LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GIUSTI Alberto – Presidente –
Dott. SCALISI Antonino – Consigliere –
Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –
Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –
Dott. OLIVA Stefano – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 1214-2015 proposto da:
L.A., elettivamente domiciliato V.DEI DARDANELLI 23 STUDIO MELINA, presso dell’avvocato MATTEO ADDUCI, rappresentato dall’avvocato GIACOMO FRANCESCO SACCOMANNO giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
COMUNE SAN FERDINANDO, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FULCIERI PAOLUCCI DE CALBOLI 1, presso lo studio dell’avvocato ALESSANDRO FUSCO, rappresentato e difeso dall’avvocato GAETANO CALLIPO giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 157/2014 della CORTE D’APPELLO di REGGIO CALABRIA, depositata il 28/04/2014;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 20/07/2018 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;
Lette le conclusioni del Sostituto Procuratore Generale dott. SERVELLO Gianfranco, che ha chiesto il rigetto del ricorso;
Letta la memoria depositata da parte ricorrente.
RAGIONI IN FATTO ED IN DIRITTO 1. Il Tribunale di Palmi rigettava la domanda di usucapione promossa da L.A. ed avente ad oggetto l’immobile sito in ***** riportato in NCEU al foglio *****, con la condanna dell’attore al risarcimento del danno per lite temeraria.
La sentenza di primo grado rilevava che il Consiglio Regionale della Calabria aveva attribuito al Comune di San Ferdinando gli alloggi, i locali e le attrezzature urbane realizzati con il finanziamento della Cassa per il Mezzogiorno in località *****, a seguito degli espropri posti in essere ad ***** per la realizzazione del porto di *****, e che uno di tali alloggi era appunto occupato dall’attore, sebbene formalmente assegnato all’omonimo L.A., nato però nel 1910 (l’attore risultava nato invece nel *****).
Tuttavia lo stesso non era suscettibile di usucapione, in quanto facente parte del patrimonio indisponibile del Comune attesa la sua destinazione ad un pubblico servizio, aggiungendo altresì che appariva inverosimile che l’istante potesse occupare da oltre venti anni un bene di cui risultava conduttore un soggetto diverso, che era stato anche diffidato dal Comune al pagamento dei canoni di locazione.
Avverso tale sentenza proponeva appello l’attore e la Corte d’Appello di Reggio Calabria con la sentenza n. 157 del 28 aprile 2014 ha rigettato il gravame.
In primo luogo disattendeva la richiesta di sospensione del processo ex art. 295 c.p.c. in attesa della definizione del procedimento penale scaturente dalla denuncia dell’attore, atteso che non risultava essere stata esercitata l’azione penale. Quindi valutava complessivamente i primi sette motivi, in quanto tutti intesi a contestare la riconducibilità del bene al novero di quelli facenti parte del patrimonio indisponibile del Comune e rilevava che emergeva che l’immobile era stato realizzato con fondi della Cassa del Mezzogiorno e che in seguito era stato trasferito al Comune senza mutamento della sua destinazione originaria a pubblico servizio, e cioè quella di offrire un’abitazione a canone contenuto a chi era risultato destinatario dell’espropriazione dell’abitato di *****.
Risultavano quindi ricorrenti le condizioni per ritenere il bene appartenente al patrimonio indisponibile e ciò sia per la presenza di una manifestazione di volontà dell’ente titolare del diritto reale, sia per la sussistenza dell’oggettiva destinazione del bene al pubblico servizio (senza che risultasse una formale declassificazione successiva).
In particolare nella delibera regionale del 29/12/1980, con la quale l’immobile era stato trasferito dalla Cassa al Comune, erano stati previsti concreti e dettagliati vincoli di utilizzazione formale e materiale, posti a carico dello stesso ente locale, predeterminandosi le condizioni contrattuali di locazione o assegnazione in proprietà consentite, stabilendosi inoltre che i frutti civili tratti dai beni erano destinati esclusivamente a fini pubblici, con il costante richiamo alla normativa in tema di edilizia residenziale pubblica (T.U. sull’edilizia popolare ed economica).
Nè poteva reputarsi intervenuta una sclassificazione, prima di fatto e poi formale, sul presupposto che dopo oltre venti anni di godimento da parte dell’attore, e senza alcuna turbativa ad opera del Comune, era intervenuta la L. n. 112 del 2005 in quanto si trattava di una modifica del regime giuridico del bene destinato ad operare solo per il futuro, senza che quindi fosse maturato il tempo utile ad usucapire.
