolo a confronto con gli elementi di prova acquisiti al giudizio” (Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 28174 del 24/11/2017, Rv. 646971 – 01).

Il giudice tributario di appello non ha effettuato alcuna “autonoma valutazione” della sentenza penale allegata dal contribuente come prova contraria alle pretese erariali di periodo, in quanto appunto mirante ad asseverare l’insussistenza dei relativi presupposti impositivi.

La CTR laziale infatti si è limitata a riaffermare la prima parte del citato principio di diritto, ma non ha poi conseguentemente applicato la sua seconda parte, così violandolo e violando le disposizioni legislative evocate nella censura.

La sentenza impugnata va dunque cassata in relazione al primo motivo, assorbito il secondo, con rinvio al giudice a quo per nuovo esame.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, assorbito il secondo motivo, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione tributaria regionale del Lazio, in diversa composizione, anche per le spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, il 27 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 23 ottobre 2018

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