Corte di Cassazione, sez. II Civile, Sentenza n.26751 del 23/10/2018

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. GRASSO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 17477-2016 proposto da:

D.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DELLA CONSULTA 50, presso 1 studio dell’avvocato LUCA DI RAIMONDO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato RINALDO PANCERA;

– ricorrente –

contro

D.G., (*****), D.F. (*****), D.V. (*****) e D.G.B. (*****), anche in qualità di eredi di S.M., nonchè D.S.

(DGNSVS63T31E526S), anche in qualità di erede di P.G., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA G.B. VICO 1, presso lo studio dell’avvocato STEFANO PROSPERI MANGILI, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato CAROSENA GABRIELLA ETLASETA;

– controricorrenti –

e contro

D.E., e D.P., anche in qualità di eredi di P.G., nonchè DA.SI., D.G., D.F., DA.AN., D.C., DA.AL., D.D.F., da.an., D.N., D.L., DA.EM., D.M., DA.GI., M.M., nonchè L.R. e L.F. e L.G., quali eredi di D.M.E., nonchè da.em.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 76/2016 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, depositata il 26/01/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 26/04/2018 dal Consigliere GIUSEPPE GRASSO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CELESTE ALBERTO, che ha concluso per l’inammissibilità, in subordine, per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato GIANLUCA MANCINI, con delega dell’avvocato LUCA DI RAIMONDO difensore della ricorrente, che si riporta agli atti depositati;

udito l’Avvocato STEFANO PROSPERI MANIGLIA, difensore dei controricorrenti, che ha chiesto il rigetto del ricorso.

I FATTI DI CAUSA La Corte d’appello di Brescia, con la sentenza di cui in epigrafe dichiarò inammissibile l’impugnazione proposta da A. ed da.em., avverso la statuizione di primo grado, che aveva disatteso domanda riconvenzionale d’usucapione d’un piccolo stacco (240 mq.) di terreno, facente parte del più vasto compendio ereditario derivante dalla successione di da.em..

E’ di utilità ricordare che la Corte locale, riprese le motivazioni attraverso le quali il Tribunale aveva disatteso la domanda riconvenzionale dai germani A. ed da.em., costituitisi nel processo avviato dagli altri eredi del comune dante causa da.em., al fine di far luogo alla divisione del compendio ereditario, dichiarò l’impugnazione inammissibile per non essere stata attinta l’intiera ratio decidendi di primo grado. Non essendo stata, in particolare, sottoposta a critica l’affermazione secondo la quale, in presenza di comunione, l’animus possidendi, con il quale il singolo comproprietario, assume di aver usucapito il bene, deve “rivelare in modo inequivoco ai comproprietari che si è verificato un mutamento del titolo di possesso, tale per cui non si possiede più il bene in qualità di compossessori bensì in qualità di esclusivi proprietari del bene”.

Ricorre la sola D.A., svolgendo due motivi di censura. Resistono con controricorso G., F., V., D.G.B..

Entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative.

Venuto il procedimento all’adunanza camerale del 31/5/2017, ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., con ordinanza interlocutoria lo stesso veniva rimesso alla pubblica udienza.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 1158 c.c., “per avere la Corte Distrettuale ritenuto che gli appellanti con l’impugnazione non abbiano censurato la sentenza del Tribunale nella parte in cui aveva considerato non dimostrato il loro dominio esclusivo “uti dominus”, fondando su tale erroneo presupposto la pronuncia d’inammissibilità”.

Assume, in definitiva, la ricorrente che la sentenza qui impugnata non aveva considerato che con l’atto d’appello si era sottoposto a “contestazione globale” la decisione di primo grado e doveva ritenersi implicita l’integralità della critica nel fatto stesso che si fosse richiesto l’accertamento dell’ultraventennalità del possesso ad usucapionem, così affermandosi la ricorrenza di tutti i presupposti di cui all’art. 1158 c.c.: la durata, la esclusività del possesso, l’intendimento di godere del bene uti dominus, escludendo gli altri comproprietari. Pretesa supportata dalle risultanze testimoniali.

Con il secondo motivo il ricorso lamenta “violazione di legge per erronea e travisata applicazione ai fatti dedotti a fondamento dell’usucapione di pronunce della Suprema Corte di Cassazione, con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3 e art. 360 bis c.p.c. in relazione all’art. 1141 c.c.”.

2. Secondo l’assunto della ricorrente la Corte d’appello aveva errato nel ritenere che la stessa non avesse goduto del bene in via esclusiva, escludendo gli altri comproprietari, avendo dimostrato di aver coltivato il tratto di terreno e dovendosi in assenza di altrui tolleranza, dato il vasto numero degli altri comproprietari e la mancanza di contestazione da parte di costoro.

3. Il ricorso, che si pone ai limiti dell’inammissibilità, è manifestamente destituito di giuridico fondamento.

3.1. A voler ritenere specifico (cioè corredato del necessario supporto di autosufficienza) il ricorso, pur avendo evocato con non piena ed appagante puntualità i contenuti precipuamente censuratori dell’atto d’appello (evidenzia la necessità a pena d’inammissibilità della trascrizione dell’atto d’appello in un caso simile, Sez. L. n. 11477, 12/5/2010, Rv. 613519), le conclusioni a cui giunge non sono affatto condivisibili.