Quindi disattendeva il motivo di appello con il quale era stata accolta la domanda ex art. 96 c.p.c., atteso che emergeva la coscienza dell’infondatezza della domanda proposta in capo all’attore, risultando infine congrua la liquidazione delle spese di lite, atteso il valore della controversia.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione L.A., sulla base di tre motivi.
Il Comune di San Ferdinando ha resistito con controricorso.
2. Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione di legge per travisamento dei fatti, per omessa valutazione di circostanze rilevanti ai fini della decisione in relazione alla indisponibilità dei beni per i quali è stata avanzata domanda di usucapione, con espresso riferimento all’art. 826 c.p.c., comma 3 ed art. 830 c.c.
Assume la parte che la Corte d’Appello abbia fatto applicazione dei principi di cui alla sentenza delle Sezioni Unite n. 391/1999, senza però tenere conto della documentazione prodotta e di quanto precisato nelle difese della parte, riportando al punto 3^ del mezzo di gravame parte del contenuto dell’atto di appello e della memoria del 22/10/2013.
Pertanto lamenta che sarebbe stata affermata l’appartenenza del bene al patrimonio indisponibile del Comune senza che ne ricorressero le condizioni sia oggettive che soggettive.
Il secondo motivo di ricorso denuncia l’illegittimità e/o nullità della sentenza impugnata per omessa corretta valutazione delle deduzioni difensive e documentali decisive e rilevanti ai fini di un’adeguata verifica degli elementi probatori emergenti dalla istruttoria svolta con violazione di legge e/o falsa applicazione, con espresso riferimento all’onere della prova e comunque omessa valutazione delle richieste istruttorie (art. 2697 c.c. e artt. 115 e 116 c.p.c.).
Si deduce che la Corte d’Appello ha estrapolato solo una parte delle risultanze probatorie, limitando il suo giudizio solo ad alcuni atti, omettendo un esame complessivo delle risultanze documentali.
Quindi si riporta il contenuto di parte dell’atto di appello e della memoria del 15 gennaio 2014 depositata dinanzi alla Corte d’Appello, con il richiamo ai documenti che, a detta del ricorrente, comproverebbero la fondatezza della propria domanda.
Il terzo motivo di gravame denuncia poi l’illegittimità e/o nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione di norme di diritto (artt. 2736,2737,2738 e 2739 c.c. e art. 233 c.p.c.) in ordine alla mancata ammissione del giuramento decisorio, avente ad oggetto circostanze essenziali e fondamentali ai fini di una corretta decisione.
Si trascrivono i capi del giuramento come articolati nelle memorie del 15/1/2014 assumendosi che gli stessi soddisfino i requisiti per l’ammissione del mezzo di prova.
3. I primi due motivi possono essere congiuntamente esaminati per la loro connessione, e sono infondati.
Deve essere in primo luogo sottolineata la genericità dei motivi di ricorso ove parametrati al contenuto della motivazione della sentenza d’appello, avuto riguardo in particolare al fatto che, a fronte della puntuale individuazione da parte della Corte distrettuale delle ragioni per le quali andava confermata la appartenenza del bene oggetto di causa al patrimonio indisponibile, con la conseguente impossibilità di invocare l’usucapione, i motivi, dopo avere riportato in rubrica l’indicazione delle norme asseritamente violate, non si peritano di confutare analiticamente le argomentazioni del giudice di appello, limitandosi in maniera del tutto generica a dolersi della mancata valutazione delle proprie richieste istruttorie e della documentazione prodotta, supportando tale affermazione con la trascrizione integrale di alcuni degli scritti difensivi predisposti nelle fasi di merito, senza nemmeno avvedersi che molte delle considerazioni ivi spese avevano invece trovato risposta nella decisione oggi gravata.
Passando in ogni caso alla disamina nel merito delle censure mosse, va esclusa la dedotta violazione degli artt. 826 ed 830 c.c. in punto di individuazione del bene come appartenente al patrimonio indisponibile del Comune convenuto.
A tal fine va richiamato il pacifico principio secondo cui il vizio di violazione o falsa applicazione di norma di legge ex art. 360 c.p.c., n. 3, consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione della fattispecie astratta di una norma di legge e, perciò, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa, con la conseguenza che il ricorrente che presenti la doglianza è tenuto a prospettare quale sia stata l’erronea interpretazione della norma in questione da parte del giudice che ha emesso la sentenza impugnata, a prescindere dalla motivazione posta a fondamento di questa (Cass. n. 26307/2014). Al contrario, se l’erronea ricognizione riguarda la fattispecie concreta, il gravame inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, (Cass. n. 8315/2013).
