Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.26743 del 23/10/2018

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. MANZON Enrico – rel. Consigliere –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. LUCIOTTI Lucio – Consigliere –

Dott. CRICENTI Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 17256/2017 proposto da:

N.A., in proprio e nella qualità di legale rappresentante pro tempore della cessata AL.PA. S.n.c. di N.A. e C., NA.AL., elettivamente domiciliati in ROMA, PIAZZALE LUIGI STURZO 9, presso lo studio dell’avvocato VINCENZO FORTINO, che li rappresenta e difende;

– ricorrenti –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, *****, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 9563/17/2016 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE di ROMA, depositata il 29/12/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 27/09/2018 dal Consigliere Dott. ENRICO MANZON.

RILEVATO

che:

Con sentenza n. 9563/17/16 depositata in data 29 dicembre 2016 la Commissione tributaria regionale del Lazio respingeva l’appello proposto dalla AL.PA snc di N.A. e C. e dai suoi soci N.A. e NA.AL. avverso la sentenza n. 7853/63/15 della Commissione tributaria provinciale di Roma che ne aveva respinto i ricorsi contro gli avvisi di accertamento per II.DD. ed IVA 2007. La CTR osservava in particolare che pur dovendosi ritenere ammissibile ancorchè proposta per la prima volta in appello, era comunque infondata l’eccezione di invalidità degli atti impositivi impugnati per difetto di poteri del funzionario sottoscrittore; che l’appello era meritalmente infondato, essendo le pretese erariali (indeducibilità dei costi/indetraibilità dell’IVA per l’inesistenza oggettiva delle operazioni di cui a fatture passive registrate) suffragate da plurime e complessivamente adeguate prove indiziarie.

Avverso la decisione hanno proposto ricorso per cassazione i contribuenti deducendo quattro motivi.

Resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.

CONSIDERATO

che:

Con il primo motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – i ricorrenti lamentano la violazione/falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54,D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, poichè la Commissione tributaria regionale, in particolare violando la prima disposizione legislativa evocata, ha affermato l’adeguatezza delle prove indiziarie allegate dall’Ente impositore a fondamento dell’avviso di accertamento impugnato.

La censura è inammissibile e comunque infondata.

Va ribadito che:

– “In tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste in un’erronea ricognizione da parte del provvedimento impugnato della fattispecie astratta recata da una norma di legge implicando necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta, mediante le risultanze di causa, inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito la cui censura è possibile, in sede di legittimità, attraverso il vizio di motivazione” (ex multi s Sez. 5, n. 26110 del 2015); – “Con la proposizione del ricorso per cassazione, il ricorrente non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sè coerente, atteso che l’apprezzamento dei fatti e delle prove è sottratto al sindacato di legittimità, dal momento che, nell’ambito di quest’ultimo, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione” (Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 9097 del 07/04/2017, Rv. 643792 – 01).

Lo sviluppo della censura collide radicalmente con le indicazioni sui limiti del giudizio di cassazione rivenienti dai principi di diritto espressi in tali arresti giurisprudenziali.

Il giudice tributario di appello ha compiutamente analizzato il materiale probatorio offerto dalle parti, in particolare rilevando che l'”inesistenza oggettiva” delle operazioni fatturate dal M. emergeva anzitutto dal fatto che lo stesso fosse deceduto addirittura prima delle operazioni medesime e comunque dalle ulteriori circostanze che analoga frode risultava perpetrata da società contribuente della quale era legale rappresentante la moglie di N.A. e che le fatture fossero state pagate per contanti, negando comunque valore di prova contraria alle allegazioni istruttorie dei contribuenti.

E’ quindi evidente che si tratta di un giudizio meritale che non può essere assoggettato ad ulteriore “revisione” in questa sede.

