LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –
Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –
Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –
Dott. VELLA Paola – rel. Consigliere –
Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 23971/2013 proposto da:
D.R.L., elettivamente domiciliato in Roma, Via Alessandria n. 88, presso lo studio dell’avvocato Di Cola Alessia, rappresentato e difeso dall’avvocato De Stavola Carlo, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
Fallimento della ***** S.p.a. (*****), in Liquidazione, in persona del curatore prof. avv. S.M., elettivamente domiciliato in Roma, Viale Giulio Cesare n. 78, presso lo studio dell’avvocato Orsini Alessandro, rappresentato e difeso dall’avvocato Boccagna Raffaele, giusta procura a margine del controricorso;
– controricorrente –
avverso il decreto del TRIBUNALE di SANTA MARIA CAPUA VETERE, depositato il 19/09/2013;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 25/05/2018 dal Cons. Dott. VELLA PAOLA.
FATTI DI CAUSA
1. Con la sentenza impugnata, il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere ha respinto l’opposizione allo stato passivo della ***** S.p.a. in Amministrazione Straordinaria, proposta dal sig. D.R.L. ai sensi della L. Fall., art. 98, per contestare il disconoscimento del proprio credito di lavoro (pari a 18 mensilità di retribuzione e t.f.r.) maturato quale ferrotranviere dal marzo 2008 – epoca in cui fu sospeso dal servizio dopo essere stato “tratto in arresto perchè ritenuto responsabile, in concorso con altri, di furto di gasolio appartenente alla società ***** S.p.A.” – al luglio 2009, epoca della sentenza dichiarativa di insolvenza della società datrice di lavoro, poi dichiarata fallita nel marzo 2012.
2. Il giudice dell’opposizione ha osservato che la ***** S.p.A. “aveva inflitto al ricorrente, per motivi disciplinari, la sanzione della sospensione dal servizio e dalla retribuzione” e che “tale sanzione risulta mai essere stata caducata, non risulta esservi mai stata alcuna statuizione in ordine al reintegro del lavoratore, nè lo stesso risulta aver mai prestato, per il periodo in relazione al quale avanza le pretese economiche oggetto della presene procedura, alcuna attività lavorativa in favore della società dichiarata successivamente fallita”.
3. Avverso detta decisione il D.R. ha proposto ricorso affidato a tre motivi, cui il Fallimento ***** S.p.a. in liquidazione (*****) ha resistito con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo – rubricato “Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 5” – il ricorrente si duole che il Tribunale non abbia considerato “l’insussistenza di una vera e propria sanzione disciplinare a carico del lavoratore… soprattutto in assenza di una sentenza penale definitiva di condanna del lavoratore, nonchè in difetto di un provvedimento di definizione del procedimento disciplinare, che di fatto non si è mai chiuso, essendo intervenuta sentenza che dichiarava lo stato di insolvenza, prima della reintegra del lavoratore e della definizione del procedimento disciplinare”. Aggiunge inoltre che, “laddove all’esito del giudizio penale il lavoratore dovesse essere assolto, egli avrebbe dritto alle retribuzioni per i periodi in cui veniva sospeso dal servizio”.
2. Con il secondo mezzo – rubricato “Violazione e falsa applicazione delle norme di diritto ex art. 360 c.p.c., comma 3, R.D. n. 148 del 1931, art. 46 comma 6” – si deduce il mancato rispetto della norma citata, ai sensi della quale “Nel caso di sospensione disposta per procedimento disciplinare o per arresto dovuto a cause di servizio, l’agente ha diritto all’indennizzo di quanto ha perduto per effetto della sospensione, semprechè sia assolto per non aver commesso il fatto, per inesistenza di reato o perchè il fatto non costituisca reato”, per non avere il Tribunale riconosciuto a priori il diritto del lavoratore di percepire le retribuzioni arretrate, afferenti al periodo di sospensione… in assenza di una condanna definitiva, “anticipando” così l’esito del giudizio penale, che è tutt’ora pendente in primo grado”.
3. Con il terzo motivo – rubricato “Violazione o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c.” – si assume che “avrebbe dovuto essere la società fallita a dover fornire eventualmente la prova della irrogazione di una sanzione disciplinare coincidente con il periodo di sospensione, che si ribadisce è stato disposto con provvedimento cautelare (e non disciplinare, peraltro non seguito da sanzione)… e non di certo era onere del lavoratore quello di provare l’avvenuta caducazione ovvero l’inesistenza stessa della sanzione”.
4. Tutti i motivi – che in quanto connessi possono essere esaminati congiuntamente – presentano profili di inammissibilità prima ancora che di infondatezza.
5. In generale, l’illustrazione del ricorso difetta di autosufficienza, poichè non è chiaro nè il contenuto della “lettera di giustificazione ed impugnativa della contestazione” citata a pag. 2 del ricorso, che lo stesso ricorrente definisce “disciplinare” (cui pacificamente non seguì la reintegrazione), nè quale fosse la specifica domanda proposta nel procedimento avviato dal ricorrente ai sensi dell’art. 700 c.p.c. (apparentemente conclusosi con riconoscimento dell’assegno alimentare pari alla metà della retribuzione R.D. n. 148 del 1931, ex art. 46, con implicita conferma della sospensione cautelare disposta a seguito dell’imputazione penale), nè ancora se vi sia stato un seguito a quei procedimenti e soprattutto quale sia l’esito del processo penale più volte menzionato in ricorso.
6. Inoltre, mentre i primi due motivi – specie il secondo – sono costruiti in chiave ipotetica rispetto all’eventuale assoluzione nel processo penale (di cui però, come detto, non vi è traccia), il terzo sembra non cogliere la ratio decidendi della pronuncia impugnata, poichè vi si disquisisce sull’onere della prova dei presupposti della sanzione disciplinare, laddove il giudice a quo si era limitato a rilevare la mancanza di prova di una reintegra sul posto di lavoro o di prestazione dell’attività lavorativa relativa alle 18 mensilità in questione.
7. In ogni caso, il Tribunale ha fondato la propria decisione sulla esistenza del provvedimento di sospensione – della cui eventuale revoca l’interessato non ha allegato l’esistenza – e sulla mancata prestazione lavorativa nel periodo interessato. D’altro canto, è lo stesso ricorrente ad aver dichiarato che detta sospensione era stata disposta a causa della pendenza di un processo penale a suo carico e non come provvedimento disciplinare, affermando egli stesso che solo a seguito di assoluzione in sede penale il lavoratore riacquisterebbe il diritto alla retribuzione.
8. Al rigetto del ricorso segue la condanna alla rifusione delle spese in favore del controricorrente, liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.000,00 per compensi, oltre a spese forfettarie nella misura del 15 per cento, esborsi liquidati in Euro 200,00 ed accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, il 25 maggio 2018.
Depositato in Cancelleria il 23 ottobre 2018