Inoltre va ricordato che, trattandosi di sentenza adottata all’esito di un giudizio di appello introdotto in data successiva all’il settembre 2012, e che ha deciso la controversia confermando la decisione di primo grado, risulta applicabile l’art. 348 ter c.p.c., u.c. che esclude la possibilità di dedurre il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 conclusione questa che rende inammissibile ogni censura volta nel complesso, ed una volta rivelatasi l’insussistenza della violazione di legge, a contestare la valutazione del materiale istruttorio ancorchè sub specie di omessa valutazione di alcune delle prove versate in atti (sul punto si veda in ogni caso Cass. S.U. n. 8054/2014 che hanno altresì sottolineato che l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sè vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze istruttorie).
Parte ricorrente in realtà non contesta i principi di diritto e l’interpretazione delle norme di cui denuncia la violazione, come operata dal giudice di appello, ma nella sostanza assume che si sarebbe affermata l’appartenenza al patrimonio indisponibile del Comune senza però riscontrare i requisiti soggettivi ed oggettivi a tal fine previsti.
Al contrario, i giudici di appello hanno richiamato la giurisprudenza di questa Corte dando seguito al principio secondo cui (cfr. Cass. S.U. n. 6019/2016) affinchè un bene non appartenente al demanio necessario possa rivestire il carattere pubblico proprio dei beni patrimoniali indisponibili, in quanto destinati a un pubblico servizio ai sensi dell’art. 826 c.c., comma 3, deve sussistere il doppio requisito (soggettivo e oggettivo) della manifestazione di volontà dell’ente titolare del diritto reale pubblico (e, perciò, un atto amministrativo da cui risulti la specifica volontà dell’ente di destinare quel determinato bene a un pubblico servizio) e dell’effettiva e attuale destinazione del bene al pubblico servizio (in termini si veda anche Cass. S.U. n. 14865/2006, Cass. n. 26402/2009, ed ancor prima Cass. S.U. n. 391/1999, richiamata anche nella motivazione della sentenza gravata), ravvisando la manifestazione di volontà formale della P.A. di assoggettare il bene alla destinazione di pubblico servizio (costituita appunto dall’esigenza di assegnare un nuovo alloggio a coloro che erano stati interessati dall’espropriazione di *****, al fine della realizzazione del porto di *****) nella Delib. Regione Calabria 29 dicembre 1980 con la quale i beni erano stati trasferiti dalla Cassa per il mezzogiorno al Comune resistente, imponendo determinati vincoli di utilizzazione con il richiamo alla normativa in tema di edilizia residenziale pubblica (all’epoca la L. n. 513 del 1977). Al contempo ha riscontrato che il compendio immobiliare, nel quale era incluso anche il bene oggetto di causa, aveva poi ricevuto una concreta destinazione, essendosi provveduto alla concessione in locazione provvisoria ai singoli fruitori (cfr. Cass. n. 7269/2003, a mente della quale la concreta ed effettiva destinazione di un bene ad un pubblico servizio, come in caso di assegnazioni di alloggi ai senza tetto per cause di guerra – si verifica non appena la costruzione sia realizzata, non essendo necessario che la sua destinazione ad un pubblico servizio, già affermata dalla legge, abbia poi concreta ed effettiva attuazione attraverso un successivo provvedimento amministrativo).
La decisione ha avuto cura anche di evidenziare che non poteva avere seguito la tesi del ricorrente secondo cui il bene avesse perso il carattere della indisponibilità da epoca remota e comunque tale da consentire l’usucapione, rilevando che, oltre a non risultare provato da quando effettivamente il ricorrente fosse nel possesso del bene, non risultava adottato alcun formale provvedimento di sclassificazione e che, anche a voler prendere in esame la Delib. Giunta Comunale 24 luglio 2012, alla stessa non poteva assegnarsi efficacia ricognitiva di una sclassificazione già avvenuta nel passato, posto che in parte aveva addirittura carattere programmatico, avendo individuato i beni da inserire in un piano di dismissioni da adottare nel corso del triennio 2011-2013, il che oltre a confermare che non potesse avere alcuna portata retroattiva, denotava altresì che nemmeno risultava contestuale la dimissione.
I principi ai quali si è attenuta la decisione gravata risultano del tutto condivisibili.
