LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE T
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –
Dott. MANZON Enrico – rel. Consigliere –
Dott. NAPOLETANO Lucio – Consigliere –
Dott. LUCIOTTI Lucio – Consigliere –
Dott. CRICENTI Giuseppe – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 17319-2017 proposto da:
D.P.C., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ANTONIO POLLAIOLO 3, presso lo studio dell’avvocato RICCARDO BARBERIS, che lo rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
AGENZIA DELLE ENTRATE, *****, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende ope legis;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 365/45/2017 della COMMISSIONI TRIBUTARIA REGIONALE di NAPOLI, depositata il 20/01/2017;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata el 27/09/2018 dal Consigliere Dott. ENRICO MANZON.
RILEVATO
che:
Con sentenza n. 365/45/17 depositata in data 20 gennaio 2017 la Commissione tributaria regionale della Campania accoglieva l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate, ufficio locale, avverso la sentenza n. 6750/12/15 della Commissione tributaria provinciale di Caserta che aveva accolto il ricorso di D.P.C. contro l’avviso di accertamento per II.DD. ed IVA 2007. La CTR osservava in particolare che doveva considerarsi erronea l’affermazione dei primi giudici circa l’inapplicabilità nel caso di specie della speciale disciplina del c.d. “raddoppio dei termini” per l’accertamento, essendo oggetto della lite fatti penalmente rilevanti e non essendo l’applicazione di detta disciplina condizionata dall’intervenuta scadenza del termine decadenziale “ordinario” nè dall’esito del parallelo giudizio penale, comunque non essendo retroattivo lo jus superveniens (in particolare, L. n. 208 del 2015, art. 1, commi 130/132); che, valide le prove indiziarie allegate dall’Ente impositore a sostegno della ripresa fiscale (utilizzazione di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti) e non assolto da parte del contribuente l’onere di provare la sua non conoscenza/conoscibilità della frode, l’eccezione di invalidità dell’atto impositivo impugnato per violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, era inammissibile in quanto tardiva.
Avverso la decisione ha proposto ricorso per cassazione il contribuente deducendo tre motivi.
Resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.
Il contribuente successivamente ha depositato una memoria.
CONSIDERATO
che:
Con il primo motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, – il ricorrente lamenta l’omesso esame del fatto decisivo controverso consistente nella sentenza penale di assoluzione intervenuta nel parallelo processo penale.
La censura è infondata.
va ribadito che:
– “Nel processo tributario, la sentenza penale irrevocabile di assoluzione dal reato tributario, emessa con la formula “perchè il fatto non sussiste”, non spiega automaticamente efficacia di giudicato, ancorchè i fatti accertati in sede penale siano gli stessi per i quali l’Amministrazione finanziaria ha promosso l’accertamento nei confronti del contribuente, ma può essere presa in considerazione come possibile fonte di prova dal giudice tributario, il quale nell’esercizio dei propri poteri di valutazione, deve verificarne la rilevanza nell’ambito specifico in cui detta sentenza è destinata ad operare” (Sez. 5, Sentenza n. 10578 del 22/05/2015, Rv. 635637 – 01); -“Nel contenzioso tributario, la sentenza penale irrevocabile intervenuta per reati attinenti ai medesimi fatti su cui si fonda l’accertamento degli uffici finanziari rappresenta un semplice elemento di prova, liberamente valutabile in rapporto alle ulteriori risultanze istruttorie, anche di natura presuntiva” (Sez. 5, Sentenza n. 2938 del 13/02/2015, Rv. 634894 – 01);
– “In materia di contenzioso tributario, nessuna automatica autorità di cosa giudicata può attribuirsi alla sentenza penale irrevocabile, di condanna o di assoluzione, emessa in materia di reati fiscali, ancorchè i fatti esaminati in sede penale siano gli stessi che fondano l’accertamento degli Uffici finanziari, dal momento che nel processo tributario vigono i limiti in materia di prova posti dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 4, e trovano ingresso, invece, anche presunzioni semplici, di per sè inidonee a supportare una pronuncia penale di condanna. Ne consegue che l’imputato assolto in sede penale, anche con formula piena, per non aver commesso il fatto o perchè il fatto non sussiste, può essere ritenuto responsabile fiscalmente qualora l’atto impositivo risulti fondato su validi indizi, insufficienti per un giudizio di responsabilità penale, ma adeguati, fino a prova contraria, nel giudizio tributario” (Sez. 5, Sentenza n. 8129 del 23/05/2012, Rv. 622685 – 01);
– più specificamente, “Nel processo tributario, l’efficacia vincolante del giudicato penale di assoluzione del legale rappresentante della società contribuente per insussistenza del reato di esposizione di elementi passivi fittizi mediante utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti, non opera automaticamente per i fatti relativi alla correlata azione di accertamento fiscale nei confronti della società, poichè in questo, da un lato, vigono limitazioni della prova (come il divieto di quella testimoniale D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 7) e, dall’altro, possono valere anche presunzioni inidonee a fondare una pronuncia penale di condanna. Pertanto, stante l’evidenziata autonomia del giudizio tributario rispetto a quello penale, il giudice tributario non può limitarsi a rilevare l’esistenza di una sentenza penale definitiva in materia di reati fiscali, recependone acriticamente le conclusioni assolutorie ma, nell’esercizio dei propri poteri di valutazione della condotta delle parti e del materiale probatorio acquisito agli atti (art. 116 c.p.c.), deve procedere ad un suo apprezzamento del contenuto della decisione, ponendolo a confronto con gli altri elementi di prova acquisiti nel giudizio” (Sez. 5, Sentenza n. 19786 del 27/09/2011, Rv. 619306 – 01).