La sentenza del Tribunale disattese la domanda d’usucapione, così argomentando:

a) il comproprietario pro indiviso che pretenda di aver usucapito il bene deve dimostrare, non solo di averne goduto in via d’esclusività (il che non è incompatibile con la propria posizione di titolare quotista, il quale può fruire anche di tutte le utilità del bene, ove gli altri comproprietari non dissentano e non rivendichino, a loro volta concorrente fruizione), ma di averlo fatto escludendo gli altri comproprietari, cioè apertamente contrastando il loro comune diritto, così da evidenziare una inequivoca volontà di possedere uti dominus e non più uti condominus (trattasi dell’applicazione del consolidato principio espresso reiteratamente da questa Corte, Sez. 2, n. 12260, 20/8/2002, Rv. 556970; Sez. 2, n. 9903, 28/4/2006, Rv. 592523; Sez. 2, n. 19478, 20/9/2007, Rv. 599374; Sez. 2, n. 17462, 27/7/2009, Rv. 609159);

b) quindi, anche se gli attori in via riconvenzionale avessero provato (ma una tale prova il Tribunale non reputa essere stata raggiunta) la esclusività della coltivazione, non essendo stato dimostrato il possesso esclusivo ad escludendum, la pretesa era infondata;

c) il vaglio probatorio non consentiva di affermare un tale possesso esclusivo ad escludendum e quant’anche si fosse ritenuto provato un godimento più inteso da parte dei richiedenti, l’evenienza era irrilevante.

La sentenza d’appello evidenzia che gli appellanti hanno posto a fondamento dell’impugnazione la contestazione del vaglio probatorio operato dalla sentenza del Tribunale, attraverso il quale si era reputato non compiutamente provata la ventennale esclusività della coltivazione, senza attingere la ratio decidendi della predetta statuizione: non era stato dimostrato il possesso esclusivo ad escludendum.

E’ del tutto evidente che le due censure portate dal ricorso non scalfiscono la correttezza della sentenza d’appello.

La inadeguatezza di una asserita contestazione globale è palese: sarebbe occorso, invero, puntualmente allegare specifiche circostanze, rimaste provate nel giudizio di primo grado e non adeguatamente tenute in conto dal Tribunale, univocamente dimostrative di una condotta, palese ed estrinseca, attraverso la quale i due comproprietari, avrebbero inteso godere del bene come se fosse di loro esclusiva proprietà, escludendo gli altri comproprietari. Circostanze che, è appena soggiungere, ancora in questa sede restano ignote.

Per completezza, deve soggiungersi che la pretesa coltivazione esclusiva di quello stacco di terreno per il tempo occorrente è, in ogni caso, priva di concludenza. Infatti, ai fini della prova degli elementi costitutivi dell’usucapione – il cui onere grava su chi invoca la fattispecie acquisitiva – la coltivazione del fondo non è sufficiente, perchè, di per sè, non esprime, in modo inequivocabile, l’intento del coltivatore di possedere, occorrendo, invece, che tale attività materiale, corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà, sia accompagnata da univoci indizi, i quali consentano di presumere che essa è svolta “uti dominus”; l’interversione nel possesso non può avere luogo mediante un semplice atto di volizione interna, ma deve estrinsecarsi in una manifestazione esteriore, dalla quale sia possibile desumere che il detentore abbia iniziato ad esercitare il potere di fatto sulla cosa esclusivamente in nome proprio e non più in nome altrui, e detta manifestazione deve essere rivolta specificamente contro il possessore, in maniera che questi sia posto in grado di rendersi conto dell’avvenuto mutamento e della concreta opposizione al suo possesso (ex multis, da ultimo, Sez. 2, n. 17376, 3/7/2018, Rv. 649349).

Infine, è appena il caso di soggiungere che la evocazione di norme asseritamente violate perciò solo non determina nel giudizio di legittimità lo scrutinio della questione astrattamente evidenziata sul presupposto che l’accertamento fattuale operato dal giudice di merito giustifichi la prospettata violazione di legge, essendo, all’evidenza, occorrente che l’accertamento fattuale, derivante dal vaglio probatorio, sia tale da doversene inferire la conclusione nel senso auspicato dal ricorrente; evenienza che qui niente affatto ricorre, come sopra chiarito. Il ricorso, in definitiva, richiede che il giudizio di legittimità, sostituendosi inammissibilmente a quello di merito, faccia luogo a nuovo e favorevole vaglio probatorio; di talchè, nella sostanza, peraltro neppure efficacemente dissimulata, la doglianza investe inammissibilmente l’apprezzamento delle prove effettuato dal giudice del merito, in questa sede non sindacabile.

4. Le spese legali seguono la soccombenza e possono liquidarsi siccome in dispositivo, tenuto conto del valore e della qualità della causa, nonchè delle attività espletate.

5. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater (inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1,comma 17) applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), ricorrono i presupposti per il raddoppio del versamento del contributo unificato da parte della ricorrente, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore dei controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, e agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 26 aprile 2018.

Depositato in Cancelleria il 23 ottobre 2018

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