In tal senso si è, infatti, rilevato che (Cass. S.U. n. 4430/2014) la dismissione di un bene incluso nella categoria dei beni patrimoniali indisponibili di un Comune, ex art. 826 c.p.c., comma 3, con conseguente regressione al patrimonio comunale disponibile (nella specie un impianto sportivo), necessita di una manifestazione di volontà, espressa in un atto amministrativo, e la materiale cessazione della destinazione al servizio pubblico, non essendo sufficiente, a tale scopo, una trascurata gestione dell’impianto, sebbene prolungata.
Assolutamente pertinente rispetto alla vicenda in esame appare il richiamo a quanto affermato da Cass. n. 2962/2012che con riguardo agli alloggi costruiti con il contributo dello Stato in conseguenza di terremoti per far fronte alle esigenze delle popolazioni colpite dagli eventi sismici, ha chiarito che ancorchè la legge ne preveda la cessione in proprietà, ciò non declassifica in maniera automatica, nè espressamente, nè implicitamente, tali beni, ma si limita a disciplinare l’assegnazione ai privati, la quale soltanto determina, in una con l’effetto traslativo, la perdita della qualità pubblica degli alloggi stessi, con la conseguenza che questi ultimi, restando soggetti al regime del patrimonio indisponile fino alla conclusione del procedimento di assegnazione, non sono suscettibili di formare oggetto di usucapione della proprietà da parte dei soggetti occupanti.
Ne deriva quindi che la declassificazione dei beni appartenenti al patrimonio indisponibile non può, dunque, trarsi da una condotta concludente dell’ente proprietario, postulando la cessazione tacita della patrimonialità indisponibile, così come della demanialità, che il bene abbia subito un’immutazione irreversibile, tale da non essere più idoneo all’uso della collettività, senza che a tal fine sia sufficiente la semplice circostanza obiettiva che detto uso sia stato sospeso per lunghissimo tempo. Ne discende che, con riguardo agli alloggi costruiti a carico dello Stato per far fronte alle esigenze delle popolazioni colpite da eventi sismici, la cui inclusione nell’ambito del patrimonio indisponibile si ricava dagli artt. da 252 a 255 Testo Unico delle disposizioni sull’edilizia popolare ed economica, deve escludersi la stessa ipotetica configurabilità di una declassificazione tacita per effetto dell’attività concludente posta in essere dall’ente proprietario, nonchè la possibilità che questa abbia anche soltanto innescato la sospensione dell’uso pubblico.
In termini si veda anche Cass. n. 12608/2002,a mente della quale i beni del patrimonio indisponibile di un ente pubblico possono essere sottratti alla pubblica destinazione soltanto nei modi stabiliti dalla legge, e quindi certamente non per effetto di usucapione da parte di terzi, non essendo usucapibili diritti reali incompatibili con la destinazione del bene dell’ente al soddisfacimento del bisogno primario di una casa di abitazione per cittadini non abbienti.
Tali considerazioni consentono quindi da un lato di ribadire che la asserita violazione delle norme in tema di individuazione del bene come appartenente al patrimonio indisponibile non deriva da un’erronea ricognizione della fattispecie astratta, quanto dalla negazione degli elementi di fatto viceversa valorizzati dal giudice di merito per riscontrare il duplice requisito soggettivo ed oggettivo richiesto per l’inclusione del bene nel novero di quelli di cui all’art. 826 c.c.
Dall’altro si riscontra nella sentenza una esauriente risposta alle avverse deduzioni, sia in merito alla tesi dell’intervenuta sclassificazione dei beni, per effetto del solo interpello agli assegnatari circa l’intenzione di rendersene acquirenti, sia in ordine alla dedotta incidenza, sempre ai fini della declassificazione, della successiva Delib. Giunta di luglio del 2012, non potendo nemmeno spiegare efficacia ai fini auspicati dal ricorrente, le eventuali anomalie ed irregolarità nella concreta gestione dei beni, non essendosi verificata alcuna radicale trasformazione dei beni ed essendo anche nel caso di occupazione da parte di soggetti diversi dai legittimi assegnatari, restata intatta l’idoneità del bene a soddisfare l’interesse pubblico al quale sono stati destinati.