La sentenza impugnata senz’altro si attiene ai principi di diritto espressi in tali arresti giurisprudenziali.
Infatti, come era nel suo potere di cognizione giurisdizionale di merito, il giudice tributario di appello ha liberamente valutato ed apprezzato le prove in atti, secondo le regole di giudizio tipiche del processo tributario, appunto differenziate rispetto a quello penale, giungendo ad una determinazione di merito che non può essere ulteriormente soggetta a “revisione” nella presente sede, secondo l’ulteriore consolidato principio di diritto che “Il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio), nè in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4, – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante” (Sez. 3, Sentenza n. 11892 del 10/06/2016, Rv. 640194 – 01).
Con il secondo motivo il ricorrente si duole di violazione di legge relativamente alla ritenuta applicabilità della speciale disciplina del c.d. “raddoppio dei termini” di accertamento.
La censura è infondata.
Va ribadito che:
-“In tema di accertamento tributario, il raddoppio dei termini previsto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 3, e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57, comma 3, nei testi applicabili “ratione temporis”, presuppone unicamente l’obbligo di denuncia penale, ai sensi dell’art. 331 c.p.p., per uno dei reati previsti dal D.Lgs. n. 74 del 2000, e non anche la sua effettiva presentazione, come chiarito dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 247 del 2011" (Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 11171 del 30/05/2016, Rv. 639877 – 01);
– “In tema di accertamento tributario, ai fini del raddoppio dei termini previsti dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, nella versione applicabile “ratione temporis”, rileva unicamente la sussistenza dell’obbligo di presentazione di denuncia penale, a prescindere dall’esito del relativo procedimento e nonostante l’eventuale prescrizione del reato, poichè ciò che interessa è solo l’astratta configurabilità di un’ipotesi di reato, atteso il regime di “doppio binario” tra giudizio penale e procedimento tributario” (Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 9322 del 11/04/2017, Rv. 643795 – 01);
– “In tema di accertamento tributario, i termini previsti dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43 per l’IRPEF e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57 per l’IVA, nella versione applicabile “ratione temporis”, sono raddoppiati in presenza di seri indizi di reato che facciano insorgere l’obbligo di presentazione di denuncia penale, anche se questa sia archiviata o presentata oltre i termini di decadenza, senza che, con riguardo agli avvisi di accertamento per i periodi d’imposta precedenti a quello in corso alla data del 31 dicembre 2016, incidano le modifiche introdotte dalla L. n. 208 del 2015, il cui art. 1, comma 132, ha introdotto, peraltro, un regime transitorio che si occupa delle sole fattispecie non ricomprese nell’ambito applicativo del precedente regime transitorio non oggetto di abrogazione – di cui al D.Lgs. n. 128 del 2015, art. 2, comma 3, in virtù del quale la nuova disciplina non si applica nè agli avvisi notificati entro il 2 settembre 2015 nè agli inviti a comparire o ai processi verbali di constatazione conosciuti dal contribuente entro il 2 settembre 2015 e seguiti dalla notifica dell’atto recante la pretesa impositiva o sanzionatoria entro il 31 dicembre 2015" (Sez. 5 -, Sentenza n. 26037 del 16/12/2016, Rv. 641949 – 01).
La CTR si è pienamente attenuta ai principi di diritto espressi in tali arresti giurisprudenziali.
Con il terzo motivo il ricorrente denuncia la nullità della sentenza impugnata per omesso esame di un fatto decisivo controverso e violazione di legge in relazione alla statuizione di tardività della sua eccezione di invalidità dell’avviso di accertamento impugnato per difetto della delega al funzionario sottoscrittore del medesimo.
La censura è infondata.
Si deve in primo luogo rilevare che è dallo stesso testo del ricorso che si desume che tale eccezione è stata sollevata, con chiarezza, soltanto nella memoria illustrativa di prime cure e, ciò constatato, non può che essere considerata tardiva.
Va infatti ribadito che:
“In tema di contenzioso tributario, è inammissibile il motivo del ricorso per cassazione con cui si denunci un vizio dell’atto impugnato diverso da quelli originariamente allegati, censurando, altresì, l’omesso rilievo d’ufficio della nullità, atteso che nel giudizio tributario, in conseguenza della sua struttura impugnatoria, opera il principio generale di conversione dei motivi di nullità dell’atto tributario in motivi di gravame, sicchè l’invalidità non può essere rilevata di ufficio, nè può essere fatta valere per la prima volta in sede di legittimità” (Sez. 5, Sentenza n. 22810 del 09/11/2015, Rv. 637348 – 01);
-“In materia tributaria, alla sanzione della nullità comminata dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 42, comma 3, o da altre diposizioni non si applica il regime di diritto amministrativo di cui alla L. n. 241 del 1990, art. 21 septies e del D.Lgs. n. 104 del 2010, art. 31, comma 4, che risulta incompatibile con le specificità degli atti tributari relativamente ai quali il legislatore, nella sua discrezionalità, ha configurato una categoria unitaria d’invalidità-annullabilità, sicchè il contribuente ha l’onere della tempestiva impugnazione nel termine decadenziale di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 21 onde evitare il definitivo consolidarsi della pretesa tributaria, senza che alcun vizio possa, poi, essere invocato nel giudizio avverso l’atto consequenziale o, emergendo dagli atti processuali, possa essere rilevato di ufficio dal giudice” (Sez. 5, Sentenza n. 18448 del 18/09/2015, Rv. 636451 – 01). La sentenza impugnata si è sostanzialmente uniformata ai principi di diritto espressi in tali arresti giurisprudenziali.
La memoria del ricorrente non induce a diverse considerazioni.
In conclusione, il ricorso va rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 4.100 oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, il 27 settembre 2018.
Depositato in Cancelleria il 23 ottobre 2018