Peraltro, quanto specificamente alla dedotta violazione del principio generale codicistico relativo all’onere della prova, va altresì ribadito che “In tema di IVA, qualora l’Amministrazione finanziaria contesti al contribuente l’indebita detrazione di fatture, in quanto relative ad operazioni inesistenti, spetta all’Ufficio fornire la prova che l’operazione commerciale, oggetto della fattura, non è mai stata posta in essere, indicando gli elementi anche indiziari sui quali si fonda la contestazione, mentre è onere del contribuente dimostrare la fonte legittima della detrazione o del costo altrimenti indeducibili, non essendo sufficiente, a tal fine, la regolarità formale delle scritture o le evidenze contabili dei pagamenti, in quanto si tratta di dati e circostanze facilmente falsificabili” (Sez. 5, Sentenza n. 428 del 14/01/2015, Rv. 634233 – 01) e che “In tema d’IVA, l’Amministrazione finanziaria, che contesti al contribuente l’indebita detrazione relativamente ad operazioni oggettivamente inesistenti, ha l’onere di provare che l’operazione non è mai stata posta in essere, indicandone i relativi elementi, anche in forma indiziaria o presuntiva, ma non anche quello di dimostrare la mala fede del contribuente, atteso che, una volta accertata l’assenza dell’operazione, non è configurabile la buona fede di quest’ultimo, che sa certamente se ed in quale misura ha effettivamente ricevuto il bene o la prestazione per la quale ha versato il corrispettivo” (Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 18118 del 14/09/2016, Rv. 641109 – 01).

La sentenza impugnata si è evidentemente attenuta ai principi di diritto espressi in tali arresti giurisprudenziali.

Con il secondo motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – i ricorrenti denunciano la violazione/falsa applicazione del D.Lgs. n. 74 del 2000, artt. 19 e 20, poichè la CTR, così come la CTP, non ha sospeso il presente processo in attesa dell’esito del parallelo processo penale avente ad oggetto le medesime fatture.

La censura è infondata.

Va ribadito che “Nel contenzioso tributario – in cui non opera automaticamente l’efficacia vincolante del giudicato penale ai sensi dell’art. 654 c.p.p., vigendo invece le limitazioni probatorie sancite dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 7,comma 4, e potendo ivi valere anche le presunzioni, inidonee a supportare una pronuncia penale di condanna – la sentenza penale costituisce semplice indizio od elemento di prova critica in ordine ai fatti in essa eventualmente accertati sulla base delle prove raccolte nel relativo giudizio e non rappresenta un accertamento preliminare necessario. Pertanto, non può disporsi, ai sensi dell’art. 295 c.p.c. ed ancorchè coincidano i fatti esaminati in sede penale e quelli che fondano l’accertamento, la sospensione del processo tributario in attesa della definitività della predetta sentenza, come peraltro sancito dal del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 20” (Sez. 5, Sentenza n. 4924 del 27/02/2013, Rv. 625233 – 01).

Il giudice tributario di appello si è attenuto al principio di diritto di cui a tale arresto giurisprudenziale.

Con il terzo motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – i ricorrenti si dolgono della violazione/falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43 e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57, poichè la CTR ha male applicato la speciale normativa sul c.d. “raddoppio dei termini” di emissione dell’avviso di accertamento, non tenendo conto dello jus superveniens (in particolare, L. n. 208 del 2015, art. 1, comma 132, in relazione al D.Lgs. n. 128 del 2015, art. 2), quale più favorevole.

Con il quarto motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – i ricorrenti denunciano la violazione/falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c. e art. 2697 c.c., poichè la CTR ha omesso di pronunciarsi sull’eccezione di invalidità dell’avviso di accertamento impugnato per difetto del relativo potere di emetterlo da parte del funzionario sottoscrittore, in quanto non dirigente.

Le censure, da esaminarsi congiuntamente per stretta connessione, sono infondate.

Va rilevato che il giudice tributario di appello ha correttamente applicato il principio che nel processo tributario le eccezioni in senso stretto, quale è certamente quella in esame, debbano essere proposte con il ricorso introduttivo della lite e giammai quindi quale eccezione “nuova” in appello (v. rispettivamente, Sez. 5, Sentenza n. 15051 del 02/07/2014, Rv. 631568 – 01 e Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 11223 del 31/05/2016, Rv. 639912 – 01).

In conclusione, il ricorso va rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 5.600 oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 27 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 23 ottobre 2018

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