Del pari non configurabile è la violazione delle norme di cui alla rubrica del secondo motivo, occorrendo a tal fine ricordare che la violazione dell’art. 2697 c.c. si configura se il giudice di merito applica la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l’onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costituivi ed eccezioni, mentre per dedurre la violazione del paradigma dell’art. 115 è necessario denunciare che il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma, il che significa che per realizzare la violazione deve avere giudicato o contraddicendo espressamente la regola di cui alla norma, cioè dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (fermo restando il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio, previsti dallo stesso art. 115 c.p.c.), mentre detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dal paradigma dell’art. 116 c.p.c., che non a caso è rubricato.;’n “valutazione delle prove” (Cass. n. 11892 del 2016; Cass. S.U. n. 16598/2016).
Ne consegue che, anche a voler superare la sovrapposizione nell’esposizione di parte ricorrente dei vari atti difensivi prodotti nelle fasi di merito, e cercando quindi di riscontrare una censura riferibile alla sentenza gravata, risulta con evidenza come nella sostanza le critiche attengano alla complessiva valutazione dei fatti di causa, come operata dal giudice di appello, sollecitandosi a tal fine una non consentita rivalutazione, preclusa al giudice di legittimità.
4. Altrettanto infondato si palesa poi il terzo motivo di ricorso. Ed, invero, va ribadito il principio secondo cui (Cass. n. 10184/2013) il giuramento, sia decisorio che suppletorio, non può vertere sull’esistenza o inesistenza di rapporti giuridici o di situazioni giuridiche, nè può deferirsi per provocare l’espressione di apprezzamenti od opinioni, e, tantomeno, di valutazioni giuridiche, dovendo la sua formula avere ad oggetto circostanze determinate, che, quali fatti storici, siano stati percepiti dal giurante con i sensi o con l’intelligenza (conf. Cass. n. 5163/1993).
Costituisce poi principio altrettanto pacifico quello secondo cui (cfr. Cass. n. 9831/2014) la formula del giuramento decisorio attese le finalità di questo speciale mezzo di prova – deve essere tale che, a seguito della prestazione del giuramento stesso, altro non resta al giudice che verificare l'”an iuratum sit”, onde accogliere o respingere la domanda sul punto che ne ha formato oggetto, così che la valutazione (positiva o negativa) della decisorietà della formula del giuramento è rimessa all’apprezzamento del giudice del merito, il cui giudizio circa l’idoneità della formula a definire la lite è sindacabile in sede di legittimità con esclusivo riferimento alla sussistenza di vizi logici o giuridici attinenti all’apprezzamento espresso dal predetto giudice (Cass. 24025/2009).
Nella fattispecie è pur vero che non risulta una motivazione esplicitamente volta ad illustrare le ragioni del diniego della prova richiesta, ma va ricordato che la motivazione di rigetto di un’istanza di mezzi istruttori non deve essere necessariamente data in maniera espressa, potendo la stessa ratio decidendi, che ha risolto il merito della lite, valere da implicita esclusione della rilevanza dei mezzi dedotti ovvero da implicita ragione del loro assorbimento in altri elementi acquisiti al processo (Cass. n. 6078/1990; Cass. n. 6047/1995; Cass. n. 6570/2004).
Il capitolato articolato sul punto dal ricorrente, risulta evidentemente carente del requisito della decisività come sopra inteso, in quanto mentre il capo b) ha carattere addirittura esplorativo (vertendo sull’esistenza o meno nella documentazione del Comune di un qualsiasi atto appartenente al ricorrente che riconosce il diritto di proprietà in capo all’ente) ed il capo c) presuppone a monte risolto il profilo dell’usucapibilità del bene (dimostrazione circa l’esistenza di una contestazione del possesso ultraventennale da parte del convenuto), il capo a) vorrebbe dimostrare che il bene sarebbe stato inserito nelle poste attive del bilancio comunale sin dal 1981, come appartenente al patrimonio disponibile dell’ente, implicando una valutazione ad opera di colui che sarebbe chiamato a renderlo, e trascurando di considerare l’irrilevanza, come sopra esposto, di una sclassificazione priva di un formale provvedimento dell’ente proprietario del bene, sicchè il mancato rendimento del giuramento comunque non porterebbe alla decisione favorevole alla parte.
5. Al rigetto del ricorso consegue che le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
6. Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte dei ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, non essendo stato depositato il provvedimento di ammissione al patrocinio a spese dello Stato.
PQM
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso delle spese in favore del controricorrente che liquida in complessivi Euro 3.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15 % sui compensi ed accessori di legge;
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente del contributo unificato dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda civile della Corte Suprema di Cassazione, il 20 luglio 2018.
Depositato in Cancelleria il 23 ottobre 2018
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